«E’ punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà» (Costituzione della Repubblica italiana, art. 13, co. 4). E ancora: «Il termine ’tortura’ designa qualsiasi atto con il quale sono inflitti a una persona dolore o sofferenze acute, fisiche o psichiche, segnatamente al fine di ottenere da questa o da una terza persona informazioni o confessioni, di punirla per un atto che ella o una terza persona ha commesso o è sospettata di aver commesso, di intimidirla od esercitare pressioni su di lei o di intimidire od esercitare pressioni su una terza persona…».
«… o per qualunque altro motivo basato su una qualsiasi forma di discriminazione, qualora tale dolore o tali sofferenze siano inflitti da un funzionario pubblico o da qualsiasi altra persona che agisca a titolo ufficiale, o sotto sua istigazione, oppure con il suo consenso espresso o tacito. Tale termine non si estende al dolore o alle sofferenze derivanti unicamente da sanzioni legittime, ad esse inerenti o da esse provocate» (Convenzione Onu contro la tortura, art. 1).
Anche questa volta non sono bastate queste due limpide dichiarazioni, della Costituzione e della Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura, a indirizzare il legislatore verso la soluzione di questo autentico misfatto italiano. L’assenza, cioè, del reato di tortura dal nostro ordinamento giuridico. Anzi, a dire il vero, il reato c’è. Manca solo la sanzione: sarebbe bastato replicare le parole della Costituzione o della Convenzione nel codice penale e aggiungervi un minimo e un massimo di pena, e gli odiosi casi di tortura, che pure si manifestano, anche quando non li si voglia chiamare come tali, avrebbero avuto la loro equa punizione.
E invece no, in terza lettura, dopo averne già discusso una prima volta in commissione e in assemblea, e una seconda volta in commissione e in assemblea – e dopo che la Camera aveva fatto altrettanto – il Senato ha stabilito che fosse troppo presto approvare un provvedimento che attende di essere accolto nella nostra legislazione dal 1988 (data di ratifica da parte dell’Italia della Convenzione Onu). Se non dal 1948 (data di entrata in vigore della Costituzione repubblicana). Eh già, troppo presto. E, così, la discussione sul disegno di legge relativo al delitto di tortura è stata sospesa e rinviata a chissà quando.
Intanto, pendono davanti alla Corte europea dei diritti umani le decisioni sui casi di tortura verificatisi nella caserma di Bolzaneto, durante il G8 di Genova del 2001 – esattamente 15 anni fa – e nel carcere di Asti nel 2004. E l’Italia sarà nuovamente condannata, come nel caso della Diaz (sempre Genova 2001), non solo per la violazione del divieto di tortura e di pene inumane o degradanti, ma anche per l’assenza di un «rimedio giurisdizionale interno» (la fattispecie penale di tortura, appunto).
Le responsabilità ultime, si sa, sono del ministro dell’Interno che, alla ricerca di un ruolo e di qualche consenso, fa di ogni erba un fascio e confonde la grande maggioranza degli appartenenti alle forze di polizia agli autori di atti di tortura e di violenza su persone loro affidate. Invece di perseguire le responsabilità penali, appunto personali, dei singoli autori di reato, si associano interi corpi dello Stato a pratiche indegne di servitori delle istituzioni.
Le responsabilità penultime sono di chi ha accettato un progressivo scivolamento di piani. Sin dall’inizio – e da parte anche di alcuni ultra-sinistri – è stata interdetta la qualificazione del reato come proprio delle forze di polizia o degli incaricati di pubblico servizio. Si argomentava che, estendendone l’applicabilità, avrebbe potuto essere punita anche la tortura tra privati, dei sequestratori o dei depravati, e i pubblici ufficiali avrebbero avuto le loro brave aggravanti. Sì, ma quel primo scivolamento apriva la strada al balletto negazionista.
E così siamo finiti a discutere, ancora, di quante volte si possa vessare una persona perché violenze o minacce possano integrare il reato di tortura. E nulla valgono quei mirabili singolari della Costituzione e della Convenzione: «E’ punita ogni violenza …»; tortura è «qualsiasi atto …». Inevitabile, a questo punto, precipitare nella fosca aritmetica della enumerazione delle crudeltà.
Inascoltabili, poi, gli argomenti che associano la sospensione ai fatti di Nizza o al pericolo terroristico: il ministro dell’Interno pensa dunque di fare ricorso a pratiche di tortura per le indagini di terrorismo internazionale? E se accettassimo pure questa scellerata ipotesi sa dirci, il nostro ineffabile ministro, come avrebbe fatto ad applicarla preventivamente all’attentatore di Nizza o all’accoltellatore di Heidingsfeld? Suvvia, perfino da Angelino Alfano si deve pretendere un po’ di serietà.
Al contrario, proprio in queste circostanze, va fatta valere la differenza nella concezione del diritto, tra chi usa la violenza e chi no. Va fatta valere contro i nemici della democrazia e dello stato di diritto e a fronte di pratiche di repressione come quelle di cui siamo testimoni ai confini dell’Europa, nell’Egitto di Al-Sisi come nella Turchia di Erdogan.