lavoce.infoltraeconomia e la Repubblica
Altraeconomia, 1 febbraio 2018
UN BUON MOTIVO
PER ANDARE A VOTARE CI SARÀ
Seppure alcuni volti, linguaggi, poteri siano ancora gli stessi, l’Italia del 2018 non è quella del 1994. Si è mossa. All’indietro. Buona parte dei programmi elettorali, però, non sembra proprio essersene accorta».
Non aiuta nemmeno la spiacevole sensazione di un déjà-vu lungo ormai un quarto di secolo per volti, linguaggio, poteri. Tuttavia l’Italia non è ferma al 1994. Perché l’Italia si muove, si è mossa, eccome. Ma all’indietro: ritornano spettri di un passato che sembrava, se non lontano, quantomeno stigmatizzato, demonizzato. Spettri che entrano nelle coscienze. A 80 anni dalle leggi razziali, si riaffaccia la cultura che le ha rese possibili. Non c’è crisi economica che giustifichi tutto questo. Che giustifichi l’incendio appiccato a una palazzina che avrebbe dovuto ospitare 35 profughi minorenni (ad Ascoli Piceno, a gennaio, in Italia). Eppure basta dare un’occhiata alla comunicazione elettorale. Più post, magari, e meno cartelloni per strada, forse. Ma la sostanza rimane sempre la stessa: fare leva sulla paura, sul risentimento, o peggio, sul senso di colpa. Ma il motore del cambiamento non può essere questo. Il cambiamento avviene quando lo si desidera. Chi, tra i candidati alle elezioni del 4 marzo, sarà capace di tratteggiare l’Italia che desideriamo? Quella capace di una strategia energetica nazionale diversa da quella intrapresa finora, ad esempio, che torni a puntare seriamente sulle fonti rinnovabili e la smetta di pensare alla Penisola come un hub del mercato europeo del gas.
Un’Italia che non promette improbabili flat tax o ancor più improbabili tagli miracolosi delle tasse, ma punta al valore, costituzionale, della progressività fiscale. Ci sono candidati che riconoscono che, se c’è un nemico, questi non sono i migranti ma la disuguaglianza? In un Paese dove la povertà assoluta cresce fra le famiglie numerose con figli minorenni, la disuguaglianza è un attentato alla democrazia. Ma non solo: oggi la disuguaglianza è anche uno degli ostacoli alla tutela dell’ambiente, perché è alimentata dal sistema consumistico, l’unico in grado di far sì che i 500 uomini più ricchi del Pianeta abbiano un patrimonio di 5.300 miliardi di dollari, mille in più rispetto all’anno passato. C’è qualcuno tra i candidati che ricordi che l’istruzione universitaria è un bene, che non esiste “meno studi più lavori”, in un Paese in cui solo un diplomato su due si iscrive a una Facoltà? E che il diritto allo studio si garantisce anche con sostegni alle abitazioni, ai trasporti, all’acquisto di libri? E infine: qualcuno che parli chiaramente, senza giochi di parole, sottointesi o fraintendimenti intenzionali, di disarmo? Di ritiro delle nostre truppe da scenari di guerra? Di conversione dell’industria bellica? Un buon motivo per andare a votare ci sarà e continuiamo a cercarlo. Se è difficile, forse ce lo siamo meritati, delegando ad altri responsabilità che sono nostre. Ma quanta fatica.
«Anche la nuova legge elettorale permette di candidarsi in più collegi diversi. Rispetto al passato, ci sono più vincoli alla discrezionalità, ma resta il fatto che un candidato bocciato all’uninominale dagli elettori può essere ripescato nel proporzionale».
Come funziona la candidatura plurima
I partiti hanno definitivamente presentato i simboli, i programmi e le liste elettorali che si sfideranno il 4 marzo. Può finalmente cominciare ufficialmente la campagna elettorale, che vedrà sfidarsi i candidati in 232 collegi uninominali alla Camera e in 116 al Senato. Tolti i seggi spettanti alla circoscrizione estero (12 alla Camera e 6 al Senato), i posti restanti - 386 alla Camera e 193 al Senato - saranno assegnati con metodo proporzionale a candidati raccolti in liste circoscrizionali brevi, bloccate, che rispettano le quote di genere e caratterizzate dalla possibilità di candidature plurime.
La candidatura plurima è un istituto che permette a un candidato di correre contemporaneamente in più collegi elettorali. Si tratta di una caratteristica tipica dei sistemi proporzionali o perlomeno misti. Nei collegi uninominali e con metodo di voto maggioritario, la rinuncia di un candidato eletto non porterebbe alla sua sostituzione con il secondo arrivato (significherebbe annullare la volontà della maggioranza relativa di quel collegio) bensì all’indizione di elezioni suppletive (come avviene nei casi di dimissioni o decesso di un eletto). È un metodo di sostituzione costoso (ci vogliono soldi e tempo per indire nuove elezioni in un seggio che altrimenti rimarrebbe vacante), ma senza alternative. Nel sistema proporzionale, invece, i seggi della circoscrizione sono assegnati a liste di partito, di fatto indipendentemente dall’identità di chi ne fa parte. È quindi del tutto possibile che un eletto venga sostituito da chi lo segue nella posizione in lista (o nel numero di preferenze, se fossero possibili). Quando però un candidato si presenta in più collegi plurinominali, la possibilità che sia effettivamente eletto in più luoghi non è affatto remota. La nuova legge elettorale (legge 165/2017) dà la possibilità a ogni candidato di essere incluso fino a un massimo di cinque volte in liste plurinominali, anche se risulta candidato all’uninominale.
Non si tratta certo di una novità: in Italia – e non solo – le pluricandidature sono sempre esistite (e sono possibili, per esempio, per le elezioni europee). L’intento è almeno triplice. Innanzitutto, offre al candidato maggiori possibilità di elezione: è quindi una norma che mette al riparo i leader – o talune personalità rilevanti – da eventuali bocciature ed è naturalmente molto apprezzata dai partiti più piccoli. Permette poi a eventuali leader acchiappavoti di aumentare i consensi per la propria lista in tutti i collegi in cui è presente (celebre il caso di Silvio Berlusconi capolista in tutte le circoscrizioni per le elezioni europee del 2009). Infine, permette allo stesso leader di decidere strategicamente chi far entrare in parlamento, imponendo la scelta del collegio di elezione al candidato e determinando quindi quali “secondi” far passare al suo posto e quale no.
Tutto come prima?
Di riforma in riforma, quindi, il vizio di permettere le pluricandidature non sembra abbandonare il legislatore italiano. Da un lato, la norma può avere aspetti positivi, perché consente appunto di tutelare alcune candidature, considerate meritorie (per ragioni più o meno legittime); dall’altro, tuttavia, interferisce con il meccanismo democratico perché rende ripescabile, cioè eleggibile, chi invece non è stato eletto in un determinato collegio.
A differenza del passato, però, la nuova legge elettorale contiene un elemento che vincola la discrezionalità dell’eletto: prevede infatti che il parlamentare eletto in più collegi plurinominali sia proclamato nel collegio nel quale la lista cui appartiene ha ottenuto la minore cifra percentuale di collegio plurinominale, così come determinata ai sensi della legge. Inoltre, il parlamentare eletto in un collegio uninominale e in uno o più collegi plurinominali si intende ovviamente eletto in quello uninominale.
Si tratta di un passo in avanti? Forse, ma solo se si accetta come naturale la presenza della candidatura plurima: diminuendo la discrezionalità dell’eletto, si rende la sua proclamazione “neutrale” rispetto alla composizione del parlamento. Tuttavia, resta il dubbio che la norma continui a essere usata per tutelare la longevità del ceto politico più che per promuovere l’elezione di outsider senza un bacino elettorale. È ancor più grave che la pluricandidatura permetta a un candidato non eletto all’uninominale di essere ripescato: se il voto proporzionale è più un voto di lista, quello maggioritario nel collegio uninominale è più personale. Il candidato bocciato nel collegio uninominale è un candidato rifiutato dal suo elettorato. Ritrovarselo comunque in parlamento, per gli elettori di quel territorio, non deve essere particolarmente gradito. Non è certo un buon metodo per aumentare il rapporto di fiducia tra elettore ed eletto.
Perché dunque non basare la propria preferenza elettorale anche su questo elemento? Come si comportano cioè i diversi partiti in questo caso? Una volta che le liste elettorali saranno ufficiali e disponibili, sarà interessante capire quale partito ha sfruttato di più la norma e per quale motivo.
, 1 febbraio 2018
CAMERA, NELLA BATTAGLIA DEI COLLEGI
«Le simulazioni verso le elezioni»
Roma. La partita per il governo il centrodestra se la gioca tutta in 87 maledettissimi collegi uninominali sui 232 totali, quelli dove la vittoria della coalizione di Berlusconi, Salvini e Meloni è possibile ma non certa. Al centrodestra, che parte da un bottino sicuro di 259 seggi (115 uninominali), basta conquistare 57 di quei collegi per avere la maggioranza di 316 deputati a Montecitorio. Al Pd, che conta su 133 seggi blindati (24 uninominali) non resta che sperare che la battaglia al Sud tra 5Stelle e centrodestra volga a favore dei primi, che partono da 112 possibili deputati (solo 4 nell’uninominale). Magari non troppo, perché Renzi punta al gruppo parlamentare più numeroso per restare in partita se il centrodestra fallisce la maggioranza assoluta.