L'infamia di una guerra che da decenni priva d'ogni diritto un popolo incolpevole, vittima di un governo immemore della tragedia che ha provocato il suo approdo in una terra d'altri. La Repubblica, 13 ottobre 2016
UN SOLE impietoso picchia sulla tettoia del lungo percorso forzato — una gabbia lunga 1 chilometro e mezzo — che bisogna percorrere per entrare a Gaza dal valico di Erez. È deserto per chi entra, ma anche per chi fa il percorso inverso. Una tigre, alcune tartarughe, uno struzzo e due scimmie sono stati salvati da morte sicura e sono usciti da qui, diretti verso altri zoo in Cisgiordania o in Giordania nelle scorse settimane.
Questa è l’unica buona notizia che si può dare da Gaza, la prigione più affollata del mondo. Insieme a loro solo una manciata di umani in queste settimane ha ricevuto da Israele il permesso di uscita. Permessi umanitari, patrocinati dalla Cri, di malati terminali bisognosi di cure in ospedali più attrezzati dell’Al Shifa di Gaza City. «Hai visto che le scimmie possono uscire e i gazawi no?», ci scherzano su gli abitanti della Striscia. Ironia e creatività ancora non sono andati perduti. Negli ultimi sei mesi Israele ha rafforzato i divieti di uscita già ridotti al minimo, nella convinzione che Hamas “sfrutti quelli che possono uscire per i loro scopi”. Questa lingua di sabbia, che secondo l’Unicef è il posto peggiore dove venire al mondo per un ragazzino, ha giusto superato ieri con un neonato di Rafah, Walid, i due milioni di abitanti.
Negli ultimi anni Israele dopo 4 guerre (2006, 2009, 2012, 2014) ha reso soffocante l’assedio. I gazawi non ce la fanno a lavorare per sostenersi perché l’esportazione da Gaza non è consentita, aumentare la produzione è impossibile dopo le distruzioni belliche e nessuno può lasciare la Striscia. Gaza è impantanata nei suoi liquami perché non è permessa l’importazione di pompe e idrovore. I 100.000 senza tetto della guerra del 2014 vivono ancora in tende sulle macerie della loro casa. Hamas si impadronisce del cemento per i tunnel, accusano gli israeliani, ed è vero. Ma è anche vero che quei 100.000 senza tetto non hanno niente a che vedere con gli islamisti, le case dei miliziani sono già state riparate o ricostruite da tempo. L’acqua resta imbevibile perché Gaza deve accontentarsi della sua falda acquifera costiera, rovinata dal pompaggio selvaggio, dai liquami e dalle infiltrazioni di acqua salmastra. Malnutrizione, parassiti e altre malattie combinate con povertà, disoccupazione e inquinamento ambientale renderanno questo posto un luogo inabitabile entro i prossimi tre anni, prevede l’Onu. Il 2020 è solo dopodomani. Se fosse uno Stato, Gaza sarebbe tra gli ultimi del mondo insieme a Haiti e al Burkina Faso.
Adesso anche chi entra affronta una palese ostilità. Per entrare nella “Repubblica Islamica di Hamas” serve un visto che i barbuti che governano la Striscia difficilmente rilasciano, all’ingresso si viene sottoposti a un interrogatorio stringente come quando un occidentale tentava di passare a Berlino Est negli anni ’60 e ’70. Il funzionario prende appunti fitti su un’agenda rossa. I reporter stranieri sono assimilati al nemico, questo il mantra che viene ripetuto in ogni momento. Hamas non vuole che occhi stranieri vedano che non sta ricostruendo Gaza, ma solo le proprie capacità militari. «Un’altra guerra», dice infatti l’Idf, «è solo questione di tempo». Per questo Israele è in corsa contro il tempo per completare una barriera di cemento alta 9 metri sopra il suolo e che penetra per altri 6 nelle sabbie lungo tutto il perimetro della Striscia, nella convinzione che così i tunnel si possano bloccare.
Di questa guerra subiranno le conseguenze prima ancora dei miliziani di Hamas i due milioni di abitanti della Striscia, seicentomila dei quali ha meno di 16 anni. Una gioventù spalmata su tre generazioni che ha conosciuto solo guerre. L’esplosione demografica – oltre il 4% - e le distruzioni di molti edifici scolastici obbliga i ragazzi a tre turni al giorno. Un milione e 100.000 abitanti della Striscia sono attualmente assistiti dall’Unrwa, senza l’Onu non mangerebbero due pasti al giorno.
In questo dramma umano collettivo, Hamas che ha visto crollare i suoi introiti sul contrabbando dai tunnel con l’Egitto ha imposto nuove tasse per tutti, sul latte, sulle sigarette, la frutta, la farina e la verdura.
Alla fine il movimento islamista è quasi l’unico imprenditore per cui lavorare se a Gaza non vuoi morire di fame. Attualmente il mestiere meglio pagato è quello di “desert rat”, il topo che scava le gallerie, i tunnel nella sabbia. Sono 2500-3000 shekel al mese (500 dollari Usa), uno stipendione per la Striscia, e la certezza che se si muore nel crollo la famiglia verrà indennizzata. I “desert rats” sono quasi 2.000 e ricevono premi e incentivi se riescono a rispettare i tempi. È un’attività che viaggia 24 ore su 24. Basta una rischiosa passeggiata – sul limitare del confine con Israele, dove si vedono nettamente le fattorie e i kibbutz dall’alto lato della rete spinata - per sentire con frequenza tremolii nel terreno, colpi sordi che si ripercuotono nella notte. «Ecco», mi dice il mio accompagnatore, «questi sono i tamburi di guerra di Hamas». Qui si stanno scavando i tunnel di “attacco” contro Israele, che nel 2014 furono la vera sorpresa di Hamas, altri mascherati fra le macerie vengono scavati a Gaza City. Una rete di tunnel attraversa la città in diversi sensi, sono depositi per pick-up, armerie, alloggi per i boss islamisti e perfino un ospedale da campo. Tutti sanno del “mondo di sotto” qui a Gaza ma nessuno ne parla, perché anche il proprietario di un campo agricolo o di una casa sa di essere il padrone soltanto “sopra” perché “sotto” comanda Hamas.
Il campo profughi di Shati si affaccia sulle acque inquinate del Mediterraneo. Fino a qualche settimana fa anche solo per transitare nella zona si veniva sottoposti a un minuzioso controllo da parte di miliziani armati fino ai denti. La sicurezza del “premier” Ismail Haniyeh vegliava su quel reticolo di strade dove abitava insieme alla sua famiglia. Adesso i gabbiotti sono vuoti e qualcuno si fa perfino un selfie sulla sua porta di casa. Scortato da dieci guardie del corpo Haniyeh – che entro la fine dell’anno sarà eletto alla guida di Hamas rimpiazzando Khaled Meshaal – ha passato il confine con l’Egitto ed è già in Qatar dove il movimento ha messo il suo Quartier Generale dopo la “fuga” dalla Siria. Uno stile diverso per il leader di Gaza, villa, grandi alberghi, viaggi nel Golfo, privilegi e Mercedes blindate. Un’altra vita.
Su chi riempirà il vuoto che lascia Haniyeh ci sono pochi dubbi, l’ala militare di Hamas che già agisce come un corpo separato dall’ala politica prenderà il sopravvento. “The Shadow”, Mohammed Deif, che i missili israeliani hanno provato per sei volte a uccidere è al timone delle brigate Ezzedin al Qassam, Yahia Sinwar serve come “ministro della Difesa” e da collegamento con l’ala politica. Sotto di loro, Marwan Issa – l’aiutante di campo di Deif – si occupa delle capacità militari del movimento, delle brigate e dei rifornimenti di armi, con un bilancio che si aggira sui 100 milioni di dollari l’anno. A titolo di confronto il budget dell’ultimo governo di Hamas – che si sciolse nell’aprile 2014 – è stato di 530 milioni di dollari.
Nonostante l’impegno del governo egiziano che ha allagato oltre cinquecento tunnel lungo la frontiera di 13 chilometri segnata dalla Philadelphia Road, i tunnel continuano ad essere in attività. Certo, nel ventre scavato di Rafah non passano più auto e camion come ai “tempi d’oro”, ma sotto il naso dei soldati egiziani i tunnel sono ancora decine. Lo scorso mese ne è stato scoperto uno lungo 2,5 chilometri. In questo business del contrabbando gli emiri dello Stato Islamico del Sinai svolgono un ruolo attivo, lavorando a stretto contatto con i comandanti militari di Hamas del sud. Il movimento nega relazioni con l’Isis ma alcuni islamisti egiziani responsabili del coordinamento con Hamas risiedono nell’enclave costiera “ospiti” dell’ala militare. Il contagio salafita si sta diffondendo, l’ultima delle piaghe di Gaza.