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Pietro Raitano
La legge elettorale e le simulazioni di voto
2 Febbraio 2018
Articoli del 2018
lavoce.info 30 gennaio, Altraeconomia e la Repubblica 1 febbraio 2018. Un'opinione sul voto, un'analisi della legge elettorale e una simulazione dell'esito Articoli di Pietro Raitano, Paolo Balduzzi e Lavinia Rivara (m.p.r.)

lavoce.infoltraeconomia e la Repubblica

Altraeconomia, 1 febbraio 2018
UN BUON MOTIVO

PER ANDARE A VOTARE CI SARÀ

MA QUANTA FATICA
di Pietro Raitano

Seppure alcuni volti, linguaggi, poteri siano ancora gli stessi, l’Italia del 2018 non è quella del 1994. Si è mossa. All’indietro. Buona parte dei programmi elettorali, però, non sembra proprio essersene accorta».

Ci sarà pure un buon motivo per andare a votare, il 4 marzo. Lo dovremo pur trovare, per evitare di cedere alla forte tentazione di disertare le urne, di fronte non all’imbarazzo della scelta, ma alle scelte imbarazzanti che potremmo essere costretti a fare. Ci sarà pure un modo per non far parte della schiera -milioni di elettori- di chi ha perso fiducia, controllo e speranza e che non cede al ricatto del “voto utile”. Utile a chi, poi.

Che sia per il Parlamento o per la propria Regione non fa molta differenza: come siamo arrivati a vivere con sofferenza un rito sociale -ovvero un sistema politico- che è l’essenza stessa della convivenza? Non aiuta il modo in cui si è chiusa l’ultima legislatura, con la legge per il cosiddetto “ius soli” -che avrebbe riconosciuto (non “concesso”: riconosciuto, perché esiste già) il diritto di cittadinanza ai nati in Italia da genitori stranieri- affossata al Senato per mancanza del numero legale e da migliaia di emendamenti. Una autentica vergogna, nel senso di aver provato vergogna di fronte a un’ingiustizia inflitta a bambini e adolescenti. Ottocentomila. Che idea si sono fatti degli adulti, della politica, di tutti noi? Come cresceranno in questo clima che antepone quattro stracci di voti per tenersi una poltrona al loro presente, al loro futuro?

Non aiuta nemmeno la spiacevole sensazione di un déjà-vu lungo ormai un quarto di secolo per volti, linguaggio, poteri. Tuttavia l’Italia non è ferma al 1994. Perché l’Italia si muove, si è mossa, eccome. Ma all’indietro: ritornano spettri di un passato che sembrava, se non lontano, quantomeno stigmatizzato, demonizzato. Spettri che entrano nelle coscienze. A 80 anni dalle leggi razziali, si riaffaccia la cultura che le ha rese possibili. Non c’è crisi economica che giustifichi tutto questo. Che giustifichi l’incendio appiccato a una palazzina che avrebbe dovuto ospitare 35 profughi minorenni (ad Ascoli Piceno, a gennaio, in Italia). Eppure basta dare un’occhiata alla comunicazione elettorale. Più post, magari, e meno cartelloni per strada, forse. Ma la sostanza rimane sempre la stessa: fare leva sulla paura, sul risentimento, o peggio, sul senso di colpa. Ma il motore del cambiamento non può essere questo. Il cambiamento avviene quando lo si desidera. Chi, tra i candidati alle elezioni del 4 marzo, sarà capace di tratteggiare l’Italia che desideriamo? Quella capace di una strategia energetica nazionale diversa da quella intrapresa finora, ad esempio, che torni a puntare seriamente sulle fonti rinnovabili e la smetta di pensare alla Penisola come un hub del mercato europeo del gas.

Un’Italia che non promette improbabili flat tax o ancor più improbabili tagli miracolosi delle tasse, ma punta al valore, costituzionale, della progressività fiscale. Ci sono candidati che riconoscono che, se c’è un nemico, questi non sono i migranti ma la disuguaglianza? In un Paese dove la povertà assoluta cresce fra le famiglie numerose con figli minorenni, la disuguaglianza è un attentato alla democrazia. Ma non solo: oggi la disuguaglianza è anche uno degli ostacoli alla tutela dell’ambiente, perché è alimentata dal sistema consumistico, l’unico in grado di far sì che i 500 uomini più ricchi del Pianeta abbiano un patrimonio di 5.300 miliardi di dollari, mille in più rispetto all’anno passato. C’è qualcuno tra i candidati che ricordi che l’istruzione universitaria è un bene, che non esiste “meno studi più lavori”, in un Paese in cui solo un diplomato su due si iscrive a una Facoltà? E che il diritto allo studio si garantisce anche con sostegni alle abitazioni, ai trasporti, all’acquisto di libri? E infine: qualcuno che parli chiaramente, senza giochi di parole, sottointesi o fraintendimenti intenzionali, di disarmo? Di ritiro delle nostre truppe da scenari di guerra? Di conversione dell’industria bellica? Un buon motivo per andare a votare ci sarà e continuiamo a cercarlo. Se è difficile, forse ce lo siamo meritati, delegando ad altri responsabilità che sono nostre. Ma quanta fatica.

Tratto da Altreconomia 201 - Febbraio 2018 raggiungibile qui

, 30 gennaio 2018
IL VECCHIO VIZIO

DI GARANTIRSI IL SEGGIO IN PARLAMENTO
di Paolo Balduzzi

«Anche la nuova legge elettorale permette di candidarsi in più collegi diversi. Rispetto al passato, ci sono più vincoli alla discrezionalità, ma resta il fatto che un candidato bocciato all’uninominale dagli elettori può essere ripescato nel proporzionale».

Come funziona la candidatura plurima

I partiti hanno definitivamente presentato i simboli, i programmi e le liste elettorali che si sfideranno il 4 marzo. Può finalmente cominciare ufficialmente la campagna elettorale, che vedrà sfidarsi i candidati in 232 collegi uninominali alla Camera e in 116 al Senato. Tolti i seggi spettanti alla circoscrizione estero (12 alla Camera e 6 al Senato), i posti restanti - 386 alla Camera e 193 al Senato - saranno assegnati con metodo proporzionale a candidati raccolti in liste circoscrizionali brevi, bloccate, che rispettano le quote di genere e caratterizzate dalla possibilità di candidature plurime.

La candidatura plurima è un istituto che permette a un candidato di correre contemporaneamente in più collegi elettorali. Si tratta di una caratteristica tipica dei sistemi proporzionali o perlomeno misti. Nei collegi uninominali e con metodo di voto maggioritario, la rinuncia di un candidato eletto non porterebbe alla sua sostituzione con il secondo arrivato (significherebbe annullare la volontà della maggioranza relativa di quel collegio) bensì all’indizione di elezioni suppletive (come avviene nei casi di dimissioni o decesso di un eletto). È un metodo di sostituzione costoso (ci vogliono soldi e tempo per indire nuove elezioni in un seggio che altrimenti rimarrebbe vacante), ma senza alternative. Nel sistema proporzionale, invece, i seggi della circoscrizione sono assegnati a liste di partito, di fatto indipendentemente dall’identità di chi ne fa parte. È quindi del tutto possibile che un eletto venga sostituito da chi lo segue nella posizione in lista (o nel numero di preferenze, se fossero possibili). Quando però un candidato si presenta in più collegi plurinominali, la possibilità che sia effettivamente eletto in più luoghi non è affatto remota. La nuova legge elettorale (legge 165/2017) dà la possibilità a ogni candidato di essere incluso fino a un massimo di cinque volte in liste plurinominali, anche se risulta candidato all’uninominale.

Non si tratta certo di una novità: in Italia – e non solo – le pluricandidature sono sempre esistite (e sono possibili, per esempio, per le elezioni europee). L’intento è almeno triplice. Innanzitutto, offre al candidato maggiori possibilità di elezione: è quindi una norma che mette al riparo i leader – o talune personalità rilevanti – da eventuali bocciature ed è naturalmente molto apprezzata dai partiti più piccoli. Permette poi a eventuali leader acchiappavoti di aumentare i consensi per la propria lista in tutti i collegi in cui è presente (celebre il caso di Silvio Berlusconi capolista in tutte le circoscrizioni per le elezioni europee del 2009). Infine, permette allo stesso leader di decidere strategicamente chi far entrare in parlamento, imponendo la scelta del collegio di elezione al candidato e determinando quindi quali “secondi” far passare al suo posto e quale no.

Tutto come prima?

Di riforma in riforma, quindi, il vizio di permettere le pluricandidature non sembra abbandonare il legislatore italiano. Da un lato, la norma può avere aspetti positivi, perché consente appunto di tutelare alcune candidature, considerate meritorie (per ragioni più o meno legittime); dall’altro, tuttavia, interferisce con il meccanismo democratico perché rende ripescabile, cioè eleggibile, chi invece non è stato eletto in un determinato collegio.

A differenza del passato, però, la nuova legge elettorale contiene un elemento che vincola la discrezionalità dell’eletto: prevede infatti che il parlamentare eletto in più collegi plurinominali sia proclamato nel collegio nel quale la lista cui appartiene ha ottenuto la minore cifra percentuale di collegio plurinominale, così come determinata ai sensi della legge. Inoltre, il parlamentare eletto in un collegio uninominale e in uno o più collegi plurinominali si intende ovviamente eletto in quello uninominale.

Si tratta di un passo in avanti? Forse, ma solo se si accetta come naturale la presenza della candidatura plurima: diminuendo la discrezionalità dell’eletto, si rende la sua proclamazione “neutrale” rispetto alla composizione del parlamento. Tuttavia, resta il dubbio che la norma continui a essere usata per tutelare la longevità del ceto politico più che per promuovere l’elezione di outsider senza un bacino elettorale. È ancor più grave che la pluricandidatura permetta a un candidato non eletto all’uninominale di essere ripescato: se il voto proporzionale è più un voto di lista, quello maggioritario nel collegio uninominale è più personale. Il candidato bocciato nel collegio uninominale è un candidato rifiutato dal suo elettorato. Ritrovarselo comunque in parlamento, per gli elettori di quel territorio, non deve essere particolarmente gradito. Non è certo un buon metodo per aumentare il rapporto di fiducia tra elettore ed eletto.

Perché dunque non basare la propria preferenza elettorale anche su questo elemento? Come si comportano cioè i diversi partiti in questo caso? Una volta che le liste elettorali saranno ufficiali e disponibili, sarà interessante capire quale partito ha sfruttato di più la norma e per quale motivo.

articolo tratto da lavoce.info


, 1 febbraio 2018
CAMERA, NELLA BATTAGLIA DEI COLLEGI

COMANDA IL CENTRODESTRA
di Lavinia Rivara

«Le simulazioni verso le elezioni»

Roma. La partita per il governo il centrodestra se la gioca tutta in 87 maledettissimi collegi uninominali sui 232 totali, quelli dove la vittoria della coalizione di Berlusconi, Salvini e Meloni è possibile ma non certa. Al centrodestra, che parte da un bottino sicuro di 259 seggi (115 uninominali), basta conquistare 57 di quei collegi per avere la maggioranza di 316 deputati a Montecitorio. Al Pd, che conta su 133 seggi blindati (24 uninominali) non resta che sperare che la battaglia al Sud tra 5Stelle e centrodestra volga a favore dei primi, che partono da 112 possibili deputati (solo 4 nell’uninominale). Magari non troppo, perché Renzi punta al gruppo parlamentare più numeroso per restare in partita se il centrodestra fallisce la maggioranza assoluta.

A questo risultato approda la simulazione elaborata da Salvatore Vassallo, ordinario di Scienza Politica all’Università di Bologna, che pubblichiamo oggi fotografando i rapporti di forza tra i tre principali poli in tutti i collegi uninominali della Camera, (domani quelli del Senato). Lo studio si basa solo sui sondaggi delle ultime due settimane, ma anche sui flussi da un partito all’altro applicati ai risultati delle politiche 2013 in ogni collegio del Rosatellum. Naturalmente si tratta di stime approssimative e, al netto del normale margine di errore statistico, gli elettori possono riservare sorprese. I candidati segnalati in verde partono favoriti di almeno cinque punti; quelli in rosso invece sono i possibili sconfitti (cinque punti o più sotto al primo); quelli in giallo infine hanno una distanza tra loro inferiore ai cinque punti. E possono combattere.

Il Mezzogiorno

Il centrodestra parte da un vantaggio di 144 seggi sicuri nelle liste proporzionali e di 115 nell’uninominale (vedi la tabella in alto). Totale: 259 deputati. Per arrivare a quota 316 gliene servono almeno 57. Dove può prenderli? Il terreno per fare nuove conquiste è soprattutto il Mezzogiorno, visto che al Nord la coalizione sembra già molto forte. In particolare, come si vede dai dati delle singole regioni, è in Sicilia, Sardegna, Calabria, Puglia e Basilicata che la partita sembra apertissima, con quasi tutti i collegi, 31 per l’esattezza, ancora da assegnare (in giallo). Ma a contenderseli con il centrodestra sono solo i 5Stelle, mentre la coalizione di centrosinistra perderebbe ovunque (in rosso). Un destino che sembra toccare anche le contestate candidature di Viceconte e Mancini.
Il Centro

L’alleanza di destra è forte anche nel centro. Neanche i seggi di Gentiloni e Madia a Roma sono blindati. In Campania il centrodestra avrebbe 17 collegi sicuri su 22 e i 5 in bilico se li contende ancora con i grillini, con i quali la partita è apertissima anche in quattro collegi dell’Abruzzo. In Campania sembrano destinati alla sconfitta col centrosinistra anche il pediatra Paolo Siani, il maestro Rossi Doria, il figlio di De Luca(Piero), e il nipote di De Mita (Giuseppe). Blindato invece appare Sgarbi ad Acerra. Già espugnati dal centrodestra anche 10 collegi nel Lazio, cioè la metà. Ma qui in diversi casi l’avversario è il Pd. Anche se non ce la dovrebbero fare nè Fioroni, nè Fattorini e l’unica in pole per la vittoria è Prestipino.
Le roccaforti rosse

In Toscana e in Emilia la situazione si ribalta, ma non al punto da poter dire che il Pd fa cappotto. Nella terra renziana può contare su nove collegi blindati su 14, tra cui quelli di Padoan, Lotti, Giachetti, Romano, Di Giorgi, Della Vedova (+Europa). Ma è in bilico Donati nella Arezzo di Banca Etruria. A Massa doverebbe farcela invece Bergamini, fedelissima del Cavaliere e a Lucca Zucconi(Fdi). In Emilia il centrosinistra ne avebbe di sicuri 10 su 17, tra cui quelli di De Vincenti, Delrio e Lorenzin (Civica popolare).
Non così blindato invece il collegio di Ferrara dove corre il ministro Franceschini: è quotato al 35%,mentre la sua avversaria, la leghista Tomasi, al 31%. Del resto sono sempre i leghisti ad insidiare in altri 5 collegi il centrosinistra. In entrambe le regioni infatti i 5Stelle non toccano palla, ad eccezione di Rimini dove la grillina Sarti ha qualche chance. In Umbria e Marche la corsa è apertissima. A Pesaro il ministro Minniti viene dato al 33% e deve vedersela sia con il 5Stelle Cecconi che con la forzista Renzoni. Perchè mentre in Umbria i pentastellati sono fuori, nelle Marche spesso la contesa è ancora a tre.
Il Nord

Nei 37 collegi della Lombardia il centrodestra fa filotto al netto della decisione della Corte d’Appello di Milano sui 15 candidati di ‘Noi con l’Italia’al momento esclusi (tra loro Michela Vittoria Brambilla): solo due sono in bilico a Sesto San Giovanni e a Milano 2; qui la dem Quartapelle cerca di battere la leghista Molteni. Blindate le azzurre Brambilla, Gelmini e Ravetto. Situazione analoga in Veneto. Una sfilza di segni verdi, esattamene 17 su 19 e tra questi il seggio di Brunetta. Il Pd prova a combattere solo a Venezia e a Padova. Il quadro non cambia in Friuli: 4 seggi su 5 a Lega e FI; a Goriza l’unica speranza per i dem. In Piemonte la situazione è più fluida: il centrodestra può contare su nove collegi, quasi tutti leghisti, mentre altri otto se li litiga con gli altri due poli.
Quadro complicato anche in Liguria: il centrodestra si aggiudica due collegi, i dem se la giocano in quattro e i grillini in tre. Valle d’Aosta non considerata perché esclusa dai sondaggi. Infine il Trentino: il Pd grazie al patto con Svp prende tre seggi , tra cui quello dell’ex ministra Boschi, gli altri tre se litiga con la Lega.
La coalizione di Berlusconi avrebbe già 259 collegi sicuri Il centrosinistra sarebbe a 133 e il M5S a 112
articolo tratto da qui raggiungibile
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