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Vittorio Emiliani
La fine dell’ecomostro
21 Marzo 2008
Beni culturali
Al di là del titolo trionfalista, una valutazione equilibrata delle ultime modifiche al Codice dei beni culturali e del paesaggio e dei nodi irrisolti che ne minacciano l’efficacia. L’Unità, 21 marzo 2008

L’approvazione definitiva e il varo con due decreti legislativi del Codice per il Beni culturali e il paesaggio, con un atteggiamento responsabile della stessa opposizione di centrodestra e delle Regioni più gelose di una propria (ma poco meritata) autonomia, rappresenta un indubbio successo, un premio alla tenacia: per il governo ancora in carica, per il ministro Francesco Rutelli e per il professor Salvatore Settis presidente della commissione per la revisione del Codice.

Ma anche per il sottosegretario Danielle Mazzonis delegata ai problemi del paesaggio che erano quelli dove le tribolazioni, i pericoli e i guasti emergevano drammaticamente.

Per i Beni Culturali infatti c’è una riacquisizione importante e cioè quella dell’impianto di fondo del cosiddetto Regolamento Melandri col quale nel 2000 si riuscì a rimediare ad un improvvido voto parlamentare che trasformava da non vendibili in vendibili tutti i beni culturali demaniali «salvo eccezioni». Il regolamento - che disciplinava con grande attenzione cessioni (a volte sacrosante) e cessioni in uso - venne travolto dal duo Tremonti-Urbani che invece puntava a dismissioni di massa (poi irrealizzate, o quasi). Averne recuperato l’impianto mi sembra un punto fermo nella legislazione di tutela del patrimonio. Così come aver chiarito le norme relative alla circolazione internazionale dei beni stessi e al patrimonio ecclesiastico che è tanta parte di quello nazionale.

Per il paesaggio il nuovo Codice Rutelli-Settis ha il merito di mettere finalmente ordine (in parte, diciamolo, l’aveva già fatto Rocco Buttiglione nel breve passaggio al ministero) nella selva di norme e di conflitti generati dalla stratificazione di leggi e soprattutto dal confusionario Titolo V della Costituzione, una delle maggiori colpe del centrosinistra ante-Berlusconi II, con una serie di concessioni alle Regioni di taglio pseudo federalista e con l’oscuramento sostanziale dell’articolo 9 della Costituzione (quella vera). E cioè «la Repubblica tutela il paesaggio della Nazione», cioè Stato, in primis, Regioni, Enti locali, armonicamente. E l’attuale Codice - che recita in modo tranciante «salva la potestà esclusiva dello Stato di tutela del paesaggio» - ridà pieno valore a questo articolo-cardine della tutela restituendo alle Soprintendenze statali un ruolo attivo e il potere di vincolo e di rigoroso rispetto del medesimo. Ruolo e potere che, nonostante le sentenze della Cassazione e della Consulta (fondamentale la n. 367 del 2007 sul paesaggio), era stato fortemente intaccato. Col duplice risultato negativo - verificabile in pieno nel caso esemplare di Monticchiello - di indurre le Soprintendenze territoriali al sonno e alla latitanza, e le Regioni alla più pericolosa delle sub-deleghe, quella ai Comuni. I quali ultimi, privati (bisogna rimarcarlo) di consistenti fondi erariali, hanno oggi assai più interesse ad incentivare l’attività edilizia che non a tutelare il paesaggio. Il Comune che ha incassato di più in Italia da oneri e da concessioni edilizie è stato quello di Lucca. Pensate quale frenetica attività edile vi si è scatenata.

Il passaggio del Codice su queste sub-deleghe non è dei più chiari e però comincia a porre dei limiti. Intanto all’idea che il paesaggio è una sorta di “proprietà” delle comunità locali e non invece dell’intera Nazione. E poi al lassismo (ammantato di democrazia di base...) di certe Regioni che in realtà “lasciano fare” ai Comuni, anche a quelli che non hanno nessun strumento tecnico valido per occuparsi di tali temi strategici.

Introduce invece essenziali elementi di chiarezza il passaggio sulla co-pianificazione paesaggistica regionale. La collaborazione delle Regioni con lo Stato, cioè col ministero, non è più auspicata ma diventa obbligatoria. Ministero e Regioni «definiscono d’intesa le politiche per la conservazione e la valorizzazione del paesaggio», «cooperano nella definizione di indirizzi e criteri riguardanti l’attività di pianificazione territoriale, Nonché nella gestione dei conseguenti interventi». Dunque, criteri univoci, piani paesaggistici regionali dettagliati e prescrittivi (e non di semplice indirizzo per gli Enti locali come il recente Pit toscano), elaborazione congiunta. Nei casi di interventi edilizi in aree vincolate - e sono tanti visto che il 47 per cento del Belpaese è coperto da vincoli paesaggistici - le Soprintendenze hanno il potere di esprimere un parere preventivo vincolante e comunque obbligatorio. Nel termine però di 45 giorni.

E qui nasce una questione centrale che nessun Codice può risolvere, quella cioè dell’inadeguatezza, a volte disperante, dei quadri tecnici delle Soprintendenze territoriali di settore, con pochi e malpagati architetti e ingegneri, gravati, ognuno, di centinaia di pratiche, e quindi di controlli, sopralluoghi, verifiche, pareri, ecc. Il ministro Rutelli ha fatto bene a inserire in questi atti legislativi anche il finanziamento, per 15 milioni annui, dell’abbattimento di abusi e di ecomostri. Ma chi verrà dopo di lui al Collegio Romano dovrà assolutamente dedicare i propri sforzi non alla moltiplicazione delle Soprintendenze, bensì al potenziamento esclusivamente tecnico-scientifico, strutturale degli organismi territoriali esistenti ai quali il Codice, in questa nuova e strategica versione, ridà un ruolo e un potere in nome della Costituzione e della bellezza. Ruolo che però va esercitato con quadri e strumenti adeguati. Altrimenti sarà la solita Italia che sforna buone leggi e poi non attrezza uomini e uffici per attuarle, provocando soltanto frustrazione e sfiducia. Oltre al massacro in atto del Belpaese. Provocato, come ognun sa, da un meccanismo infernale inserito nella legge finanziaria, in base al quale - cancellando una saggia norma della legge Bucalossi del 1977 - si consente ai Comuni di utilizzare gli introiti da oneri di urbanizzazione, Ici e altro al 50 per cento per la spesa corrente e al 25 per cento per manutenzioni e non esclusivamente, invece, per spese di investimento. Col risultato di seminare di cantieri edili i più straordinari paesaggi e di suicidarsi sul piano del turismo internazionale. Un bell’esempio di cretinismo politico-culturale. Quindi, a buone, magari ottime leggi come questa facciamo seguire tecnici e mezzi qualificati per attuarle seriamente e rapidamente. Nell’interesse pubblico e in quello privato.

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