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Gustavo Zagrebelsky
La guerra al terrorismo e l’immoralità della tortura
18 Settembre 2006
Scritti su cui riflettere
“Ammettere l´uso della violenza per ragioni di sicurezz significa far crescere l´odio e la barbarie”. Da la Repubblica del 18 settembre 2006

I politologi e i filosofi non sono soliti attribuire molta importanza alla saggezza del diritto, che invece spesso compendia la lezione di secoli di lacrime e sangue e di esperienza pratica. Così, nelle discussioni odierne, di là e di qua dell´oceano, non capita di vedere ricordato che la tortura è oggetto di generale e incondizionata condanna in tutti i documenti internazionali sui diritti umani (art. 5 della Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948; art. 3 della Convenzione europea di salvaguardia dei diritti dell´uomo e delle libertà fondamentali del 1950; art. 7 del Patto internazionale sui diritti civili e politici del 1966; art. II-64 del progetto di Trattato costituzionale per l’Unione europea) e che una Convenzione del 1984 «contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti», interamente dedicata alla messa al bando dal mondo di queste pratiche, ne prevede la perseguibilità da parte dei tribunali di tutti i paesi ove si trovi il colpevole, indipendentemente dal luogo ove il delitto sia stato compiuto e senza che sia invocabile giustificazione alcuna, come le circostanze eccezionali di guerra o di minaccia di guerra, o come l’instabilità politica interna.

Questa unanimità si presta a essere semplicemente ignorata con leggerezza? Non significa nulla per coloro che pensano di avere qualcosa da dire e vogliono "fare opinione" su questioni di tanto peso e tanta gravità?

Gli strateghi della guerra al terrorismo ripropongono l’antica questione della legittimità della tortura e sostengono la necessità di una concezione, diciamo così, permissiva dello Stato di diritto. Il terreno della discussione è segnato dalla tensione tra sicurezza e libertà. Sicurezza e libertà vivono normalmente in un rapporto inverso d’implicazione.

Dove c’è più insicurezza, ivi c’è meno libertà. Così, chi vuole libertà deve provvedere alla sicurezza e, al contrario, chi vuole togliere libertà incomincia col diffondere insicurezza e paura. Che questo rapporto esista, almeno per chi consideri realisticamente la questione, è tanto chiaro da non meritare altre parole.

Quanto segue mira a portare argomenti alla tesi seguente: si può discutere se il bilanciamento tra sicurezza e libertà possa giustificare, e in quale misura, controlli sulle comunicazioni, indagini sull’origine e la destinazione di ricchezze sospette, restrizioni dei movimenti delle persone, perquisizioni di abitazioni, impiego della forza pubblica, "fermo" delle persone sospette, isolamento carcerario per certi periodi di tempo, e altre pur pesanti cose di questo genere; ma non si può discutere di bilanciamento a proposito della tortura e ciò per ragioni (a) di moralità e (b) di efficacia. Per una volta, l’una e l’altra vanno d’accordo.

(a) La tortura è normalmente associata, per esempio nei documenti internazionali sopra ricordati, alla riduzione in schiavitù e al genocidio, e insieme con questi è condannata come crimine contro l’umanità. In effetti, c’è qualcosa di essenziale che apparenta questi delitti e che spiega e giustifica la comune esecrazione. Per usare un’espressione di Giorgio Agamben, questo qualcosa di comune è la degradazione dell’essere umano a "nuda vita" biologica, a mera materia vivente, priva di ogni autonomia e protezione, inerme di fronte al puro arbitrio di chi, per i propri fini, esercita su di essa un potere illimitato e incontrollato. Per chi crede che sia possibile parlare di "progresso morale dell’umanità" o, almeno, formulare giudizi morali riguardanti le organizzazioni sociali, il rigetto della schiavitù, del genocidio e della tortura è il segno minimo e, per questo, irrinunciabile della coscienza civile in cammino. All’elenco, come crimine contro l’umanità, dovrebbe aggiungersi la pena di morte, sol che si considerino i momenti finali prima dell’esecuzione, i più moralmente ripugnanti, quando il condannato, spogliato ormai di ogni difesa e speranza e reso ebete con sostanze droganti, è cosa vivente inerte, nelle mani di esseri umani che la mettono a morte.

Accettare compromessi morali a giustificazione della condizione di chi, come in tutti questi casi, è totalmente privato di dignità e posto letteralmente nelle mani di qualcuno che può fare di lui ciò che vuole, significherebbe un enorme passo all’indietro, un dover ricominciare da zero, dai tempi in cui schiavitù, supplizi e stermini di massa erano non solo tollerati ma perfino giustificati come diritti naturali dei più forti. Significherebbe, in breve, un tradimento dell’umanità, dei suoi sforzi e delle sue sofferenze per uscire dallo stato belluino, dove vige solo la legge del più forte e la vita del più debole non vale niente. Questo cammino non può essere sottovalutato nemmeno registrando il grande scarto, anzi lo scarto crescente nella nostra epoca, tra la realtà morale e quella fattuale perché abbattere o abbandonare la prima significherebbe glorificare la seconda e i crimini della cosiddetta bio-politica, la politica che fa della nuda vita (altrui) un suo strumento.

Naturalmente, leggendo queste proposizioni si starà pensando che tra i crimini contro l’umanità rientrano anche quelli del terrorismo ed esattamente nello stesso senso di cui si è detto circa la tortura: anche i terroristi considerano gli esseri umani come nuda vita, da gettare nella lotta come materia bruta. Anche questa è bio-politica. E si starà per concludere che, inumanità per inumanità, la tortura, senza cessare d’essere strumento deplorevole, può diventare accettabile come male minore o effetto solo secondario, almeno fino a quando non sarà resa superflua da altri mezzi legali efficaci di cui la cooperazione internazionale si sia dotata e che, finora, scarseggiano, a dispetto degli sforzi profusi (un progetto di convenzione generale contro il terrorismo si scontra con difficoltà già sulla definizione di ciò che si vorrebbe proscrivere).

Ma prima di arrivare a questo: che un’infamia (il terrorismo) ne giustifica un’altra (la tortura) se serve, aspettiamo un momento. Il discorso, dal terreno della moralità assoluta si sposta a quello della moralità relativa, dell’efficacia rispetto al fine.

(b) Che cosa faresti tu se avessi tra le mani un terrorista che sa dove e quando una bomba è stata collocata per scoppiare tra la folla? Se attraverso una confessione estorta con violenza potessi salvare molte vite da un attentato? Sono punti interrogativi che pongono dilemmi etici non eludibili, ma non dimostrano quello che vorrebbero dimostrare: che lo Stato di diritto, in questi casi, è impotente e che, perciò, occorre comprometterne i principi in favore della sicurezza.

Di fronte a gravi e imminenti pericoli per sé e per altri, gli atti ritenuti necessari per sventarli, anche quelli che altrimenti sarebbero gravi reati, diventano, infatti, giustificati non solo moralmente ma anche giuridicamente, in forza del principio dello "stato di necessità", un principio comune a tutti gli ordinamenti giuridici. È dunque totalmente inutile, per questi casi, invocare sospensioni o attenuazioni della legalità.

Quelle domande, però, parlando di una cosa, di fatto, tendono a giustificarne un’altra: precisamente, parlano della violenza per sventare pericoli attuali e certi (cosa per la quale non c’è bisogno di alterare il sistema giuridico) e mirano a giustificare la violenza come strumento d’inquisizione, per estorcere informazioni e provocare confessioni da usare nei processi (cosa per la quale, invece, occorrerebbe sovvertire i più elementari principi del diritto). Una cosa è la violenza come difesa occasionata da impellenti circostanze di fatto; un’altra, come mezzo per condurre indagini di polizia.

Ma la tortura, a questo ultimo fine, è uno strumento efficace?

La legittimità, alla stregua della morale relativa o strumentale, dipende dall’efficacia. La criminologia che da secoli ha combattuto la sua battaglia per l’abolizione della tortura ne dubita; i dubbi aumentano con riguardo a organizzazioni criminali cementate dal fanatismo. Su chi non ha nulla da confessare, la violenza è pura e semplice gratuita crudeltà che, semmai, può indurre la vittima a inventare qualsiasi cosa per smettere dai tormenti. Chi sa ed è fortemente motivato tacerà fino alla fine o dirà cose utili non a indirizzare le indagini, ma a sviarle. Solo chi sa e non è fortemente motivato forse parlerà. Ma il terrorismo islamico si avvale di terroristi che non siano fortemente motivati? Non sono essi pronti a morire? Non trovano anzi nella morte per la causa la ragione del loro paradiso? Soprattutto, si può pensare che le organizzazioni terroristiche non prendano le cautele per evitare che i loro agenti, una volta caduti nelle mani di una polizia torturatrice, abbiano qualcosa da rivelare sotto i tormenti? Non tutti i dirottatori dell’11 settembre, a quanto si è detto, non si conoscevano l’un l’altro.

L’utilità per lo scopo dichiarato è quantomeno incerta (nemmeno Abu Ghraib e Guantanamo, con i suoi metodi, hanno prodotto risultati); certa è invece la barbarie che penetra nei rapporti civili. La tortura assolve, anzi valorizza violenza e sadismo che degradano non solo le vittime ma ancor più gli autori; comporta prelevamenti illegali di individui e segregazioni in luoghi di detenzione segreti (i "buchi neri"); richiede "esperti" addestrati all’uso tecnico della violenza; ha bisogno di tribunali speciali, processi senza pubblico e imputati senza difesa di fronte a "prove" ottenute con metodi da inquisizione; si conclude spesso con l’eliminazione fisica dei soggetti a fine trattamento, quando non servono più: tutte implicazioni che mostrano l’ingenuità, per non dire di più, dell’idea balzana di ammettere la tortura ma con garanzie legali (tortura garantita?). I fini sono così pervertiti: la tortura, giustificata con ragioni di sicurezza, finisce per istillare nella società violenza e terrore; se non si era terrorista prima, è probabile che lo si diventi dopo. Sembra fatta apposta per moltiplicare l’odio, diffonderlo anche in chi ne era esente e ritorcerlo contro coloro che l’hanno provocato. È proprio vero che quando si dispiegano le bandiere e suonano le trombette, i cervelli vanno in soffitta.

Dunque, un’immorale stupidità. Eppure c’è chi non si ritrae con spavento di fronte all’idea di un potere con licenza di tortura. Forse è perché, consciamente o inconsciamente, è persuaso che ciò non potrà riguardare se stesso, i suoi figli, i suoi cari o quelli del suo ceto, ma solo gli "altri", individui come loro ma di altre etnie, fedi, situazioni sociali o convinzioni politiche. Solo a questa condizione, si possono fare discorsi "freddi" sulla violenza e la sua utilità. Se così fosse, dovremmo constatare che alla base dell’apologia della tortura c’è un discorso falso: non è tanto questione di sicurezza, quanto di discriminazione razzista, religiosa, classista o ideologica. E così s’accenderebbe una luce ulteriormente sinistra.

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