Il Fatto Quotidiano, 7 febbraio 2016 (m.p.r.)
La tragica fine di Giulio Regeni, qualunque sia stata la causa, ha messo in evidenza un elemento nascosto della nostra politica nei confronti dell’Egitto: l’imbarazzo. Il presidente della Repubblica ha auspicato «piena collaborazione delle autorità egiziane» parlando di «preoccupante dinamica degli avvenimenti» e di «crimine così efferato, che non può rimanere impunito». Eppure le autorità egiziane in quel momento qualificavano l’episodio come “incidente stradale”. Evidentemente il nostro Presidente non credeva alla versione ufficiale. Il presidente del consiglio ha manifestato i suoi dubbi chiedendo che fosse «dato pieno accesso ai nostri rappresentanti per seguire da vicino tutti gli sviluppi delle indagini». Cosa che di solito si richiede alle repubbliche delle banane.
Il presidente egiziano Al Sisi ha risposto dicendo di aver «ordinato» al ministero dell'Interno e alla Procura generale di «perseguire ogni sforzo per togliere ogni ambiguità». Evidentemente anche lui dubitava dei suoi e ha ritenuto necessario impartire un “ordine” perentorio per qualcosa che dovrebbe essere normale. Il nostro ministro degli esteri ha chiesto che la verità «emerga fino in fondo», non per obbligo di governo ma per dovere verso la famiglia. La sensibilità politica è assente. Anche il ministro dell’Interno ha invocato la verità come fa chi ha di fronte qualcuno che mente per professione. In più, ha inviato un team d’investigatori per controllare gli egiziani e … controllarsi a vicenda. Polizia, carabinieri e interpol sono stati mandati assieme quasi a segnalare che non ci si può fidare di nessuno dei tre singolarmente presi. In ogni caso, l’appello alla verità è apparso venato d’ipocrisia e ha messo in difficoltà le autorità egiziane che ora devono capire quale verità possa essere soddisfacente.
L’incidente stradale non è credibile anche se sarebbe facile trovare un colpevole o un testimone. L’omicidio di stato nei riguardi di un attivista dell’opposizione egiziana o l’eccesso di “zelo” della polizia segreta, depongono male per gli egiziani. L’omicidio di stato dei nostri servizi o l’esecuzione di mafia sarebbero buone soluzioni per l’Egitto ma non per noi. L’omicidio criminale (per rapina o sequestro) sarebbe facile da confezionare ma con danno d’immagine per un paese la cui capitale vuole essere ordinata e sicura. Rimangono le “verità” del sequestro jihadista e del suicidio: facili da far accettare e convenienti per tutti. Forse qualcuno ci sta già pensando. A prescindere dalle frasi di circostanza, ad ogni livello istituzionale si palpano concretamente i molti dubbi che in Italia e in Occidente si nutrono nei riguardi dell’Egitto. Eppure tali dubbi sembrano svanire quando dal caso drammatico di un singolo individuo si passa al dramma della guerra.
L’Egitto è considerato un paese affidabile, un alleato leale, un amico che vogliamo sia coinvolto attivamente nella guerra contro il cosiddetto califfato in Libia e altrove. Sembra che l’Egitto sia indispensabile e perciò che gli si debba perdonare tutto in nome d’interessi nazionali che nessuno ha mai esplicitato e che, per triste esperienza in Egitto, come in Libia e in Italia, sono in realtà interessi privati camuffati da interessi pubblici. L’imbarazzo finisce infatti quando dal delitto individuale si passa a quello politico. La cosiddetta “seconda guerra civile libica” vede l’Egitto tutt’altro che imparziale e non di certo impegnato nella salvaguardia del mondo dalla minaccia jihadista. Il regime del generale Al Sisi persegue in Libia chiari interessi personali e di “casta” (anche qui spacciati per interessi nazionali o addirittura globali) cercando di soffocare l’opposizione interna e l’attività dei fratelli Musulmani di Tripoli: non importa se il tentativo conduce ad una divisione irrimediabile e caotica della Libia. Il califfato e la sua presunta espansione sono soltanto i pretesti, non solo egiziani, per mantenere Libia, Siria, Iraq e l’intero Medioriente in uno stato di destabilizzazione permanente.
Ed é sempre la destabilizzazione interna ed esterna che consente al regime egiziano di controllare il potere e di avere il supporto delle maggiori potenze mondiali. In Egitto si sta sviluppando una lotta politica che vede contrapposte la Forza Militare (conosciuta come “la grande muta”) e le componenti religiose e sociali che dopo la promettente svolta del 2011 sono state ammutolite a suon di minacce, eliminazioni ed ergastoli. Tale lotta tra “muti” è stata esportata in Libia con il consenso ed il gaio supporto di tutta, o quasi, la comunità internazionale. Non conta neppure il fatto che una Libia stabilizzata potrebbe essere uno sfogo per centinaia di migliaia di lavoratori egiziani. Prevale purtroppo la salvaguardia di un regime che non si può permettere né la contestazione interna né l’isolamento internazionale. Il mutismo in campo politico internazionale non è genetico o traumatico, ma epidemico. Noi italiani fin dai tempi dell’Egitto di re Farouk e per tutti quelli di Nasser, Sadat, Mubarak, Tantawi e persino Morsi siamo stati contagiati da questa menomazione che si è aggiunta a quelle già esistenti della sordità e della cecità. Ma ormai siamo in buona compagnia e ci tocca anche turarci il naso.