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Ilvo Diamanti
La fine dell’Italia del ceto medio la piccola borghesia si sente povera
3 Febbraio 2014
Articoli del 2014
Una lettura giornalistica (e come al solito ricca di punti fermi) delle trasformazioni avvenute nell' Italia degli ultimi decenni: appena al di là della superficie ma non priva di elementi d'interesse.
Una lettura giornalistica (e come al solito ricca di punti fermi) delle trasformazioni avvenute nell' Italia degli ultimi decenni: appena al di là della superficie ma non priva di elementi d'interesse.

La Repubblica, 3 febbraio 2014, con postilla

DALLE grandi fabbriche delle metropoli del Nord si è spostato nelle piccole aziende del Nordest — e dell’Italia centrale. Giuseppe De Rita, con il suo linguaggio immaginifico, negli anni Novanta, aveva definito questa tendenza: “cetomedizzazione”. Un processo antropologico, oltre (e più) che socioeconomico. Si spiega attraverso «l’innalzamento di coloro i quali erano alla base della piramide e lo scivolamento di una parte della vecchia elite». In altri termini, a partire dagli anni Ottanta, si è assistito al declino della borghesia urbana e industriale, peraltro, in Italia, tradizionalmente debole. E al parallelo affermarsi di una piccola borghesia, diffusa nel mondo delle piccole imprese e del lavoro autonomo. Distante e ostile rispetto allo Stato e alla politica. Educata ai valori della competizione individuale e, meglio ancora, dell’individualismo possessivo, per citare Macpherson. Questa realtà socio-economica si è trovata, a lungo, sprovvista di rappresentanza.

Non gliela potevano, certamente, dare i partiti di massa della Prima Repubblica, DC e PCI. Integrati nello Stato e nel sistema pubblico. Nelle reti comunitarie del territorio. Nel sistema assistenziale. La “cetomedizzazione” ha, invece, trovato risposta dapprima nella Lega Nord. Nata e cresciuta, appunto, lungo la linea pedemontana, dove, fin dagli anni Ottanta, si è affermato lo sviluppo di piccola impresa. Sul solco della Lega e nel vuoto di rappresentanza lasciato dai partiti della Prima Repubblica si è proiettato, Silvio Berlusconi. Che ha offerto ai ceti-medi: volto, linguaggio. Identità. Berlusconi: l’Imprenditore in politica. Che fa politica. Al posto dei politici di professione. Contro di loro. Trasforma la politica in marketing. Il partito in impresa. La propria impresa in partito. Berlusconi: ha dato rappresentanza alla neo-borghesia, con basi e radici nel Lombardo-Veneto. Condividendo la “missione” della Lega. Anche se, alla fine, ha garantito soprattutto se stesso e i propri interessi. Berlusconi: ha trasformato il ceto medio nella “società media”, il “pubblico” con cui comunicare e a cui fornire identità attraverso i media. Mentre gran parte degli italiani confluiva nell’ampio e indistinto bacino dei “ceti medi”. Ancora nel 2006 quasi il 60% della popolazione (indagine Demos-Coop) si auto-collocava tra i ceti medi. Il 28% nelle classi popolari (i ceti medio-bassi). Il 12% nelle classi più elevate. L’Italia media aveva radici profonde impiantate nel Nord e basi solide tra i lavoratori autonomi e i liberi professionisti (questi ultimi, però, posizionati più in alto). Anche il 60% degli operai, allora, si sentiva “ceto medio”.

Poi è arrivata la crisi. Economica e politica. Ha scosso, con violenza, le basi del ceto medio. Ne ha indebolito la condizione e, al tempo stesso, il sentimento, l’auto-considerazione. Ne ha accentuato il senso di vulnerabilità. Lo stesso, d’altronde, è avvenuto altrove. Anche negli USA, come mostrano le indagini di PEW Research Center, la quota di coloro che si identificano fra i ceti medi dal 53% nel 2008 cala al 44% nel 2014. Poco più di quanti si (auto) posizionano nei ceti più bassi: 40%. Quasi il doppio rispetto al 2008. Anche e forse soprattutto per questo motivo Obama ha promosso il suo piano di incentivi all’occupazione e all’economia. Tra cui l’innalzamento delle retribuzioni minime di alcune categorie di dipendenti federali. Per alimentare i consumi, ma anche per contrastare il senso di deprivazione relativa che spinge verso il basso le aspettative di mobilità sociale. In Italia, però, questo processo è avvenuto in modo molto più rapido e sostanziale. L’ascensore sociale, in pochi anni, si è inceppato. E oggi la maggioranza assoluta degli italiani ritiene di essere discesa ai piani più bassi della gerarchia sociale (Sondaggio Demos- Fond. Unipolis). Coloro che si sentono “ceti medi” sono, infatti, una minoranza, per quanto ampia. Poco più del 40%. Così, l’Italia non è più cetomedizzata. È un Paese dove le distanze sociali appaiono in rapida crescita. Tanto che l’85% della popolazione (sondaggio Demos-Fond. Unipolis) oggi ritiene che “le differenze fra chi ha poco e molto siano aumentate”.

Non è un caso che questa dinamica abbia coinvolto, in modo particolarmente intenso, le basi e il terreno originario della neoborghesia. I lavoratori autonomi: meno del 40% di essi si considera “ceto medio”. Oltre il 50%, invece, si percepisce di classe medio-bassa. La stesse misure si osservano nel Nord. La cui distanza sociale, rispetto al Mezzogiorno, sotto questo profilo, appare molto ridotta. Anzi, il peso di coloro che si auto-posizionano in fondo alla scala sociale, nel Nordest (55%) — “patria” della neo-borghesia autonoma — è superiore rispetto al Sud (53%). Gli operai, infine, sono tornati al loro posto. In fondo alla scala sociale (63%). È il declino dell’Italia media e cetomedizzata. Segna il brusco risveglio dal “sogno italiano” interpretato dal berlusconismo. Poter diventare tutti padroni (almeno, di se stessi). Ciascuno nel proprio piccolo (o nel proprio grande). Mentre le questioni territoriali sembrano svanire. E si sente parlare sempre meno della Questione Settentrionale, ma anche di quella Meridionale. Così, per la prima volta nella storia della Repubblica, si afferma una forza politica, i cui consensi sono distribuiti in modo omogeneo in tutto il territorio italiano. Alimentati e unificati dalla sfiducia verso lo Stato e verso la politica. E dalla delusione sociale. Non è un caso che, tra le principali forze politiche, il M5s sia quella dove si osserva la maggiore quota di elettori che si identificano con i ceti più bassi (quasi il 60%) e, per contro, la minore quota di chi si sente ceto medio (39%).

Il declino del ceto medio lascia un Paese senza sogni, incapace di sognare. Dove le distanze sociali hanno ripreso a crescere, mentre il territorio affonda nelle nebbie. Soprattutto il Nordest, capitale della neoborghesia autonoma. Il declino del ceto medio, in Italia, definisce — e impone — una questione “nazionale” che nessuna riforma elettorale potrà risolvere.

Postilla.

Pur nella superficialità giornalistica dell’analisi emergono due dati interessanti a proposito di quel coacervo di ceti sociali che si collocano tra i proprietari e gestori del capitale e quelli della loro forza lavoro: il mitico “ceto medio”. Il primo: mentre nei paesi del Terzo mondo il ceto medio aumenta, la società diventa più complessa, cresce la popolazione che si avvicina al benessere, in Italia accade il contrario. Il secondo. Nel nostro paese (e forse nell’insieme del Primo mondo) la previsione marxiana della crescente pauperizzazione dei gruppi sociali intermedi tra le classi dei capitalisi e dei proletari tende ad avverarsi.

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