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Alfonso Gianni
La guerra contro i migranti è un suicidio per l’Europa
20 Giugno 2015
Capitalismo oggi
«Primo Levi scriveva che ciò che è successo avrebbe potuto, per ciò stesso, succedere ancora. Pareva esagerato. Invece no. Tra i campi nazisti e le odierne barriere vi è ancora una non trascurabile differenza. Ma la strada è tracciata se non invertiamo la marcia».
«Primo Levi scriveva che ciò che è successo avrebbe potuto, per ciò stesso, succedere ancora. Pareva esagerato. Invece no. Tra i campi nazisti e le odierne barriere vi è ancora una non trascurabile differenza. Ma la strada è tracciata se non invertiamo la marcia».

Il Garantista, 20 giugno 2015

Su Repubblica di venerdì la vignetta di Massimo Bucchi coglie ancora una volta nel segno. Vi sono disegnati dei muri, in ordine di altezza crescente negli ultimi anni. La didascalia dice “Ottimismo in Borsa per la crescita dei Muri”. E dice tutto. Certo non c’è alcuna relazione meccanica o statistica tra il moltiplicarsi dei muri e delle cortine di filo spinato e l’andamento delle Borse. Ma c’è tra rifiorire della speculazione finanziaria – malgrado i disastri della attuale crisi – e la crescita della insensibilità verso chi è più debole e bisognoso. C’è una relazione inversa e tanto più significativa fra la fluidità e la rapidità inarrestabili dei movimenti di capitale e l’impossibilità per i profughi da fame, miseria, dittature, guerre di potere raggiungere un luogo sicuro.

Chi l’avrebbe detto che dopo l’abbattimento festoso del muro di Berlino nel 1989, i muri si sarebbero moltiplicati? Le note di Bach, dalle suite per violoncello solo, suonate davanti a quelle storiche macerie da Mstislav Rostropovich accorso a Berlino l’11 novembre del 1989, sembravano avere posto fine alle divisioni, agli steccati, alla visione concentrazionaria del mondo. Pure illusioni.

Chi costruisce muri o produce filo spinato, fa affari al giorno d’oggi. Mari e muri si ergono come barriere mortali contro i migranti. Da Ceuta a Melilla; da Tijuana al costruendo muro in Ungheria; dal muro costruito dagli israeliani per separarli dai palestinesi a quello tra India e Bangladesh; e altri ancora: sono 50 le barriere artificiali e ostili sparse in tutto il mondo. Circa 8mila chilometri hanno il compito di separare esseri umani e difendere i più ricchi dalla contaminazione con i più poveri. Alcuni sono grezzi, altri in mattoni, altri mettono in campo materiali più moderni, altri tornano al filo spinato dei campi di concentramento della seconda guerra mondiale. Non a caso Primo Levi scriveva, a conclusione della sua opera, che quello che voleva dire poteva essere riassunto nel fatto che ciò che è successo avrebbe potuto, per ciò stesso, succedere ancora. Pareva esagerato. Invece no. Certo tra i campi nazisti e le odierne barriere vi è ancora una non trascurabile differenza. Ma la strada è tracciata se non invertiamo la marcia.

Papa Francesco ha fatto sentire la sua voce, potente e chiara. Nella sua ultima enciclica non si rivolge solo agli uomini di buona volontà, come Giovanni XXIII nella “Pacem in terris” ma a “ogni persona che abita questo pianeta”. Gli è toccata la risposta volgare di un qualunque Salvini. Pietà l’è morta? Come diceva una bella canzone partigiana? No, non ancora per fortuna. Lo dimostra la manifestazione di sabato 30 a Roma, e tante iniziative di solidarietà che hanno alleviato in qualche misura le pene dei profughi in questi giorni nelle stazioni delle grandi città o sugli scogli di Ventimiglia. Ma l’aiuto spontaneo può bastare? Ovviamente no.

Il problema migratorio, date le cause di fondo che lo hanno generato che ci rimandano alla struttura del capitalismo globalizzato e finanzia rizzato, è di lungo periodo. Uno degli elementi caratterizzanti dell’epoca attuale. Con il quale la politica, se ancora esiste, deve misurarsi. Bisogna sapere affrontarlo nel breve e nel più lungo periodo. L’Europa non lo fa. Anzi su questa questione rinascono i nazionalismi, si ringalluzziscono con forza le organizzazioni di destra, si riproducono i più meschini conflitti di frontiera.

Invece ci sono delle cose che è possibile fare subito, come attivare un programma di ricerca e salvataggio in tutta l’area del Mediterraneo; evitare di pensare a interventi armati contro i paesi di provenienza; aprire canali umanitari e vie d’accesso al territorio europeo; sospendere il regolamento di Dublino che blocca i migranti nei paesi di primo arrivo; sospendere gli accordi di Rabat e di Khartoum che vorrebbero esternalizzare fino in Africa i confini europei; provvedere a piani di investimenti che favoriscano lo sviluppo dei paesi di provenienza, anziché vendere armamenti e fomentare guerre; favorire la rinegoziazione dei debiti pubblici di quei paesi, come del resto la Ue dovrebbe fare nei confronti della Grecia, anziché portarla irresponsabilmente sull’orlo del default.

Non è vero che l’Italia non può accogliere migranti. Anzi. Dal punto di vista squisitamente numerico la situazione è tutt’altro che quella che le televisioni ci trasmettono e che è frutto dell’incapacità di governo del fenomeno. In una recente intervista al Sole24Ore il responsabile dell’accoglienza immigrati, Mario Morcone, ci fa capire che c’è un’agitazione spropositata e strumentale attorno al tema, fino a farlo diventare uno degli argomenti o principali delle recenti campagne elettorali. “Ci sono oggi circa 90mila immigrati in accoglienza in tutta Italia – dice Morcone – è come dire che possiamo distribuire circa dieci stranieri per ognuno degli 8mila comuni del nostro Paese. L’impatto è senza dubbio sostenibile. Le cifre sono molto basse.” Certo la politica, neppure quella dell’accoglienza, si può fare con l’aritmetica, ma questa considerazione smonta alla radice l’allarmismo gettato a piene mani da Salvini a da Grillo.

E poi, è proprio vero che gli immigrati sono un peso e non una risorsa per il nostro paese? Il nostro è un paese che invecchia – ci avverte l’Istat -; la crescita demografica è sotto zero; il movimento naturale della popolazione, cioè il saldo tra nascite e decessi, ha fatto registrare nel 2014 un computo negativo di quasi 100mila unità, come non succedeva dagli ultimi due anni dalla “Grande Guerra” del ’15-’18; gli arrivi dall’estero hanno a mala pena compensato questo calo. Nessuno sogna una famiglia con sei figli, come al tempo del Duce, ma una società che solamente invecchia e non partorisce non ha un grande futuro.

Quindi le politiche di accoglienza dei flussi migratori dovrebbero fare parte non dell’emergenza negativa, ma delle nuove politiche di un nuovo modello di sviluppo per un paese europeo, e in particolare per il nostro paese. Questo chiama in causa le responsabilità della Ue e del governo Renzi. L’Europa pensata a Ventotene è sepolta dalle politiche di austerity e dalle concezioni del Vecchio Continente come fortezza.

Mentre scorrono le immagini delle forze dell’ordine che trascinano chissà dove i pacifici corpi dei migranti, si sta consumando il dramma greco. Sia verso l’esterno che al proprio interno le attuali politiche della Ue non reggono e rischiano di fare implodere il continente. L’intransigenze del Fmi e delle elite europee nei confronti della Grecia sono tipiche di chi si vuole perdere. Ha ragione Jeffrey Sachs, un economista americano, che ha recentemente avvertito che "Il governo greco ha ragione ad avere tracciato un limite invalicabile. Ha una precisa responsabilità nei confronti dei suoi cittadini. La vera scelta. dopo tutto, non spetta alla Grecia, bensì all'Europa" Quel limite invalicabile riguarda le pensioni, con cui gli anziani vengono in aiuto ai giovani, visto l’inesistenza , come in Italia, di qualunque forma di reddito minimo garantito, e i contratti collettivi nazionali di lavoro. Limiti di civiltà, di cui una volta il nostro continente andava fiero, ma che il cinismo del neoliberismo nella sue versione peggiore ha distolto dalla mente dei governanti europei.

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