la Repubblicaevoca «un lungo passato di servaggio femminile di cui solo di recente abbiamo recuperato la consapevolezza, ma ci costringe ugualmente a ricordare che per molte donne il Medioevo non accenna a finire».
Maria Serena Mazzi, Donne in fuga. Vite ribelli nel Medioevo, ( Il Mulino, pagg. 180, euro 14)
«Io t’amaçerò se tu non stai cheta e ferma, e lascimi usare techo a qualunque modo io voglio», ripeteva, tra una percossa e l’altra, un maestro muratore lombardo alla moglie Leonarda, colpevole di non lasciarsi sodomizzare. La frase figura negli atti del processo tenutosi nel 1477 a Firenze, città natale della malcapitata che, dopo tre mesi di matrimonio, aveva cercato rifugio nella casa paterna, sporgendo denunzia contro il marito. Il suo coraggio fu premiato, e i giudici le concessero lo scioglimento del matrimonio: sebbene, sul piano giuridico, l’autorità del marito fosse legge, la sodomia era condannata dalla Chiesa ed era inconciliabile con la procreazione, fine primario dei coniugi. Ma se quella di Leonarda può sembrarci una storia a lieto fine, rimane pur sempre un’eccezione, come ci ricorda Maria Serena Mazzi nelle sue Donne in fuga. Vite ribelli nel Medioevo (Il Mulino, pagg. 180, euro 14).
Dopo avere contribuito con Prostitute e lenoni nella Firenze del Quattrocento (Il Saggiatore, 1991) allo sviluppo di quegli studi sulla condizione femminile di cui la Storia delle donne in Occidente (Laterza 1990), diretta da Georges Duby e Michel Perrot, costituisce in Europa una consacrazione, Mazzi riprende in mano una tematica che le è cara proponendocene una sintesi eloquente. Per fare uscire dal loro lungo silenzio le donne vissute, tra il XII e il XVI secolo, in una società dove i soli ad avere diritto alla parola erano gli uomini, la studiosa ha infatti raccolto un campionario di storie esemplari che non lascia dubbi sulla durezza della loro condizione subalterna.
Sono storie di ribellione, di fuga, di sconfitte, di punizioni atroci, suddivise in base all’appartenenza sociale – aristocratica, borghese, popolare – e alla diversità dei ruoli – figlie, mogli, madri, religiose. In parte la studiosa ripercorre storie già note, come quella di Cristina di Markyate, figlia di un ricco mercante inglese del XII secolo, che si sottrae a un matrimonio imposto, consacrandosi a Dio, o della sua contemporanea, la belga Juette, che vedova di un marito ripugnante, pur di non risposarsi si fa murare viva. Oppure quella della francese Dhuoda, secondo Gerda Lerner ( The Creation of Feminist Consciusness, Oxford University Press, 1993) la prima scrittrice in Europa a prendere la penna in mano per parlare di sé.
Andata sposa nell’824 a Bernardino di Settimania, un grande signore della Linguadoca, e relegata nel castello di Uzès mentre il marito era ciambellano alla corte imperiale, Dhuoda si vide portar via i due figli ancora bambini e scrisse per il primogenito, che non avrebbe mai più rivisto, un manuale di comportamento. «Quest’opera quando ti sarà giunta inviata dalla mia mano – ella gli scrive, forte della sua autorità materna – io voglio che tu la stringa con amore». Altre, invece, sono testimonianze riemerse di recente dal fondo degli archivi e che, riportando alla luce brevi frammenti di esistenze dimenticate, vengono così ad arricchire l’appassionante casistica di Donne in fuga. Unendo all’autorità della studiosa uno stile elegante e scorrevole, Maria Serena Mazzi sa infatti evocare con efficacia un lungo passato di servaggio femminile di cui solo di recente abbiamo recuperato la consapevolezza, ma ci costringe ugualmente a ricordare che per molte donne il Medioevo non accenna a finire e la fuga continua.
Nell'icona: miniatura medievale raffigurante un marito che picchia la moglie (Zurigo, Zentralbibliothek)