I “principi” della nuova legislazione
Com’è noto, l’autonomia legislativa delle regioni in materia urbanistica deve esplicarsi nell’ambito dei principi della legislazione nazionale: principi derivanti da una legislazione nazionale d’inquadramento ad hoc, o principi desumibili dalla legislazione previgente. Non esiste una nuova definizione legislativa in materia. Esistono proposte, più o meno solide nel consenso ottenuto ma ancora prive di vigenza. Alcune di queste proposte (in particolare quelle che hanno ottenute, nelle due ultime legislature, il più vasto consenso) inseriscono tra i principi il meccanismo di pianificazione che ho prima illustrato. Ma oramai, per quanto riguarda il nuovo assetto interno del meccanismo di pianificazione, è difficile che il legislatore nazionale modifichi norme ormai consolidate a livello regionale. Conviene invece affrontare la questione dei principi a proposito di un tema nel quale l’intervento del Parlamento è senz’altro necessario: quello della ripartizione delle competenze, e dei raccordi istituzionali, nel rapporto tra i diversi livelli di governo: nazionale, regionale, provinciale, comunale.
A mio parere non c’è reale e sostanziale differenza tra pianificazione territoriale e pianificazione urbanistica. La pianificazione infatti è, a mio parere, il metodo generale che gli enti pubblici elettivi di primo grado (in Italia: comuni, regioni, province, stato) adottano quando effettuano scelte suscettibili di incidere sull’assetto fisico e funzionale del territorio.
Questo criterio può essere definito come “principio di pianificazione”, e può essere così espresso. ogni ente elettivo di primo grado, rappresentante di interessi generali della cittadinanza, esprime le proprie scelte sul territorio mediante atti di pianificazione: atti cioè nei quali le scelte siano esplicite, chiaramente definite nei confronti di tutti, trasparenti e - ovviamente - precisamente riferite al territorio, cioè rappresentate su di una base cartografica di scala adeguata alla maggiore o minore definizione e precettività delle scelte.
Qusto principio è stato espresso in modo molto chiaro fin dal 1988, nell’ambito della “Commissione incaricata di procedere al riordinamento delle disposizioni legislative nazionali in materia di procedure urbanistiche, uso e assetto del territorio”, istituita dal Ministro Enrico Ferri e presieduta dal Direttore generale Vezio De Lucia. Il documento pone, al primo posto tra i principi da definire nella legislazione nazionale,
L'assunzione del metodo della pianificazione come criterio fondamentale di guida delle azioni della Pubblica amministrazione suscettibili di incidere nell'assetto del territorio.
Il medesimo principio è praticamente assunto - in modo più o meno chiaro - da tutti i disegni di legge in materia di urbanistica presentati al Parlamento. Ad esempio, la proposta di legge presentata nel luglio 1997 dai deputati del Pds recita:
1. Al governo del territorio si provvede mediante la predisposizione di piani territoriali e urbanistici, nonché di eventuali piani specialistici e di settore, e mediante la programmazione dei relativi interventi.
2. La predisposizione e l’approvazione di piani territoriali e urbanistici, e di piani specialistici e di settore, competono allo Stato, alle regioni, alle province, sulla base di quanto prescritto dalla presente legge e dalle leggi vigenti in materia di difesa del suolo, di tutela dell’ambiente e dei beni culturali.
3. Gli atti riguardanti trasformazioni fisiche e funzionali del territorio e degli immobili che lo compongono devono essere conformi agli strumenti di pianificazione e programmazione [i].
Se Stato, regioni, province e comuni hanno tutti poteri e competenze che comportano l’assunzione di decisioni suscettibili di modificare l’assetto del territorio, e se ciascuno di questi enti deve esercitare tali poteri mediante la pianificazione[ii], come fare per regolare, in modo corretto e compiuto, i rapporti tra tali livelli di governo (e i corrispondenti atti di pianificazione)? È un problema che è decisivo risolvere in modo convincente.
Esistono molti modi di ripartire le competenze tra soggetti di diverso livello. Un tempo si praticava una ripartizione basata sulle “materie” (gli acquedotti spettano a Tizio, i trasporti a Caio, l’ambiente a Sempronio). Si può dire che questa concezione ha prevalso nel nostro paese grosso modo fino ai decreti di trasferimento delle competenze alle regioni, nel 1977. Oggi il criterio prevalente è quello di riferire le competenze a oggetti [1] e aspetti, adoperando per la ripartizione un criterio adottato dagli organismi europei per distinguere le competenze tra la responsabilità comunitaria e quella dei singoli stati. Si tratta del “principio di sussidiarietà”. In che cosa consiste? Riferiamoci al testo del Trattato dell’Unione Europea, solennemente sottoscritto a Maastricht dai rappresentanti di dodici governi il 7 febbraio 1992. L’articolo 3b afferma:
La Comunità interviene entro i limiti dei poteri ad essa conferiti da questo Trattato e degli obiettivi ad essa assegnati. Nei campi che non ricadono nella sua esclusiva competenza la Comunità interviene, in accordo con il principio di sussidiarietà, solo se, e fino a dove, gli obiettivi delle azioni proposte non possono essere sufficientemente raggiunti dagli Stati membri e, a causa della loro scala o dei loro effetti, possono essere raggiunti meglio dalla Comunità.
Il principio di sussidiarietà significa perciò che là dove un determinato livello di governo non può efficacemente raggiungere gli obiettivi proposti, e questi sono raggiungibili in modo più soddisfacente dal livello di governo sovraordinato (lo Stato nei confronti della Regione, o l’Unione europea nei confronti degli stati nazionali) è a quest’ultimo che spetta la responsabilità e la competenza dell’azione. E la scelta del livello giusto va compiuta non in relazione a competenze astratte o nominalistiche, oppure a interessi demaniali, ma (prosegue il legislatore europeo) in relazione a due elementi precisi: la scala dell’azione (o dell’oggetto cui essa si riferisce) oppure i suoi effetti.
Così, ad esempio, si può mai ipotizzare che una strada di grande comunicazione, magari connessa a un sistemi di itinerari europei, abbia rilevanza solo regionale? È certamente un’opera di scala almeno nazionale, come lo è un elemento del sistema portuale o aeroportuale nazionale: per la sua scala, appunto, e non per l’ente che vi ha competenza amministrativa o patrimoniale. Forse che la grande rete dei trasporti, che connette le varie parti del paese e i nodi del sistema insediativo e di quello produttivo, non è al servizio della “Azienda Italia” nel suo complesso? E non richiede perciò forse un loro “governo” alla scala dell’intera nazione?
Del tutto analogo il ragionamento nel campo dell’ambiente. Del resto, con la legge 431/1985 si era affermato un modo di connettere le responsabilità dei livelli di governo, distinguendone le competenze in relazione alla scala degli interessi territoriali coinvolti, del tutto coerente con il principio di sussidiarietà (nella sua accezione europea, non in quella padana). Quella legge determinava infatti e vincolava, come abbiamo visto, i grandi elementi del paesaggio nazionale, rilevanti alla scala dell’intera Penisola (l’orditura del paesaggio costituita dalle montagne, le coste, i fiumi, i boschi) impegnando regioni, province e comuni ad approfondire l’analisi e le scelte di tutela alla loro scala.
E ancora. Se le opere di grande scala e la tutela del paesaggio sono responsabilità e competenza del governo nazionale (poiché solo a questa scala possono essere efficacemente governati), se alla medesima responsabilità e competenza appartiene orientare l’insieme delle politiche economiche e sociali (poiché il nostro capitalismo a tutto è disposto a rinunciare, non a essere assistito), come quelle per la mobilità e i trasporti, è davvero “moderno” e “federalista” rinunciare ad applicare quella responsabilità di definizione delle “linee fondamentali dell’assetto territoriale nazionale”, che il Dpr 616/1977 attribuiva allo Stato? In effetti, se Il principio della sussidiarietà ci dice che il l’assetto del territorio nazionale non può nascere dall’assemblaggio delle singole decisioni regionali, il principio della pianificazione ci dice che i problemi delle reti e delle loro connessioni, quello dell’ambiente e delle risorse naturali e storiche, quello del sistema insediativo, non possono essere affrontati separatamente: a meno che non si voglia rischiare ancora i conflitti, le paralisi, le inefficienze che inevitabilmente nascono quando le decisioni relative a singole parti di un sistema solidale vengono prese separatamente.
Accanto al principio della sussidiarietà, gli stessi orientamenti legislativi nazionali suggeriscono l’introduzione di una pratica: quella della concertazione. Si tratta, per la verità, di una pratica presente da decenni nella tradizione delle amministrazioni centrali dello Stato.
Le leggi regionali nuove (o, almeno, la maggior parte di esse) definisce questa pratica inventando un nuovo istituto (prevalentemente denominato “Conferenza di pianificazione”), e attribuendogli un ruolo di consultazione obbligatoria del corso del procedimento formativo degli atti di pianificazione. È interessante osservare che le regioni tendono, giustamente, a distinguere il ruolo degli enti pubblici da quello dei privati, riservando le conferenze di pianificazione (o simili) ai rappresentanti dei primi. Alcune, poi, distinguono il ruolo di partecipazione consultiva dei privati privilegiando (o riservando la partecipazione) alle associazioni che esprimono interessi diffusi.
Altrettanto rilevante è che le leggi regionali tendano a chiudere i troppi varchi che la legislazione statale ha aperto, con i numerosissimi “strumenti urbanistici anomali”, alla deroga generalizzata al sistema di garanzie che le procedure della formazione dei piani vuole assicurare. Anche nel caso di “acordi di programma” o di altre intese potenzialmente derogatorie, la maggior parte delle leggi regionali ribadiscono la necessità dell’approvazione esplicita da parte degli organi collegiali delle amministrazioni elettive interessate, e quella della sostanziale conformità alle regole, oltre che alle finalità, degli strumenti urbanistici ordinari.
Assumere pienamente il principio di sussidiarietà, distinguere le competenze per oggetti e aspetti anziché per materie consente di definire in modo soddisfacente e innovativo il rapporto tra i livelli di governo nelle procedure di formazione. Queste, come ho affermati fin dai primi capitoli, costituiscono un problema essenziale di qualsiasi processo di pianificazione legato ai procedimenti e agli istituti della democrazia rappresentativa. Fino ad oggi, il procedimento di formazione garantiva che gli interessi espressi dal livello di governo sovraordinato fossero tenuti in debito conto mediante l’istituto della approvazione. L’altro ieri lo Stato, ieri le regioni, oggi sempre più frequentemente le province approvano i piani comunali; la regione approva i piani provinciali (lo Stato decide e incide, ma non lo dice). L’assunzione del principio di pianificazione consente finalmente di risolvere questo problema in modo diverso.
Si tratta, in definitiva, di stabilire che, poiché ogni livello di governo esprime i propri interessi sul territorio (nei limiti che il principio di sussidiarietà attribuisce alla sua responsabilità) mediante un atto di pianificazione, all’approvazione (cioè all’ingerenza tendenzialmente discrezionale del livello sovraordinato sulle decisioni del livello sottordinato) si sostituisce la mera “verifica di conformità”: ossia la verifica che l’atto di pianificazione del livello sottordinato non sia difforme rispetto alle prescrizioni del livello sovraordinato. Si tratta, evidentemente, di un atto molto più snello e meno “impiccione” dell’approvazione.
Entriamo adesso più direttamente nell’esame di alcuni contenuti delle leggi regionali. Come ho accennato, fino all’inizio degli anni Novanta le regioni hanno legiferato agendo, nella generalità dei casi, nell’ambito del sistema della legge 1150 del 1942. È solo dopo l’entrata in vigore delle nuove norme sull’ordinamento degli enti locali (legge 142 del 1990) che nelle regioni si apre una nuova fase, ricca di innovazioni anche sostanziali. Le leggi più rilevanti mi sembrano le seguenti: Toscana, legge 5 del1995; Umbria, legge 28 del 1995 e legge 31 del 1997; Liguria, legge 36 1997; Basilicata, legge 23 del 1999; Lazio, legge 38 del 1999; EmiliaRomagna, legge 217 del 2000. Ne illustrerò alcuni aspetti che mi sembrano più significativi in relazione a quanto ho finora esposto. D’ora in avanti mi riferirò alle leggi tralasciando il numero e l’anno, e indicando solo il nome della regione.
Tutte le regioni assumono come principio quello stabilito dalla 142 del 1990, in ordine alla individuazione, a livello substatuale, di tre livelli di pianificazione, corrispondenti ai tre livelli di governo elettivo di primo grado a rappresentanza generale: la Regione, la Provincia, il Comune. Le leggi regionali attribuiscono tutte il massimo valore precettivo e riassuntivo alla pianificazione comunale, attribuendo invece significati e perentorietà diverse alle pianificazioni regionale e provinciale.
Esse danno anche nomi diversi ai diversi documenti di pianificazione: la mancanza di un coordinamento nazionale sta provocando qualche problema dal punto di vista della comprensione da parte dei cittadini, italiani ed europei, i quali si trovano di fronte a oggetti spesso simili denominati in modo spesso molto diverso. Come si vede nella seguente tabella 1.
Tabella 1 – Denominazione degli strumenti di pianificazione generale, per livello
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Tutte le leggi regionali cui mi riferisco adottano, sia pure in maniera molto diversificata, la distinzione di due (o più) componenti, o parti, o disposizioni, nell’ambito degli atti di pianificazione generale, o, più ampiamente, di più piani con differenti denominazioni, contenuti, procedure.
Tutte le leggi attribuiscono alla pianificazione di livello comunale, e ai relativi documenti, un carattere complessivo e riassuntivo di tutte le scelte sull’assetto del territorio. Lo stabilisce in modo esplicito la legge dell’Emilia Romagna (articolo 19):
1. La pianificazione territoriale e urbanistica recepisce e coordina le prescrizioni relative alla regolazione dell’uso del suolo e delle sue risorse ed i vincoli territoriali, paesaggistici ed ambientali che derivano dai piani sovraordinati, da singoli provvedimenti amministrativi ovvero da previsioni legislative.
2. Quando la pianificazione urbanistica comunale abbia recepito e coordinato integralmente le prescrizioni ed i vincoli di cui al comma 1, essa costituisce la carta unica del territorio ed è l'unico riferimento per la pianificazione attuativa e per la verifica di conformità urbanistica ed edilizia, fatti salvi le prescrizioni ed i vincoli sopravvenuti, anche ai fini dell’autorizzazione per la realizzazione, ampliamento, ristrutturazione o riconversione degli impianti produttivi, ai sensi del D.P.R. 20 ottobre 1998, n. 447.
In relazione anche a questo suo carattere la pianificazione comunale è sempre articolata in più elementi. Così:
la Toscana articola la pianificazione comunale in “piano strutturale”, “regolamento urbanistico” e “Programma integrato d’intervento”: il primo con un carattere di individuazione e classificazione delle risorse territoriali, il secondo con efficacia di attribuzione di prescrizioni (e valori) agli immobili, il terzo con funzione programmatica e operativa:
la Basilicata e l’Emilia Romagna articola analogamente la pianificazione comunale in “piano strutturale comunale”, “piano operativo” e regolamento urbanistico”
l’Umbria articola il piano comunale in una “parte strutturale, che individua le specifiche vocazioni territoriali a livello di pianificazione generale in conformità con gli obbiettivi ed indirizzi urbanistici regionali e di pianificazione territoriale provinciale”, e una “parte operativa, che individua e disciplina le previsioni urbanistiche nelle modalità, forme e limiti stabiliti nella parte strutturale”;
la Liguria articola il “piano urbanistico comunale” in “descrizione fondativa”, “documento degli obiettivi”, “struttura del piano”, “norme di conformità e di congruenza”;
il Lazio articola il “piano urbanistico comunale” in “disposizioni strutturali” e “disposizioni programmatiche”.
Come si vede, alcune regioni prevedono più piani, tra loro connessi ma reciprocamente autonomi, per le componenti strategico-strutturali e pre quelle più direttamente operative; altri invece articolano in più componenti un’unica figura pianificatoria generale.
Alcune leggi regionali attribuiscono l’articolazione della pianificazione in più parti o componenti anche ai livelli sovraordinati. Così:
la Liguria prevede a ciascuno dei tre livelli un documento di analisi fondativa (“quadro descrittivo” a livello regionale, “descrizione fondativa” a livello provinciale e comunale), una trascrizione precettiva di tale analisi (“quadro strutturale” e “struttura del piano”).
il Lazio prevede la distinzione tra “disposizioni strutturali” e “disposizioni programmatiche” anche a livello regionale e provinciale. In particolare, la legge stabilisce che “la pianificazione territoriale ed urbanistica generale si articola in: previsioni strutturali, con validità a tempo indeterminato, relative alla tutela dell’integrità fisica e dell’identità culturale del territorio regionale, alla definizione delle linee fondamentali e preesistenti di organizzazione del territorio ed alla indicazione delle trasformazioni strategiche comportanti effetti di lunga durata; previsioni programmatiche, riferite ad archi temporali determinati, dirette alla definizione specifica delle azioni e delle trasformazioni fisiche e funzionali da realizzare e costituenti riferimento per la programmazione della spesa pubblica nei bilanci annuali e pluriennali” (articolo 4).
In tutte le leggi considerate la tutela e la riqualificazione dell’ambiente, la sostenibilità ambientale, le risorse naturali e storiche del territorio, la sua integrità fisica e identità culturale, l’ecologia – insomma, le diverse accezioni e definizioni e accentuazion delle risorse territoriali – acquistano un peso rilevante nella indicazione dei contenuti, degli obiettivi e anche (nei casi più interessanti) nei procedimenti della pianificazione.
Tra le asserzioni di carattere generale merita di essere segnalato il testo della legge della Toscana (articolo 5 - Norme generali per la tutela e l'uso del territorio, comma 3):
“Nessuna risorsa naturale del territorio può essere ridotta in modo significativo e irreversibile in riferimento agli equilibri degli ecosistemi di cui è componente. Le azioni di trasformazione del territorio sono soggette a procedure preventive di valutazione degli effetti ambientali previste dalla legge. Le azioni di trasformazione del territorio devono essere valutate e analizzate in base a un bilancio complessivo degli effetti su tutte le risorse essenziali del territorio”.
Al di là delle dichiarazioni di volontà e d’intenti (che possono essere fuorvianti o ipocrite) conviene verificare in che modo l’interesse per le risorse del territorio si esprime nei contenuti e nei meccanismi della pianificazione. Citando ancora la legge della Toscana, la conseguenza precettiva dell’asserzione ora citata è la seguente:
“Tutti i livelli di piano previsti dalla presente legge inquadrano prioritariamente invarianti strutturali del territorio da sottoporre a tutela, al fine di garantire lo sviluppo sostenibile nei termini e nei modi descritti dall'articolo 1” (articolo 5, comma 6).
Alcune regioni attribuiscono già al livello regionale la “attenta considerazione dei valori paesistici e ambientali”. Così:
La legge dell’Umbria assume come missione dell’unico strumento di pianificazione regionale, il Piano urbanistico regionale, i seguenti: “a) disciplina e configura l'assetto territoriale regionale tenuto conto della salvaguardia dell'ambiente naturale, delle strutture produttive e insediative, nonché delle reti infrastrutturali; b) stabilisce gli indirizzi generali di tutela e valorizzazione del patrimonio di interesse regionale e fissa le modalità per il loro perseguimento; c) coordina le scelte regionali con quelle di carattere sovraregionale”(articolo 5 lex 28/1995) .
La legge della Liguria attribuisce sostanziali contenuti di individuazione delle risorse paesaggistiche e ambientali sia al “quadro descrittivo” che al”quadro strutturale della pianificazione regionale (articoli 9 e 11), e prevede uno “studio di sostenibilità ambientale per le “previsioni di trasformazione territoriale prefigurate in termini di localizzazione” (articolo 11).
la legge della Basilicata dedica il più “solido” dei suoi atti di livello regionale (la “Carta dei suoli”), alla “la perimetrazione dei Sistemi (naturalistico-ambientale, insediativo, relazionale) che costituiscono il territorio regionale, individuandoli nelle loro relazioni e secondo la loro qualità ed il loro grado di vulnerabilità e di riproducibilità” (articolo 10); l’altro strumento di livello regionale, il “Quadro strutturale regionale”, che è definito “l'atto di programmazione territoriale con il quale la Regione definisce gli obiettivi strategici della propria politica territoriale, in coerenza con le politiche infrastrutturali nazionali e con le politiche settoriali e di bilancio regionali”, definisce tali obiettivi strategici solo dopo “averne verificato la compatibilità con i principi di tutela, conservazione e valorizzazione delle risorse e beni territoriali esplicitate nella Carta regionale dei suoli” (articolo 10).
La legge dell’Emilia Romagna assume che Il Piano territoriale paesistico regionale “costituisce parte tematica del PTR, avente specifica considerazione dei valori paesaggistici, ambientali e culturali del territorio regionale, anche ai fini dell'art. 149 del D. Lgs. 29 ottobre 1999, n. 490” e stabilisce che “Il PTPR provvede all'individuazione delle risorse storiche, culturali, paesaggistiche e ambientali del territorio regionale ed alla definizione della disciplina per la loro tutela e valorizzazione.
La legge della Toscana e quella del Lazio non attribuiscono invece particolare evidenza al contenuto ambientale della pianificazione di livello regionale.
Nella pianificazione di livello provinciale il contenuto ambientale, è sempre indicato con particolare incisività, con efficacia precettiva diretta o almeno indiretta. Così:
in Toscana il piano territoriale provinciale contiene: “a) il quadro conoscitivo delle risorse essenziali del territorio e il loro grado di vulnerabilità e di riproducibilità in riferimento ai sistemi ambientali locali indicando, con particolare riferimento ai bacini idrografici, le relative condizioni d'uso, anche ai fini delle valutazioni di cui all'articolo 32 ; b) prescrizioni sull'articolazione e le linee di evoluzione dei sistemi territoriali, urbani, rurali e montani” (articolo 16).
In Umbria il piano urbanistico provinciale, tra l’altro: “a) sulla base delle caratteristiche geologiche, idrogeologiche e sismiche del territorio stabilisce le linee di intervento nelle aree oggetto di difesa del suolo e delle acque e per le attività estrattive; individua altresì le aree che richiedono ulteriori studi ed indagini a carattere particolare, ai fini della pianificazione comunale; provvede alla tutela ecologica del territorio anche mediante la valorizzazione delle risorse idriche ed energetiche ed alla prevenzione dall'inquinamento dell'aria, dell'acqua e del suolo; b) individua gli ambiti del territorio agricolo e boschivo che presentano caratteristiche omogenee e detta criteri per le relative discipline d'uso; detta altresì criteri per la localizzazione degli allevamenti agro-zootecnici con particolare riferimento a quelli che comportano particolare impatto ambientale; (…) e) individua le parti del territorio ed i beni di rilevante interesse paesaggistico, ambientale, naturalistico e storico-culturale, comprese le categorie di cui all'art. 1 della legge 8 agosto 1985, n. 431, da sottoporre a specifica normativa d'uso per la loro tutela e valorizzazione; indica le aree da destinare a parco o a riserva naturale con particolare riferimento a quelle individuate dal Sistema parchi ambiente regionale; f) definisce le vocazioni prevalenti per ambiti del territorio provinciale con particolare riferimento a quelli nei quali sono necessari interventi di tutela, conservazione e ripristino ambientale, indicando le relative destinazioni di massima, i criteri e gli indirizzi, al fine di favorire l'uso integrato delle risorse territoriali;
In Liguria il piano provinciale, nella “struttura del piano”, tra l’altro: individua “le parti del territorio provinciale atte a conferire organicità e unitarietà, sotto il profilo della rigenerazione ecologica, al disegno di tutela e di conservazione ambientale delineato dalla pianificazione (…) c) integra e sviluppa gli elementi del PTR nella sua espressione paesistica, secondo le indicazioni contenute nel piano stesso, come stabilito dall’articolo 12, comma 3; d) definisce i criteri di identificazione delle risorse territoriali da destinare ad attività agricole e alla fruizione attiva, anche a fini di presidio ambientale e ricreativi; (…) f) definisce le azioni di tutela e di riqualificazione degli assetti idrogeologici del territorio, recepisce ed integra ove necessario, a norma della vigente legislazione in materia, le linee di intervento per la tutela della risorsa idrica, per la salvaguardia dell'intero ciclo delle acque, fermo restando il disposto di cui all’articolo 2, comma 5, e coordina gli effetti dei piani di bacino sulla pianificazione locale.
In Emilia Romagna il piano territoriale provinciale, tra l’altro: “c) definisce i criteri per la localizzazione e il dimensionamento di strutture e servizi di interesse provinciale e sovracomunale; d) definisce le caratteristiche di vulnerabilità, criticità e potenzialità delle singole parti e dei sistemi naturali ed antropici del territorio e le conseguenti tutele paesaggistico ambientali; e)definisce i bilanci delle risorse territoriali e ambientali, i criteri e le soglie del loro uso, stabilendo le condizioni e i limiti di sostenibilità territoriale e ambientale delle previsioni urbanistiche comunali che comportano rilevanti effetti che esulano dai confini amministrativi di ciascun ente” (articolo 26).
In Basilicata e nel Lazio i contenuti del piano di livello provinciale non forniscono indicazioni più precise rispetto a quelle generali.
Molte leggi regionali in termini espliciti, la maggioranza in termini almeno impliciti, fa piazza pulita con la congerie di strumenti urbanistici attuativi accresciutasi sul ceppo della legge 1150 del 1942. Saggiamente, si tende a individuare un solo strumento urbanistico attuativo (anche qui, le denominazioni sono le più svariate: Liguria: Progetto urbanistico operativo; Umbria, Toscana e Basilicata: Piani attuativi; Lazio: Piani urbanistici operativi comunali; Emilia Romagna: Piani urbanistici attuativi) al quale volta per volta vengono attribuiti, con la delibera d’approvazione, gli effetti di questa o quell’altra legge.
Così, ad esempio, la legge della Toscana (articolo 31) stabilisce che:
“I piani attuativi sono strumenti urbanistici di dettaglio approvati dal Comune, in attuazione del regolamento urbanistico o del programma integrato d'intervento, ai fini del coordinamento degli interventi sul territorio aventi i contenuti e l'efficacia:
a) dei piani particolareggiati, di cui all'articolo 13 della legge 17 agosto 1942, n. 1150
b) dei piani di zona per l'edilizia economica e popolare, di cui alla legge 18 aprile 1962, n. 167
c) dei piani per gli insediamenti produttivi, di cui all'articolo 27 della legge 22 ottobre 1971, n. 865
d) dei piani di recupero del patrimonio edilizio esistente, di cui all'articolo 28 della legge 5 agosto 1978, n. 457
e) dei piani di lottizzazione, di cui all'articolo 28 della legge 17 agosto 1942, n. 1150
f) dei programmi di recupero urbano, di cui all'articolo 11 del D.L. 5 ottobre 1993, n. 398, convertito con legge 4 dicembre 1993, n. 493.
e che “ciascun piano attuativo può avere, in rapporto agli interventi previsti, i contenuti e l'efficacia di uno o più dei piani o programmi di cui al primo comma”, mentre “l'atto di approvazione del piano attuativo individua le leggi di riferimento e gli immobili soggetti ad espropriazione ai sensi delle leggi stesse”.
Identica la formulazione della legge del Lazio (articolo 44), analoga quella della legge dell’Emilia Romagna (articolo 31) e della legge della Basilicata (articolo 17); analoga anche quella dell’Umbria la quale tuttavia distingue i piani attuativi d’iniziativa pubblica, quelli d’iniziativa privata e quelli d’iniziativa mista.
Quasi tutte le leggi esaminate attribuiscono importanza rilevante al sistema delle conoscenze: ne sottolineano la decisività nelle parti generali ed finalistiche della legge, spesso legano con intelligenza le scelte sul territorio alla valutazione del patrimonio conoscitivo, quasi sempre prevedono la formazione di un sistema informativo regionale, coordinato (o coincidente) con quelli delle province e dei comuni. Vale la pena di citare alcuni casi.
Nella legge della Liguria (articolo 7) si afferma che
“le conoscenze che costituiscono il presupposto dell'attività di pianificazione sono patrimonio comune degli Enti che condividono la responsabilità del governo del territorio, nonché di tutti gli altri soggetti (…) che, mediante la propria attività, partecipano alle scelte inerenti l'assetto e le trasformazioni del territorio”.
Essa prescrive che,
“Al fine di garantire la corrispondenza qualitativa e temporale fra le attività di pianificazione e l'acquisizione delle necessarie conoscenze, ciascun Ente, nell'ambito delle proprie responsabilità e competenze, formula un quadro delle esigenze e definisce conseguentemente programmi di acquisizione delle informazioni territoriali, costituenti parte integrante dell'attività di governo del territorio”.
Sulla base di questo quadro la Regione
“acquisisce, organizza e mantiene aggiornato, anche ai fini della consultazione da parte di chiunque vi abbia interesse, il complesso delle informazioni connesse ai diversi livelli di pianificazione e di disciplina del territorio, attraverso la formazione di un sistema informativo territoriale; b)garantisce l'omogeneità e la compatibilità fra le informazioni di varia natura e di vario livello pertinenti alla pianificazione territoriale, definendo le necessarie specifiche tecniche; c) assume le iniziative più opportune al fine di uniformare le metodologie di indagine e di assicurare la raccolta e la circolazione delle informazioni territoriali, anche attraverso intese e convenzioni con gli altri soggetti a ciò interessati, con particolare riguardo ai competenti organi del Ministero dei Beni Culturali ed Ambientali”.
Il patrimonio di conoscenze è alla base del “quadro fondativo” e delle “descrizioni fondative”, componenti fondative della pianificazione ai vari livelli. Lo strumento previsto è il SIT regionale, elemento di una rete informativa degli enti locali (articolo 65).
Anche per la legge Emilia Romagna: “Il quadro delle conoscenze è elemento costitutivo degli strumenti di pianificazione territoriale e urbanistica” (articolo 4).
Analogamente si era espressa la legge della Toscana, per la quale “il S.I.T. costituisce il riferimento conoscitivo fondamentale per la definizione degli atti di governo del territorio e per la verifica dei loro effetti” (articolo 4). Del SIT vengono definit, nel medesimo articolo, i compiti:
a) l'organizzazione della conoscenza necessaria al governo del territorio, articolata nelle fasi della individuazione e raccolta dei dati riferiti alle risorse essenziali del territorio, della loro integrazione con i dati statistici, della georeferenziazione, della certificazione e finalizzazione, della diffusione, conservazione e aggiornamento; b) la definizione in modo univoco per tutti i livelli operativi della documentazione informativa a sostegno dell'elaborazione programmatica e progettuale dei diversi soggetti e nei diversi settori; c) la registrazione degli effetti indotti dall'applicazione delle normative e dalle azioni di trasformazione del territorio.
La legge della Emilia Romagna precisa infine che “il S.I.T. è accessibile a tutti i cittadini e vi possono confluire, previa certificazione nei modi previsti, informazioni provenienti da enti pubblici e dalla comunità scientifica”.
Per la legge della Basilicata
“il Sistema Informativo Territoriale (SIT) costituisce il riferimento conoscitivo fondamentale nella definizione degli strumenti di pianificazione Territoriale e Urbanistica e di programmazione economico-territoriale. Esso promuove pertanto la raccolta ed il coordinamento integrato dei flussi informativi tra i soggetti titolari della PT e U di cui al Titolo II, Capo 1°, al fine di costituire una rete informativa unica, assicurare la circolarità delle informazioni, evitando duplicazioni e sovrapposizioni di raccolta e di analisi delle informazioni stesse” (articolo 41)
Il SIT della Basilicata è elemento di base (articolo 42) della “Carta regionale dei suoli”, a sua volta elemento cardine della pianificazione regionale.
Anche la legge del Lazio prevede la costituzione di un Sistema informativo territoriale regionale, il quale “contiene dati ed informazioni finalizzate alla conoscenza sistematica degli aspetti fisici e socio-economici del territorio, della pianificazione territoriale e della programmazione regionale e locale” (articolo 17).
La legge dell’Umbria, “ai fini di favorire la conoscenza e la diffusione delle informazioni attinenti al territorio” istituisce uno specifico “ Sistema informativo territoriale (S.I.TER.), nell'ambito del Sistema informativo regionale (S.I.R.)”, in relazione al quale “la Giunta regionale, per le finalità indicate al comma 1, realizza sistemi informativi geografici, supporti tematici unificati ed emana apposite direttive e regolamenti, favorendo la redazione di norme tecniche unificate”; essa inoltre, “di intesa con gli enti aventi competenze territoriali, coordina lo sviluppo dei sistemi informativi territoriali” (articolo 35 legge 23/1999).
Alcune leggi propongono, o prescrivono, una classificazione del territorio finalizzata alle scelte di pianificazione.
Così, ad esempio, la legge della Toscana:
- prescrive che il piano di livello provinciale individui gli ambiti “caratterizzati dalla ridotta complessità dei processi urbanistici ed insediativi, dalla omogeneità degli aspetti fisici e paesistici dei siti, dalla sostanziale identità dei processi storici di formazione delle organizzazioni territoriali ed insediative, dalla affinità dei processi socio-economici in atto e da un assetto delle reti e delle infrastrutture di urbanizzazione appoggiate su di un impianto principale di scala sovracomunale”, ai fini della semplificazione della pianificazione subprovinciale (per i comuni compresi in tali ambiti “la descrizione fondativa del PTC provinciale può essere assunta (…) come descrizione fondativa dei piani urbanistici dei Comuni compresi in ciascun ambito” (articolo 18);
- stabilisce che la pianificazione comunale individui: “1) gli ambiti di conservazione e riqualificazione, insediati e non insediati, nei quali il piano persegue finalità di sostanziale conservazione o di riqualificazione; 2) i distretti di trasformazione per i quali il piano configura scelte di rilevante trasformazione” (articolo 27);
- affida al piano comunale anche il compito, “sulla base dei criteri forniti dal PTC provinciale, individua, tra gli ambiti di conservazione e di riqualificazione, quale territorio di presidio ambientale: a) aree che presentino fenomeni di sottoutilizzo e/o di abbandono agro-silvo-pastorale e di marginalità e che non appaiano recuperabili all'uso agricolo produttivo o ad altre funzioni; b) aree che si trovino in precarie condizioni di equilibrio idrogeologico e vegetazionale, ivi comprese quelle attualmente adibite ad attività agro-silvo-pastorali diverse da quelle di effettiva produzione agricola; c) aree nelle quali siano in atto fenomeni di rinaturalizzazione spontanea e/o guidata; d) aree caratterizzate da insediamenti sparsi nelle quali si renda necessario subordinare gli interventi sul patrimonio edilizio esistente o di nuova costruzione al perseguimento delle finalità dipresidio ambientale” (articolo 36).
Più d’una legge regionale introduce la valutazione e il monitoraggio dei piani tra gli elementi essenziali del processo di pianificazione, sebbene i caratteri specifici vengano generalmente demandati a documenti regolamentari. Ad esempio la legge della Basilicata:
- dedica alla valutazione un intero Capo (3: Modalità della valutazione), distinguendo la “la verifica di coerenza (che) si applica alla pianificazione strutturale ed operativa dei diversi livelli”, la “verifica di compatibilità (che) si applica alla pianificazione strutturale ed operativa in relazione ai regimi di intervento definiti nella CRS”;
- stabilisce che, “al fine di rendere trasparenti ed oggettive le valutazioni di coerenza e compatibilità dei Piani, di cui agli artt. 29 e 30 precedenti, il Regolamento d'Attuazione della presente legge definirà i criteri ed i parametri da applicare alle previsioni dei Piani stessi”, che “detti parametri riguardano in particolare: a. gli indicatori di qualità attinenti la tutela e conservazione del Sistema Naturalistico-Ambientale; b. gli indicatori di efficienza e di funzionalità spazio - temporali dei sistemi infrastrutturali ed insediativo; c. gli indicatori di efficienza ambientale per i Regimi di Trasformazione e Nuovo Impianto” e che infine essi “troveranno riscontro nelle specifiche tecniche di definizione del Sistema Informativo Territoriale”;
- prevede l’istituzione di un Nucleo di valutazione urbanistica regionale.
E la legge dell’Emilia Romagna stabilisce:
- che la Regione, le Province e i Comuni provvedano, “nell’ambito del procedimento di elaborazione ed approvazione dei propri piani, alla valutazione preventiva della sostenibilità ambientale e territoriale degli effetti derivanti dalla loro attuazione;
- che nel documento preliminare siano “evidenziati i potenziali impatti negativi delle scelte operate e le misure idonee per impedirli, ridurli o compensarli”, che che “gli esiti della valutazione di sostenibilità ambientale e territoriale costituiscono parte integrante del piano approvato e sono illustrati da un apposito documento”;
- che, infine, “la Regione, le Province e i Comuni provvedono inoltre al monitoraggio dell’attuazione dei propri piani e degli effetti sui sistemi ambientali e territoriali, anche al fine della revisione o aggiornamento degli stessi”.
Com’è noto, il tema della perequazione è stato proposto dall’INU come soluzione, alternativa rispetto a quelle proposte nel passato (esproprio generalizzato, attribuzione pubblica dello jus aedificandi), capace di risolvere la questione della legittimità dei vincoli. Questa velleità della proposta è stata più volte criticata, soprattutto perché non risolve la fondamentale sperequazione derivante dalla differenza di vantaggi tra proprietari i cui immobili sono inclusi tra quelli urbanizzabili e gli altri. Si tratta comunque, in questi termini, di questione che riguarda un argomento di riserva legislativa nazionale.
Alcune leggi regionali hanno tuttavia introdotto il termine “perequazione urbanistica”, e indicazioni tecniche a questa relative, tra quelli cui è dedicata particolare attenzione nel processo attuativo. Si tratta però, generalmente, di un’estensione all’urbanizzato e al costruito delle stesse regole di ripartizione degli oneri e dei vantaggi tra i proprietari già introdotto dalla legge 1150 del 1942 con il comparto edificatorio, e dalla legge 765 del 1967 con il piano di lottizzazione convenzionata.
Così, ad esempio:
- la legge della Basilicata afferma che “la perequazione urbanistica persegue l'equità distributiva dei valori immobiliari prodotti dalla pianificazione e la ripartizione equa tra proprietà private dei gravami derivanti dalla realizzazione della parte pubblica della città”, che “la pratica della perequazione urbanistica si basa su un accordo di tipo convenzionale che prevede la compensazione tra suolo ceduto o acquisito e diritti edificatori acquisiti o ceduti”, che “la valutazione dei valori da compensare viene effettuata assumendo come criterio l'indifferenza delle determinazioni del PO o del RU, rispetto al valore dei suoli che dipende esclusivamente dallo stato di fatto e di diritto in cui i suoli stessi si trovano al momento della formazione del piano”, e che infine “l'accordo fra e con i privati può essere determinato come esito di asta pubblica fra operatori, basata su condizioni di sostanziale equilibrio fra la domanda e l'offerta di suolo oggetto di trasferimento di diritti edificatori ” (articolo 33);
- la legge dell’Emilia Romagna asserisce che “la perequazione urbanistica persegue l’equa distribuzione, tra i proprietari degli immobili interessati dagli interventi, dei diritti edificatori riconosciuti dalla pianificazione urbanistica e degli oneri derivanti dalla realizzazione delle dotazioni territoriali”; a tal fine, il piano comunale “può riconoscere la medesima possibilità edificatoria ai diversi ambiti che presentino caratteristiche omogenee”, mentre “Il POC e i Piani Urbanistici Attuativi (PUA), nel disciplinare gli interventi di trasformazione da attuare in forma unitaria, assicurano la ripartizione dei diritti edificatori e dei relativi oneri tra tutti i proprietari degli immobili interessati, indipendentemente dalle destinazioni specifiche assegnate alle singole aree”.
Il punto da discutere è il seguente.
Introdurre la “perequazione urbanistica” come criterio di effettiva equiparazione di soggetti diversi è palesemente velleitario. Infatti, oltre a non risolvere la sperequazione tra proprietari e non proprietari, non risolve neppure quella in relazione alla quale l’intera problematica nacque nei lontani anni Sessanta: cioè quella tra proprietari inclusi nel piano e proprietari non inclusi. Molto più interessante sembra invece utilizzare la distinzione tra “vincoli ricognitivi” e “vincoli funzionali”, che la Corte costituzionale ha già reiteratamente accolto stabilendo che nessun indennizzo è necessario per i primi.
Introdurre la “perequazione urbanistica” come metodo per ottenere consensualmente le aree per la formazione di spazi pubblici e d’uso pubblico porterebbe a un gigantesco sovradimensionamento dei piani, con buona pace delle intenzioni ambientalistiche che permeano, come abbiamo visto, intere parti delle nuove leggi.
Introdurla invece, molto semplicemente, per estendere ad ambiti di trasformazione comprendenti parti già urbanizzate la tecnica di ripartizione degli oneri per comparti investiti unitariamente da un processo di trasformazione urbanistica appare cosa sensata e pragmaticamente utile: nulla a che fare, peraltro, con la “riforma urbanistica” né con quella del regime degli immobili.
[1] Con il termine “oggetti” non si indica qui l’elemento materiale dell’assetto del territorio (la strada o il centro storico, il centro commerciale o il bosco ecc.): Il termine “oggetto” è adottato invece in una logica simile a quella in cui è usato normalmente il termine “beni”. L’uno e l’altro termine configurano entità immateriali che, quand’anche si riferiscano a “cose” materiali, non si identificano con esse. Talché su di un’unica “cosa” può fondarsi una pluralità di beni ogniqualvolta in essa siano separabili diverse utilità o valori autonomamente riconoscibili. Ed analogamente un’unica “cosa”, un unico elemento materiale, può costituire il riferimento materiale di una pluralità di “oggetti” ogniqualvolta in essa siano separabili diversi “aspetti” autonomamente riconoscibili e incidenti su interessi la cui titolarità (esclusiva o prevalente) appartenga a diversi soggetti.
[2] In neretto tondo i piani che esplicano, o possono esplicare, efficacia diretta. In neretto corsivo quelli che esplicano efficacia indiretta (attraverso la pianificazione sottordinata).
[3] “I contenuti del P.U.T. sono vincolanti per la pianificazione provinciale e comunale e, nei casi stabiliti dalle norme tecniche di attuazione, per qualsiasi soggetto pubblico e privato”, lex 28/1995, articolo 10.
[4] “le norme di attuazione del piano, contenenti i criteri, gli indirizzi, le direttive per la predisposizione e per l'adeguamento dei piani di livello comunale, nonché la specificazione delle disposizioni immediatamente prevalenti in materia paesistica e ambientale sulla disciplina di livello comunale vigente e vincolanti anche nei confronti degli interventi settoriali e dei privati”, lex 28/1995, articolo 14, lettera e).