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Tommaso Fattori
La grande rapina della privatizzazione dell’acqua. Che cosa insegna all’Italia il caso inglese
12 Giugno 2011
Clima e risorse
Historia magistra vitae. Un saggio che aiuta a ragionare. Repubblica/Micromega online, 10 giugno 2011

Anticipiamo il testo dell'introduzione di Tommaso Fattori all'edizione italiana dello studio di David Hall ed Emanuele Lobina – ricercatori del PSIRU (Public Services International Research Unit) dell'Università di Greenwich – Da un passato privato ad un futuro pubblico. La privatizzazione del servizio idrico in Inghilterra e nel Galles, edizioni Aracne (di prossima uscita).

Questo rigoroso studio sugli effetti della “più grande rapina legalizzata” della storia britannica – definizione del quotidiano conservatore Daily Mail – contiene elementi importanti per il dibattito sulla privatizzazione del servizio idrico che sta attraversando il nostro paese, grazie all’iniziativa referendaria "2 sì per l’acqua bene comune" promossa da una vastissima coalizione sociale.

Un dibattito nel quale colpisce l’astrattezza ideologica delle tesi dei privatizzatori, aggrappati a modelli economici irreali, talvolta per l’ingenuità tipica di chi vive asserragliato nell’accademia senza contatto con il mondo esterno, più frequentemente per i forti interessi materiali connessi ai processi di privatizzazione. L’astrattezza di queste argomentazioni, spesso comicamente ammantate di pragmatismo, rifiuta con ostinazione di confrontarsi con i dati di fatto e con l’esperienza empirica, là dove i processi di privatizzazione del servizio idrico integrato siano avanzati e consolidati da anni. Anzi, sono proprio alcune esperienze di privatizzazione “riuscita”, come quella inglese o gallese, ad essere portate ad esempio da chi evidentemente non ha idea di ciò di cui sta discettando o confida nell’ignoranza di chi ascolta. Non è un mistero che in Italia il modello inglese venga portato ad esempio tanto dal governo di centro-destra che da parte dell’ opposizione, soprattutto perché consente di pronunciare una parola magica di gran moda: authority. L’authority, intesa come autorità indipendente di regolazione e controllo, appare alle menti neoliberiste un’entità quasi metafisica, che tutto dovrebbe risolvere all’interno di un mercato monopolistico privatizzato, coniugando armoniosamente il profitto di pochi e l’interesse generale. David Hall ed Emanuele Lobina mostrano invece, con dati incontrovertibili, come la mitica authority dell’acqua –più precisamente si tratta dell’Office of Water Service (Ofwat)- non sia affatto in grado di regolare o controllare alcunché, per limiti strutturali ed insuperabili di questo meccanismo, lasciando alle società private la possibilità di ricavare immensi profitti e di distribuire agli azionisti lauti dividendi attraverso la gestione monopolistica dell’acqua. Il servizio idrico è a domanda anelastica (la stessa quantità vitale d’acqua è necessaria ad una famiglia in tempi prosperi e in tempi di crisi, ai ricchi e ai poveri) ed è un servizio fondamentale perchè permette concretamente l’accesso ad un bene comune essenziale ed insostituibile per la vita. Un bene che dovrebbe riguardare la sfera dei diritti fondamentali è così consegnato al dominio dei profitti. L’authority finisce per essere una mera foglia di fico, che copre e legittima questo processo di spoliazione.

Hall e Lobina evidenziano come l’ente regolatore Ofwat sia stato continuamente raggirato dai gestori privati, che, nel migliore dei casi, hanno intascato extraprofitti riducendo gli investimenti programmati (ossia già pagati in tariffa dai cittadini). I casi più gravi non sono però emersi grazie al controllo di Ofwat ma perchè denunciati, a posteriori, dagli stessi autori dei misfatti, pentiti e decisi a svelare i meccanismi messi in piedi a danno dell’interesse generale. Negli scandali che hanno coinvolto Severn Trent, ad esempio, “l’informatore” è stato un ex manager che ha ammesso d’aver ricevuto l’ordine di alterare dati rilevanti al fine d’ottenere dal regolatore un aumento delle tariffe. Una vicenda che ha poi permesso di scoprire, attraverso successive confessioni, come una gran mole di dati forniti dalle società private ad Ofwat fossero falsi o gonfiati: dai dati sulle perdite di rete fino a quelli sulla consistenza reale delle morosità. Tutto ciò non fa che corroborare la tesi dell’impossibile governo e controllo pubblico delle gestioni privatizzate, avvolte nel guscio del diritto privato e regolate dal diritto societario. Un’impossibilità, aggiungerei, che non dipende tanto dalla cattiva volontà di singoli individui o da limiti organizzativi contingenti ma da fenomeni strutturali, come le “asimmetrie informative”: le conoscenze rilevanti si trovano tutte in mano al gestore (il gestore “sa” perché “fa”) ed è il gestore privatizzato che trasmette le informazioni sensibili al controllore, il quale non può che dipendere, nella sua attività di regolazione e controllo, da questi dati. Altrimenti detto, il gestore ha strutturalmente maggiori informazioni rispetto al regolatore e cerca di trarre il massimo vantaggio da questa asimmetria conoscitiva, a discapito del pubblico interesse. “Fare” significa “sapere” e sapere significa “potere”: nessun ente regolatore potrà mai recuperare quel cumulo di conoscenze legate alla gestione diretta che migra inevitabilmente dalla sfera del pubblico alla sfera del privato nel momento stesso in cui viene privatizzato un servizio essenziale. Il pubblico perde le conoscenze necessarie per esercitare il proprio controllo nel momento in cui è all'impresa che passa tanto il "fare" che il "saper fare" (know how), che gli è inscindibilmente connesso. Un soggetto regolatore esterno, per esempio, non può essere in grado di avere perfetta conoscenza dei processi produttivi e delle tecnologie impiegate, dati necessari per stabilire con precisione i costi di produzione del gestore privato. Ecco perché al fenomeno delle asimmetrie informative segue automaticamente la “cattura del regolatore”: se l’autonomia conoscitiva del regolatore è limitata, anche la capacità di giudizio e intervento viene impedita, così l’ente che dovrebbe regolare e controllare tende piuttosto ad adeguare le sue analisi alle interpretazioni offerte dai gestori, perdendo ogni neutralità e schiacciando il proprio punto di vista su quello dei soggetti controllati. Oltretutto, gli enti regolatori si devono solitamente rapportare a società privatizzate la cui governance effettiva è in mano a grandi soggetti multinazionali, che entro la società hanno il reale potere decisionale. Il caso inglese gallese trova quindi un perfetto pendant nell’esperienza italiana, dove le Aato, ossia le autorità di ambito che dovrebbero regolare e controllare i gestori, non sono affatto riuscite a regolare le società privatizzate, adeguandosi sostanzialmente alle richieste e alle esigenze dei controllati, a partire da quelle relative alla definizione delle tariffe. Agli albori della privatizzazione in Italia vi è il caso dell’Ato aretino, in Toscana, dove alla fine degli anni ’90 la gestione fu affidata tramite gara ad una società mista, con all’interno una cordata di privati guidati dalla multinazionale francese Suez. Proprio ad Arezzo il presidente dell’autorità di controllo si dimise dal suo incarico denunciando l’impossibilità di regolare la società privatizzata e rilevando la "debolezza endemica del rapporto pubblico-privato" [1] all’interno di una società mista, per quanto formalmente a maggioranza pubblica. In Italia il governo s’appresta nel 2011 a sostituire le autorità d’ambito territoriali con un’authority regolatrice nazionale sul modello inglese, ma si tratta di uno specchietto per le allodole: privatizzare il servizio idrico significa consegnare di fatto saperi e poteri alle gestioni privatizzate, come l’esperienza d’oltremanica mostra in modo limpido.

Qualcuno potrebbe ottimisticamente sostenere che in Italia la nuova ondata di privatizzazione dell’acqua offrirà maggiori garanzie perché intende muovere da premesse diverse: a differenza del modello inglese e gallese analizzato da Hall e Lobina, il modello di privatizzazione italiano dovrebbe prevedere, in origine, l’affidamento della gestione ad operatori privati tramite gara (o, in alternativa, l’ingresso di soci privati nelle Spa in house almeno con il 40% di partecipazione nel pacchetto azionario, soci da individuare sempre tramite procedura ad evidenza pubblica). Le gare potrebbero pur esser vinte da società di capitali interamente pubbliche, si aggiunge, come per velare ed occultare la logica privatrizzatrice del provvedimento [2], il cui obiettivo immediato è spazzar via proprio le gestioni in house. Lo si sarà facilmente intuito, in questo caso la nuova parola magica è gara: come se la gara potesse mutare d’incanto un pervicace “monopolio naturale” – in ogni territorio passa un solo acquedotto e c’è un solo fornitore possibile - in un mercato concorrenziale. Invece il monopolio naturale si trasforma così in un solido monopolio privato, con vita peraltro assai lunga, solitamente ventennale o trentennale (addirittura 50 anni in Inghilterra e Galles, dove sono state privatizzate persino le infrastrutture). Per sua natura il servizio idrico non può essere liberalizzato ma solo privatizzato e l’esperienza, ancora una volta, dimostra come la “concorrenza per il mercato” (il meccanismo di gara), che nella teoria dovrebbe compensare e risarcire l’assenza di un’impossibile “concorrenza nel mercato”, si riveli solo l’evanescente copertura per l’ingresso di soggetti privati a caccia di rendite garantite in un mercato monopolistico. Lo dimostra l’esperienza internazionale ma anche italiana, dato che le offerte presentate in occasione di gare effettuate nel nostro paese sono state una o due al massimo: il mercato dell’acqua privatizzata è dominato da oligopoli e questi pochi attori si mettono d’accordo fra loro per spartirsi rendite monopolistiche, come accaduto fra le presunte “concorrenti” Acea e Suez nelle gare realizzate in Italia nel decennio passato. L’Autorità antitrust, nel 2007, multò le due multinazionali “per aver posto in essere un’intesa restrittiva della concorrenza (…), che ha avuto per oggetto e per effetto un coordinamento delle rispettive strategie commerciali nell’ambito del mercato nazionale della gestione dei servizi idrici”. Più precisamente “l’istruttoria ha consentito di verificare che Acea e Se (Suez ndr) hanno raggiunto sin dal 2001 un accordo di massima sul coordinamento delle rispettive attività nel settore dei servizi idrici. In particolare, le parti hanno concordato la partecipazione congiunta a numerose gare relative a gestioni idriche in Italia – a partire da quelle bandite in Toscana, dove la forma operativa del PPP è stata adottata per la prima volta in maniera estesa (…) – ovvero combinazioni con soggetti terzi al fine di condizionare gli esiti di procedure ad evidenza pubblica (gare, ndr)”. Né sarebbe stato difficile immaginarlo, dal momento che la quota di capitale azionario di Acea in mano alla “concorrente” Suez è sempre stata consistente (nella primavera del 2011 la partecipazione è salita addirittura dal 10 all’11,5%). Il fine di questa alleanza era evidente: “un simile accordo di cooperazione (…) è stato volto a mantenere ed aumentare il rispettivo potere di mercato secondo criteri di mera strategia imprenditoriale e non di maggior efficienza industriale”. Suez non intendeva “lasciare Acea ad approfittare da sola dei margini realizzabili nel settore non regolamentato”: “obiettivo: utilizzare Acea come ‘braccio armato’ di Suez per l’acqua in Italia.” [3]

Per un altro verso, non esiste un solo economista (in grado di separarsi, anche per un istante, dagli amatissimi modelli astratti), che non conosca la banale verità: nel servizio idrico, dove gli affidamenti durano decenni, non sono mai possibili gare che permettano di valutare con attendibilità quale sia la migliore offerta economica, perché i termini fondamentali del contratto dovranno essere necessariamente rivisti nel tempo e ha ben poca importanza l’offerta avanzata in origine. In altre parole, tutti gli elementi economicamente determinanti su cui basare la scelta -a partire dagli investimenti e dalle tariffe- dovranno essere rinegoziati svariate volte dopo la gara, nel corso del lungo periodo d’affidamento del servizio. In gare di questa natura conta l’arbitrarietà e la discrezionalità di chi sceglie ma ancor più conta la forza ed il potere dei soggetti economici privati che si propongono per la gestione del servizio. Sarà poi il gestore che avrà ottenuto l’affidamento ad essere, nel corso delle successive rinegoziazioni, in posizione dominante (detenendo sapere e potere), anche se trovasse di fronte a sé il miglior regolatore al mondo. Insomma, la pragmatica Thatcher, nel demolire i servizi pubblici, ha almeno evitato ai poveri inglesi la ridicola pantomima della gara.

I privatizzatori sostengono inoltre che l’arrivo dei privati porti di per sé un aumento degli investimenti nel settore, per la ristrutturazione degli impianti e per la realizzazione di nuove infrastrutture (in Italia soprattutto per la depurazione delle acque reflue). Per innescare un simile meccanismo virtuoso, si dice, basta legare i profitti agli investimenti: se il privato tanto più investe quanto più guadagna, sarà spinto ad investire moltissimo, perseguendo il proprio interesse che si tradurrà anche in beneficio per tutti. Certo, le bollette si alzerebbero, sia perché gli investimenti vanno pagati interamente in tariffa (in base al sistema del full cost recovery), sia perché è giusto “premiare”, con i legittimi profitti, l’investitore privato; ma se il gestore privato risultasse efficiente, s’aggiunge, potrebbe diminuire i costi operativi e così i cittadini quasi non s’accorgerebbero del profitto e dei dividendi privati caricati sulle tariffe. Il caso inglese e gallese dimostrerebbero bene la realizzabilità di un simile miracolo, viene spesso ribadito. Se invece dal magico mondo dei modelli astratti torniamo all’esperienza del mondo reale, vediamo che le cose non stanno così, né mai potrebbero stare così. Innanzitutto, a proposito di profitti occorre una premessa: chiunque abbia dimestichezza con i processi di privatizzazione sa bene quali e quanti modi vengano utilizzati normalmente dai privati dell’acqua per ottenere profitti ed extra-profitti, fra cui, ad esempio, il travestire da investimenti spese che nelle gestioni pubbliche figuravano più onestamente in bilancio come voci per normalissimi costi di gestione ordinaria; spacciare per consulenze e trasferimento di know-how quelli che invece sono “utili anticipati” per i soci privati; affidare appalti a società direttamente o indirettamente controllate o collegate, senza passare da gara (spezzettando l’appalto in più parti quando si tratti di lavori superiori ai 4,8 milioni di euro). Ma è necessario porci la domanda di fondo: davvero sono i privati a far partire gli investimenti? Cosa ci insegna, in proposito, il famoso caso inglese-gallese? Hall e Lobina mostrano chiaramente due cose. La prima è che il motore degli investimenti in Inghilterra e Galles è stata più semplicemente la necessità esogena di rispettare le nuove direttive UE, specialmente in materia di qualità delle acque. In altre parole, qualunque gestore, pubblico o privato, avrebbe dovuto realizzare le opere e programmare nuovi investimenti. La seconda, che negli ultimi anni di gestione pubblica (dalla metà degli anni ’80), dopo un periodo precedente di stallo, il ciclo d’investimenti era già ripartito ad un tasso di crescita medio persino superiore a quello riscontrato nei successivi anni di gestione privata.

Ma gli elementi importanti che Hall e Lobina evidenziano sono molteplici. Prima di tutto mostrano come nei primi dieci anni di privatizzazione un terzo degli investimenti siano stati in realtà finanziati da un insieme di “sussidi pubblici”. Anche in Italia le associazioni di categoria che riuniscono le Spa dell’acqua continuano a chiedere finanziamenti pubblici a fondo perduto –quindi denaro della fiscalità - a favore dei gestori privati per effettuare investimenti straordinari, in violazione della normativa europea e del meccanismo del full cost recovery (implicita ammissione, fra l’altro, che il meccanismo della privatizzazione della fonte di finanziamento e della gestione non sta funzionando) [4]. Insomma, socializzare i costi e privatizzare gli utili.

I due autori ricordano anche come, dopo il picco raggiunto nel 1992, gli investimenti delle gestioni privatizzate abbiano iniziato a calare costantemente, mentre non scendono affatto le tariffe pagate dai cittadini che anzi continuano a lievitare, malgrado il loro andamento debba essere teoricamente legato agli investimenti. Nelle tariffe i cittadini inglesi e gallesi pagano per decenni investimenti in gran parte mai realizzati. Gli operatori privati ottengono continuamente da Ofwat l’applicazione di tariffe più salate, gonfiando con regolarità le spese per investimento previste, salvo poi ridistribuire agli azionisti, sotto forma di dividendi, la differenza fra investimenti programmati e investimenti effettivamente realizzati. Un furto scandalosamente spacciato per capacità dei privati di risparmiare sulle spese previste migliorando in corso d’opera l’“efficienza del capitale” (fulgido esempio di cosa s’ intenda per “efficienza” della gestione privata). Di fatto, si tratta di milioni di extra-profitti che passano dalle tasche dei cittadini a quelle degli azionisti privati delle società di gestione, malgrado l’esistenza della mitica Authority a regolare e vigilare, con aplomb britannico. Hall e Lobina portano dati precisi su questa impennata di profitti ed extra-dividendi distribuiti dalle società privatizzate dell’acqua: nel 2005-6 l’ammontare del “risparmio” tocca il miliardo di sterline (il 22% di spesa in meno rispetto alla stima degli investimenti su cui Ofwat aveva stabilito la tariffa).

Così i privati hanno continuato ad intascare dividendi da favola mentre le tariffe dei cittadini hanno continuato a crescere senza sosta. Gli studi citati concordano nel rilevare una relazione diretta fra aumenti delle tariffe ed incremento dei profitti per i gestori. Nei primi 10 anni di privatizzazione i profitti delle principali dieci società idriche inglesi sono cresciuti del 147%: circa il 30% della bolletta pagata dal cittadino è intascata dagli azionisti privati sotto forma di dividendi. Nelle Spa dell’acqua italiane, quel 7% di “adeguata remunerazione del capitale investito” contro cui si è rivolta l’iniziativa referendaria [5] incide mediamente, nel 2011, per il 15% sul totale della bolletta pagata (senza mettere in conto extra-profitti e utili indiretti che i soci privati sono in grado di realizzare a danno dei cittadini). In Inghilterra e Galles all’impennata del 245% delle tariffe dal 1989 al 2006 (39% oltre il tasso d’inflazione), non è corrisposto nessun miglioramento del servizio, nessuna “efficienza” magicamente infusa nel sistema dai privati. L’analisi dei dati mostra come, in termini reali, i costi operativi siano rimasti gli stessi mentre l’aumento costante delle tariffe sia da imputare principalmente “a vari elementi associati al capitale – i costi del capitale, l’interesse, i profitti- che sono quasi raddoppiati in termini reali”. Vale la pena ricordare come vi sia universale accordo fra gli studiosi del settore sul fatto che un aumento dell’1% della remunerazione del capitale investito equivale a oltre il 10% di riduzione dei costi di gestione: il maggiore costo del capitale divora facilmente eventuali margini di efficienza, intesi come riduzione dei costi operativi. Le gestioni privatizzate costano di più e sono nella maggior parte dei casi tutt’altro che efficienti. Il mantra ideologico della maggior efficienza del privato rispetto al pubblico, ossessivamente ripetuto negli anni ’80 e ’90, ormai non è più intonato neppure da Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale, che pure avevano puntato molto sulla privatizzazione dei servizi pubblici essenziali, acqua in primis. Tutti gli studi sui servizi idrici ribadiscono che non esiste alcuna superiore efficienza delle gestioni private rispetto a quelle pubbliche, come ammette la stessa analisi pubblicata dalla Banca Mondiale nel 2005, opportunamente citata da Hall e Lobina: statisticamente “non c’è una differenza significativa fra l’andamento dell’efficienza degli operatori pubblici e quello dei privati”. A parità d’efficienza gestionale, però, l’ottimo privato costerà necessariamente alla collettività molto più dell’ottimo pubblico, data l’intrinseca necessità del privato di produrre profitti e remunerare i capitali investiti: l’obiettivo di una gestione privatistica del servizio idrico è, innanzi tutto, la creazione di valore per gli azionisti (non la garanzia del diritto d’accesso universale al bene acqua). Maggiori profitti si possono ottenere aumentando le tariffe, tagliando il costo del lavoro, riducendo la qualità del servizio. I profitti si possono incrementare anche aumentando i volumi d’acqua venduti (anziché incoraggiare il risparmio e la tutela della risorsa), riducendo gli investimenti effettivi rispetto a quelli programmati (e perciò pagati in tariffa), spacciando interventi d’ordinaria manutenzione per investimenti.

I dati e gli studi raccolti da Hall e Lobina compongono un quadro preoccupante- per quanto non inaspettato - degli effetti della privatizzazione, che va ben al di là degli impressionanti aumenti tariffari che hanno colpito i cittadini e in particolare le famiglie più povere (costrette a spendere il 4% del loro reddito per pagarsi l’acqua, se non a subire il “distacco” dal servizio per morosità). Mostrano gli impatti negativi sul lavoro e sui lavoratori, diminuiti nel settore del 21%, anche se le gestioni private hanno fatto in seguito massiccio ricorso ad esternalizzazioni e lavoro precario (meno pagato e meno qualificato), a danno della qualità del servizio. Mostrano il gran numero d’incidenti ambientali causati dalle società privatizzate, Suez ed Enron in testa. Mostrano infine come le reti idriche siano peggiorate e si siano deteriorate ad una velocità superiore alla capacità dei gestori di rinnovarle e come, a dieci anni dalla privatizzazione, la qualità dell’acqua potabile risultasse ormai al di sotto degli standard minimi, presentando quasi ovunque valori oltre i limiti consentiti rispetto a numerose sostanze dannose per la salute.

Scorrendo i dati raccolti si scopre come casi d’acqua razionata e di fornitura interrotta non riguardino solo alcune realtà del sud Italia (dove sono gli interessi mafiosi a condizionare il “governo” dell’acqua e la sua fornitura) ma, in occasioni di siccità, abbiano colpito persino aree dell’est inglese, a causa di incapacità gestionali delle società private dell’acqua, che in precedenza avevano preferito distribuire maggiori dividendi anziché realizzare importanti investimenti. A proposito delle perdite di rete (terreno su cui avrebbe dovuto misurarsi la capacità d’investimento privato), difficile non notare come la città più grande della Gran Bretagna, Londra - gestita dalla privatissima Thames Water - abbia perdite del 40%. Volendo fare un paragone con realtà comparabili del nostro paese, ossia con le città italiane più grandi, si osserverà come a Roma, gestita dalla Spa mista e quotata in borsa Acea (nel cui capitale sociale vi sono Suez, banche private e l’imprenditore delle costruzioni Caltagirone) si registrino perdite di rete del 35%. A Milano, dove si ha una gestione ancora a totale capitale pubblico che ha ereditato strutture e saperi dell’azienda municipalizzata, si registrano a tutt’oggi perdite del 10%, fra le più basse di tutta Europa. A Milano si registrano anche tariffe fra le più basse del continente, tra l’altro. Pure a Napoli l’acqua è gestita da una società a totale capitale pubblico: le tariffe sono basse e le perdite di rete sono del 18%, il miglior dato del paese subito dopo Milano, sempre secondo i dati dell’indagine Civicum-Mediobanca del 2010.

Il caso inglese-gallese impone dunque una riflessione complessiva sul capitolo degli investimenti. In Italia per anni è stato ripetuto che l’ingresso dei privati all’interno di Spa miste sarebbe stato indispensabile per ottenere i capitali freschi necessari per gli investimenti. In verità, ora che i soci privati fanno parte già da molti anni di un numero considerevole di Spa, l’esperienza indica alcune evidenze. La prima è che i privati sono entrati ottenendo, in cambio di basse capitalizzazioni (i capitali vengono conferiti per poter entrare nella compagine azionaria), la governance effettiva della società, a partire dalla nomina dell’amministratore delegato. La seconda è che i capitali utilizzati per gli investimenti derivano dall’autofinanziamento - la liquidità messa a disposizione dai cittadini attraverso le tariffe - ma soprattutto sono il frutto dei prestiti ottenuti a caro prezzo dalle banche (capitale di debito conseguito attraverso mutui o project financing), che saranno a loro volta ripagati dalle future bollette. Le banche che prestano il denaro alle società, a tassi d’interesse di mercato, sono a loro volta socie delle medesime Spa. Anche in Inghilterra e Galles la dinamica è stata la medesima: privatizzato il servizio, ben presto le principali fonti dei capitali per le società private sono state le banche. Il livello dell’indebitamento delle società con gli istituti di credito è cresciuto da un valore pressoché nullo ad un valore medio del 60% con punte del 75%.

Il costo del capitale privato è notoriamente molto più alto del costo del capitale ottenibile tramite finanza pubblica. Il modo in assoluto più costoso per finanziare gli investimenti è quello di ricorrere al capitale privato, vuoi che si tratti di capitale equity (azioni), vuoi che si tratti di capitale di debito (indebitamento con le banche). A maggior ragione ciò vale in un servizio come quello idrico, che necessita di notevoli quantità di denaro per realizzare gli investimenti e dove quindi il costo del capitale incide enormemente sul costo complessivo del servizio. Questa semplice verità è confermata ancora una volta dal caso inglese e gallese: quando si debba trovare denaro per far funzionare un servizio -mostrano le cifre e i grafici raccolti da Hall e Lobina- il finanziamento tramite capitale azionario si è rivelato il più costoso in assoluto (dividendi da pagare agli azionisti). Segue il finanziamento degli investimenti tramite prestito bancario, che è più conveniente dell’equity ma pur sempre costoso (interessi sul capitale prestato). Il modo in assoluto più conveniente per ottenere capitale per gli investimenti è, ovviamente, il ricorso a forme di finanza pubblica. In altre parole, se invece di finanziarsi attraverso l’equity, se invece di ricorrere alla borsa o di prendere prestiti in banca vi fossero aziende pubbliche dell’acqua, il passaggio a forme di finanziamento privo di rischi (titoli di debito pubblici) permetterebbe di risparmiare ogni anno cifre colossali.

Per gli stessi motivi anche in Italia la proposta alternativa di finanziamento del servizio idrico avanzata dal Forum italiano dei movimenti per l’acqua prevede, al posto della costosissima combinazione di capitale equity e capitale di terzi che la privatizzazione porta con sè, un insieme di strumenti di finanza pubblica e di fiscalità generale, nel contesto di una gestione del servizio tramite soggetti di diritto pubblico [6]. Ciò permette di fuoriuscire dalla morsa stritolante del grande capitale finanziario, che, per far funzionare servizi d’interesse generale, obbliga a ricorrere all’equity e al costosissimo mercato privato del credito, con l’unico fine di far fruttare il capitale. La tariffa dell’acqua si trasforma in “prezzo” e il cittadino si trasforma in consumatore, obbligato a finanziare la creazione di ricchezza per i detentori di capitale privato per poter accedere ad un bene vitale come l’acqua. E’ questo il senso profondo della trasformazione di un bene comune in “merce”.

Gli strumenti di finanza pubblica in grado di mettere a disposizione risorse per gli investimenti ad un costo notevolmente più basso sono molteplici, dai titoli di debito classici a quelli più innovativi, dai “Bot di scopo” di lunga o lunghissima scadenza ai bond irredimibili (che possono esser emessi anche localmente). Il “prestito irredimibile” non prevede la restituzione del capitale -non incide quindi sul debito pubblico- e in cambio garantisce al prestatore una rendita perpetua ad un tasso d’interesse congruo. Questo strumento, il cui costo sarebbe pagato attraverso le tariffe, potrebbe esser utilizzato per coprire gli investimenti necessari a ristrutturare le reti. Allo stesso tempo occorre quantomeno ripensare la funzione delle banche pubbliche, o di ciò che ne resta (Cassa depositi e prestiti), se non proporsi di progettare una nuova generazione d’istituti di credito pubblici, che potrebbe contemplare anche l’istituzione di una specifica banca dell’acqua, sul modello dell’olandese Nederlandse Waterschapsbank.

La logica autentica del servizio pubblico si sposa in modo naturale e automatico con gli strumenti della finanza pubblica perché rifiuta ogni finalità speculativa: non è orientata alla distribuzione di dividendi e di profitti, ossia alla remunerazione dei capitali, bensì alla copertura dei costi attraverso i ricavi e alla necessità di reinvestire nel servizio tutti gli “avanzi di bilancio” (che per questo non possono essere definiti “utili”). In altre parole, la logica pubblica si pone il problema del costo del capitale ma non quello della sua remunerazione in termini speculativi. In tal senso sono pensati gli strumenti della finanza pubblica per reperire fondi per gli investimenti al minor costo possibile. Affinché si dia questo cambio di paradigma, però, occorre uscire definitivamente dal quadro delle società di capitali, che sono per loro natura costrette a ricorrere al mercato privato del credito per finanziarsi.

Ma è ineludibile un altro nodo. E’ necessario anche il parziale ricorso alla fiscalità generale per finanziare l’accesso al minimo vitale d’acqua cui ha diritto ciascuna persona (indipendentemente dalla sua condizione sociale) e per effettuare gli investimenti in nuove infrastrutture. Il full cost recovery, viceversa, è il meccanismo che pretende di caricare sulle tariffe tutti gli investimenti, oltre ai consumi, ai costi di gestione del servizio, ai profitti e ai dividendi per gli azionisti. Un meccanismo che, peraltro, non sta funzionando: in Italia, da quando è stato adottato circa a metà degli anni ’90, gli investimenti sono crollati di due terzi ed oggi vengono realizzate poco più della metà delle opere programmate. La domanda di fondo è: chi deve pagare gli investimenti per nuove infrastrutture, solo il cliente-utente o anche il cittadino-contribuente? I costi di una nuova infrastruttura acquedottistica o di un nuovo depuratore (esattamente come un nuovo ospedale o una nuova scuola) se costruiti grazie a fondi provenienti dalla fiscalità generale saranno pagati, in proporzione, in misura maggiore dai contribuenti più ricchi. In altri termini, le aree più avanzate di un paese o di una regione sosterranno quelle più povere e i cittadini più facoltosi parteciperanno alla realizzazione dei diritti dei concittadini meno abbienti, dato che l’imposizione fiscale è progressiva. All’opposto, caricare tutti i costi infrastrutturali in tariffa significa costruire un meccanismo di finanziamento fortemente regressivo dal punto di vista distributivo. Insomma, quando un bene essenziale come l’acqua viene interamente finanziato tramite tariffa, compresi gli investimenti infrastrutturali straordinari, ricchi e poveri si trovano a pagare l’investimento senza nessuna proporzione al reddito percepito e senza alcun meccanismo di solidarietà sociale. Inoltre -dato che ricchi e poveri hanno bisogno della stessa quantità d’acqua per bere, cucinare, lavarsi- tariffe più salate incideranno in misura molto diversa sui redditi, come ben mostra il capitolo che Hall e Lobina dedicano all’impatto della privatizzazioni sulle fasce deboli.

C’è chi taglia corto e sostiene che privatizzare interamente la fonte di finanziamento del servizio attraverso il full cost recovery, pur con i suoi effetti socialmente regressivi, è una necessità dei tempi: i soldi pubblici sono scarsi ed è inevitabile scegliere fra sanità e acquedotti, fra scuole e depuratori, come se si potesse vivere senza diritto alla salute o senza accesso all’acqua potabile, come se qualcuno ci chiedesse di scegliere se preferiamo smettere di dormire o smettere di respirare. Certamente se oggi vi è un problema di priorità di spesa questo non si pone fra acquedotti e ospedali bensì, più probabilmente, fra servizi essenziali e spese per armamenti, ad esempio. Se gli italiani potessero scegliere direttamente se considerano prioritaria l’acqua o l’acquisto dei nuovi caccia F35, la cui spesa assorbirà nei prossimi anni circa 13,5 miliardi di euro, l’esito della consultazione sarebbe scontato. Insomma, altre sarebbero le priorità o le alternative su cui dovremmo interrogarci come cittadini, dato che la fiscalità generale viene impiegata direttamente o indirettamente per cofinanziare tante delle inutili “grandi opere” previste nella così detta legge obiettivo. Senza aerei da guerra o senza nuove autostrade si può vivere, persino meglio, ma non senz’acqua. Se poi venisse rafforzata la lotta all’evasione fiscale, al contrario incoraggiata dai governi attraverso condoni di ogni genere, e se si studiassero specifiche “tasse di scopo” (ad esempio una tassa sulle bottiglie in plastica per le acque minerali) sarebbe possibile ricostruire a perfezione l’intero sistema idrico integrato del paese, grande opera utile e necessaria, senza incidere sul debito e sul deficit pubblico.

Infine, la vera vittima della privatizzazione è la democrazia. I nodi sono l’assenza di qualsiasi controllo democratico sul bene acqua una volta che ne sia stata privatizzata la gestione e la perdita di ogni potere decisionale da parte dei cittadini. Amministrazioni locali, consigli elettivi e cittadini sono allontanati dal governo del bene e le scelte si trasferiscono nelle società di gestione private e nei loro consigli d’amministrazione. Persino la proprietà del bene acqua, che formalmente resta bene demaniale e pubblico (tanto in Inghilterra quanto in Italia) passa sostanzialmente nelle mani di chi gestisce il servizio idrico: si tratta della differenza fra proprietà formale e sostanziale del bene. Il reale proprietario del bene diviene il soggetto che gestisce ed eroga il servizio. Hall e Lobina mostrano come in Inghilterra e Galles il deficit democratico investa tanto le società di gestione quanto l’ente regolatore, l’Ofwat: né le prime né quest’ultimo sono responsabili davanti agli organi rappresentativi, locali o nazionali. L’ Ofwat è talmente indipendente da essere indipendente persino dai cittadini, si potrebbe dire. Pur in un quadro differente, anche in Italia la privatizzazione ha necessariamente condotto allo stesso esito: le Spa che gestiscono il servizio idrico integrato sono divenute vere e proprie istituzioni post-democratiche, arene decisionali chiuse e opache in cui si è spostato il governo del territorio. Le Spa, guidate dalla logica della massimizzazione del valore per gli azionisti, rappresentano il nuovo luogo d’elaborazione e definizione delle politiche territoriali. Gestiscono beni comuni fondamentali come l’acqua, spesso assieme ad altri servizi pubblici locali (Multiutilities). La Spa mista pubblico-privata, declinazione su scala territoriale delle forme post-democratiche della governance globale, è in Italia il modello prevalente di privatizzazione: la Spa mista è un tavolo di concertazione a-democratico cui siedono cordate di soggetti privati (fra cui multinazionali italiane e straniere, banche, imprenditori del cemento) e personale nominato dai sindaci, senza alcun legame con i consigli elettivi. Ricostruire le catene di responsabilità all’interno dei meccanismi decisionali delle Spa è impossibile, la privatizzazione delle decisioni e delle scelte è definitiva: non vi è più nulla di pubblico nè di democratico in questo sistema di governance locale.

Sarebbe lungo ripercorrere come si sia giunti fin qui. Certo è che all’origine di questi processi di privatizzazione e “de-democratizzazione” vi sono precise scelte politiche, in buona parte legate ai cicli di riforma della pubblica amministrazione avviati negli anni ’90. In Italia le responsabilità della politica nell’erosione del pubblico sono spesso anche precedenti: non di rado élites politiche si sono surrettiziamente appropriate dei beni di tutti, considerando i beni comuni come loro beni privati e trasformando la gestione pubblica in una gestione clientelare o lottizzata. Le Spa miste – le partnership pubblico-private – rappresentano l’esito finale e il perfetto connubio di questa doppia forma di privatizzazione del bene comune: emancipatesi dal diritto pubblico per abbracciare il diritto privato, allontanatesi da ogni partecipazione e controllo dei cittadini, élites politiche e cordate di soggetti privati hanno dato vita ad un nuovo luogo di governance opaco e a-democratico. A queste istituzioni viene consegnato il governo dell’acqua e dei beni comuni, ossia de facto il governo del territorio e l’elaborazione concreta delle politiche pubbliche locali. Queste istituzioni sono fortezze senza porte né finestre, in cui privatezza e segretezza si fondono nell’opposto di ciò che dovrebbe essere una gestione pubblica, trasparente e democraticamente partecipata dei beni comuni.

Hall e Lobina ricordano come alla fine degli anni ’80 fu Margareth Thatcher, dunque ancora una volta la politica, a decidere la privatizzazione di servizi e beni che, essendo “comuni”, non avrebbero dovuto essere alienabili, in quanto non a disposizione delle maggioranze politiche e del princeps di turno. In quell’epoca le aziende private furono persino fatte entrare nella governance dello stato, ottenendo voce in capitolo nella stesura di alcune leggi (attraverso la creazione delle istituzioni così dette “quasi governative”, spiegano Hall e Lobina). Uno studio sul peso delle Spa privatizzate nella definizione delle leggi nazionali e regionali sui servizi pubblici probabilmente rivelerebbe elementi interessanti anche sul potere effettivo assunto in Italia – nella definizione del quadro giuridico – da soggetti privati e dalle loro organizzazioni di categoria. Potenti amministratori delegati si sono vantati, in alcune occasioni pubbliche, di avere “ispirato”, se non direttamente scritto, questo o quel determinato articolo di legge relativo alle privatizzazioni.

Nel passato remoto, in Italia come in gran parte dei paesi europei, le prime strutture e le prime gestioni del servizio idrico erano private. Gestioni la cui inefficienza, il cui costo e la cui incapacità di assicurare l’universalità del servizio – e di conseguenza di garantire la salute pubblica – spinsero a compiere una scelta di civiltà: all’inizio del ‘900 un’ondata di municipalizzazioni condusse alla gestione pubblica dell’acqua, per garantire a tutti l’accesso a questo bene fondamentale. Chi pensa alla privatizzazione come ad un sinonimo di “modernizzazione” ha un concetto molto antico e regressivo di modernità. I nuovi cicli di privatizzazione costituiscono un ritorno al passato, a logiche di profitto e d’esclusione, non certo un passo avanti. Il futuro deve essere certamente “pubblico”, come ricorda il titolo del saggio di Hall e Lobina, ma il pubblico deve essere ripubblicizzato. Se infatti la gestione pubblica è una condizione necessaria, perché consente di escludere i profitti di pochi da un bene di tutti, non è però una condizione di per sé sufficiente. Il nuovo pubblico deve essere trasparente e partecipato democraticamente dai cittadini, non espropriato da oligarchie politiche. Clientelismi, lottizzazioni, degenerazioni burocratiche e tecnocratiche sono state il primo stadio della “privatizzazione” e del sequestro dei beni di tutti da parte degli interessi di pochi. In futuro la gestione dell’acqua e dei beni comuni dovrà essere “comune”: gli esempi in questo senso si stanno moltiplicando, da Siviglia a Parigi. Beni comuni e ripubblicizzazione del pubblico sono la sostanza di una nuova politica per il XXI secolo, come insegnano i movimenti per l’acqua di tutto il pianeta.

NOTE

(1) Rimando a Tommaso Fattori, Impero Spa: i mercanti d’acqua, 2008 disponibile all’indirizzo http://www.perunaltracitta.org/images/quaderni/fattori.pdf

(2) Si tratta del “Decreto Ronchi”, oggetto del primo dei due quesiti referendari del 12/13 giugno 2011 (abrogazione dell’art.23 bis della legge 133/08 e successive modifiche, appunto quelle introdotte da Ronchi nel 2009).

(3) E’ possibile scaricare qui la delibera del 22 novembre del 2007 dell’autorità garante della concorrenza e del mercato: http://www.acquabenecomunetoscana.it/IMG/pdf/Sentenza_antitrust_Acea-Suez_Nov_2007.pdf

(4) Nella primavera del 2010 Federutility ha scritto al governo chiedendo senza giri di parole lo stanziamento di “fondi pubblici di accompagnamento e sostegno per cofinanziare gli interventi previsti” nel settore idrico. Nella stessa direzione anche le richieste di Cispel alla regione Toscana, regione in cui il servizio idrico integrato in 5 Ato su 6 è gestito da Spa miste.

(5) Si tratta del secondo quesito sottoposto a referendum popolare il 12/13 giugno 2011: abrogazione parziale dell’art. 154 del D.lgs 152/06 (decreto ambientale)

(6) La proposta è consultabile all’indirizzo http://www.acquabenecomune.org/investimenti.pdf

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