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Nadia Urbinati
La Grecia e il mito della democrazia europea
5 Luglio 2015
Articoli del 2015
«La democrazia é un modo politico di vivere insieme nel quale tutti hanno un egual condivisione di potere e autorità di parola e di giudizio pubblico. Senza di che ci sono relazioni di dominio, come nelle satrapie orientali; senza di che non c'é posto per le mediazioni e le trattative, ma solo per la subordinazione a scelte imposte».

«La democrazia é un modo politico di vivere insieme nel quale tutti hanno un egual condivisione di potere e autorità di parola e di giudizio pubblico. Senza di che ci sono relazioni di dominio, come nelle satrapie orientali; senza di che non c'é posto per le mediazioni e le trattative, ma solo per la subordinazione a scelte imposte».

R.it online, 4 luglio 2015

In quel crogiuolo di pensiero radicale e critico che fu il gruppo riunito intorno a Jeremy Bentham, nella Londra degli anni Trenta dell'ottocento, avvenne un passaggio epocale di modelli politici: dalla Roma repubblicana all'Atene periclea. Il Settecento fu romano, come ci spiegò Arnaldo Momigliano, sia quando fu mito imperiale e cesaristico sia quando fu mito repubblicano. E non fu democratico. Nonostante le rivoluzioni costituzionali settecentesche americana e francese avrebbero inaugurato la democratizzazione in occidente, esse non nacquero all'insegna della democrazia, il nome ancora allora di un pessimo governo. I padri fondatori americani pensavano con orrore alle assemblee democratiche e congegnarono rappresentanza e federalismo come strategie per imbrigliare il demos: sostituendo i delegati eletti ai cittadini in assemblea, e rompendo la sovranità nazionale nell'articolazione federale. Circa i francesi, come avrebbe scritto con la sua penna inconfondibile Carlo Marx, essi vestirono i panni degli antichi romani come a coprire la mancanza di un linguaggio loro proprio che servisse a denotare la loro rivoluzione. E come i concittadini di Catone e di Cicerore, anch'essi disdegnavano la democrazia e riponevano nella virtù dei pochi tutta la fiducia nel futuro della rivoluzione, la quale deragliò verso la tirannia dei virtuosi perché fatta nel nome di una libertà che doveva essere meritata e non lasciata a tutti.

Ci volle la paura napoleonica per svegliare i liberali dal mito o dal terrore della virtù degli antichi e farli desiderosi di studiarli gli antichi invece di imitarli o mitizzarli. A Benjamin Constant, che dopo tutto continuava a rovescio la linea mitica settecentesca quando suggeriva ai suoi lettori di abbandonare gli antichi poiché avevano poco da dire ai moderni, John Stuart Mill, il più brillante del gruppo di Bentham, contrappose una strategia più convincente: quella della ricostruzione delle istituzioni e delle procedure inventate dall'Atene democratica, da Solone e Clistene fino a Pericle e Efialte. E il suo amico George Grote, sulla cui Storia della Grecia Momigliano scrisse nel 1952 pagine esemplari, si diede a ricostruire la storia politica, religiosa, filosofica e infine istituzionale dell'Atene classica, emancipando la democrazia dall'identificazione con il governo rozzo delle masse. Ne venne fuori un quadro straordinario di immaginazione costituzionale, di raffinatezza della conoscenza dei comportamenti umani collettivi, di cui già David Hume aveva colto l'originalità. Furono gli ateniesi dunque a mettere la democrazia sui binari delle procedure di decisione e dei controlli costituzionali, non gli spartani con le loro piazze di plebisciti urlati. Furono gli ateniesi a valorizzare il voto singolo e a prestare attenzione al suo conteggio, ad abbandonare la valutazione imprecisa del grido della massa, a scegliere la strada sicura e soprattutto libera da contestazioni dell'aritmetica.

I padri della democrazia moderna, liberale e costituzionale, furono dunque riattratti dalla Grecia antica, ma non per farne un mito irripetibile e pre-moderno, bensì per farne a tutti gli affetti il primo e fondamentale capitolo della storia dei moderni, che cominciava, ha spiegato Josiah Ober con la pratica democratica come "potere di fare succedere le cose insieme", non potere bruto, ma potere regolato da procedure e norme, dalla selezione per mezzo della lotteria all'elezione dei leader, alla diretta decisione popolare in assemblea. Una democrazia che escogitò sistemi di controllo delle proposte di legge (e dei proponenti) e delle leggi approvate; che, come Aristotele scrisse, sapeva assegnare ai pochi un ruolo nel governo dei molti.

A questa democrazia costituzionale, Mill e i liberali inglesi dell'ottocento si rivolsero per comprendere in che cosa la democrazia moderna era diversa da quella antica. E videro che tre furono le ragioni di superiorità dei moderni: l'invenzione della rappresentanza, l'emancipazione femminile e la liberazione del lavoro schiavo. Tre condizioni che rendevano la democrazia moderna capace di superare quella antica realizzando meglio il suo principio dell'eguaglianza politica. Quel modello, quella forma di governo per la quale, disse Pericle nell'orazione funebre, tutto il mondo ci ammira, ha ancora tanta forza simbolica da farci partecipare empaticamente ai destini di questo popolo che vuole riprendere Europa per impedire che nuovi despoti la conquistino. La priorità della politica su tutte le sfere sociali sta in questo mito che è squisitamente europeo perché e in quanto mito greco di una vita pubblica politica. Nelle parole di Aristotele, ai cui scritti la scienza e la pratica politica europee sono debitrici, la democrazia é un modo politico di vivere insieme nel quale tutti hanno un egual condivisione di potere e autorità di parola e di giudizio pubblico. Senza di che ci sono relazioni di dominio, come nelle satrapie orientali; senza di che non c'é posto per le mediazioni e le trattative, ma solo per la subordinazione a scelte imposte.

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