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Lodo Meneghetti
La filosofia della consapevolezza
11 Gennaio 2005
Lodovico (Lodo) Meneghetti
Accantonando per il momento l’urbanistica, Meneghetti si inserisce nella riflessione sul disastro dell’Oceano indiano

Qualche giorno fa, leggendo le osservazioni e le proposte di Stefano Fatarella sulla riforma di eddyburg, avrei voluto ragionare di nuovo intorno alla questione dei rapporti urbanistica / architettura (ne ho scritto o parlato o mostrato la pratica molte volte nel passato in diverse occasioni, ). La mia proposta di inserire la parola architettura non era così “accorata” come scrive Stefano, né soffro, come lui teme, per il troppo rapido rifiuto. Ora mi limito a pregare Edoardo di difendere il cortile da invasioni estranee alla sua “costituzione” o, come gli ho già scritto, barbine. Non rinuncerò a riparlarne. Ho deciso però di rinviare l’argomentazione perché troppo coinvolto mentalmente – come tutti, penso – nei terribili avvenimenti di questo scorcio d’anno; e di proporvi alcune considerazioni in merito a un tema che ho visto scorrere, esplicito o implicito, nei sevizi giornalistici descrittivi di un’apocalisse in continua enorme crescita su se stessa: il tema del rapporto fra l’uomo e la natura.

Prendo spunto da un articolo di Alain De Bottom (la Repubblica, 29.12.04) che ricorda Seneca e la posizione degli stoici di fronte alle catastrofi naturali come i terremoti.

So che lo stoicismo è considerato – da un senso comune privo delle cognizioni indispensabili per comprendere la realtà e le relative interpretazioni – una forma di accettazione, appunto detta “stoica”, di ogni accadimento imprevedibile e incontrollabile. Lo stoico sarebbe per così dire inerte, succube, sopporterebbe ogni dolore. Le cose non stanno così. Lo stoicismo, a mio parere, è una filosofia vitale che definirei della consapevolezza.

L’uomo consapevole sa, deve sapere, soprattutto oggi che è pieno di orgoglio per aver raggiunto grandi successi nel progresso scientifico e tecnologico, di non essere affatto onnipotente, anzi di essere fragile davanti alle manifestazioni violente della natura, più di tutti gli altri animali compresi i mammiferi grandi e piccoli eccetto quelli resi schiavi dall’addomesticamento. Sa, l’uomo moderno, deve sapere che determinate applicazioni tecniche sono loro stesse così violente verso la natura da provocare la sua rivolta: se non è il caso dei terremoti, sono gl’infiniti casi di frane, crolli, alluvioni, tifoni, siccità e quant’altro potremmo elencare a partire dalla prima rivoluzione industriale (tanto per fissare un cippo della storia moderna, considerando deboli, o più deboli, tutte le tecniche precedenti); o, diversamente, da provocare un netto peggioramento del corso vitale nell’indifferenza apparente della natura: inquinamento dell’aria e dell’acqua, avvelenamento superficiale della terra, disintegrazione della coesione del suolo profondo. E, fuori da questo quadro, cosa dire dell’uomo insipiente deciso a rischiare gravissime conseguenze di errori enormi commessi al puro scopo di raccogliere profitto o accumulare patrimoni immobiliari persino illegali? Mi riferisco agli insediamenti in luoghi inadatti, già valutati in tal senso dalla consuetudine ragionevole o dalla legislazione. Circa alcuni insediamenti costieri nei luoghi colpiti dal maremoto qualche perplessità è legittima quando si notano certe modificazioni, attraverso opere antagoniste e invasive, di terre basse lambite dal mare una volta intatte nel loro assetto naturale: come in molte isole e isolette dotate o meno di barriera corallina. Da sempre all’attività, all’operosità dell’uomo è corrisposta una modifica dei paesaggi, da un minimo a un massimo secondo le epoche e i luoghi, secondo il grado di sviluppo delle forze produttive, potrei affermare: ma non basta: occorre distinguere fra necessità vitale della comunità “consapevole” insediata e, al contrario, decisione oligarchica del gruppo dominante “inconsapevole” interessato solo al proprio vantaggio, talvolta consenzienti altrettanto inconsapevoli subalterni. Quanto alle costruzioni in luoghi totalmente inadatti, abusive o, peggio, concesse dall’autorità, nel nostro paese siamo maestri: dalle aree golenali di fiumi e torrenti alle pendici instabili di colline e montagne, ai versanti alpestri esposti alle valanghe, ai suoli urbani a rischio di sprofondamento: c’è una ricca antologia inserita nella ben più corposa antologia della “distruzione della natura in Italia” (tutti voi conoscete il libro di Antonio Cederna, scritto trent’anni fa!). Eppure, si potrà obiettare, gli uomini sono andati a insediarsi dappertutto, anche in territori di difficile e pericoloso accesso. È vero, nel passato: quando piccoli gruppi o addirittura singole famiglie allargate andavano alla disperata ricerca di un minimo di risorse per sopravvivere; oppure quando corpose popolazioni già a un buon livello di organizzazione sociale sapevano valutare un rischio anche grave in rapporto a un beneficio risolutivo dei loro bisogni. A esempio della prima condizione posso nominare i piccoli, sparsi nuclei di uomini e animali in valli alpine isolate e su scoscendimenti impossibili; della seconda, visti anche certi richiami notati sulla stampa in questi giorni, posso prendere la piana vesuviana (non le pendici del monte!) tanto fertile e generosa di prodotti agricoli da rendere trascurabile il timore delle eruzioni. (L’esclamativo inerente alle pendici del Vesuvio me lo sono concesso allo scopo di poter dichiarare l’assurdità, direi la sorprendente balordaggine dell’idea bassoliniana: evacuare dalle dette pendici 500.000 abitanti a causa della cosiddetta priorità della sicurezza, uno dei tanti modi di essere più realisti del re divenuti una moda nel paese. La proliferazione delle costruzioni lì appartiene a uno degli episodi più funesti della storia nazionale e partenopea dell’espansione edilizia urbana. Ma questa non è una buona ragione per aggiungere violenza a violenza.

Rapporto fra l’uomo e la natura: binomio oggi riscoperto da tutti in un senso dimenticato, quello del “rispetto” dovuto dal primo verso la seconda, che diventerebbe immediatamente “dovere di difendere l’ambiente”, un sentimento e una pratica poco coltivati in Italia (virgolette legittime giacché quasi letterale citazione dal discorso di fine d’anno del presidente Ciampi, davvero consolante per tutti noi difensori per lo più sconfitti). Cerchiamo il significato più profondo. Ritorniamo agli stoici, alla loro saggezza. Non succube accettazione, inerzia di fronte a ogni manifestazione della natura, ma consapevolezza, ho scritto. Cerco però di precisare la definizione: per gli stoici occorrerebbe trovare la miglior forma possibile di adeguamento alla natura, vale a dire rifiutare la pesantezza d’azione e praticare la sostenibilissima leggerezza dell’essere e del fare (del resto, quale personaggio più “leggero” di Seneca nella storia dell’uomo tout court, non solo della filosofia?). Ma l’affascinante uomo stoico non poteva trovare il centro di una questione che potrà essere trovato solo dal pensiero scientifico rivoluzionario. Né avrebbe potuto trovarlo il pensiero cattolico che, nella lunga gestazione dei difficoltosi tentativi di rinnovamento, non ha mai superato il limite originario riguardo alla divisione irriducibile fra uomo e animali, fra uomo e natura.

… e vennero Darwin e Marx-Engels primevi a offrirci le chiavi per chiudere la porta all’ideologia deterministica e meccanicistica, aprire quella della “dialettica senza dogma” (Robert Havemann) e, dunque, darci la possibilità di porci in modo completamente nuovo davanti alla storia del mondo.

Riduco il ragionamento all’osso: ci sono due storie, la storia naturale e la storia sociale. L’uomo appartiene a entrambe ma tende a dimenticare la propria naturalità (animalità, si vorrebbe dire darwinianamente; materialità, marx-engelsianamente) quando e quanto più crede di poter trasformare la natura a proprio piacimento, di poterla dominare. La latente perenne schizofrenia fra lo stato di homo biologicus e quello di homo faber precipita così in un inesorabile sbilanciamento verso uno stato prometeico, prossimo alla deificazione, cioè il peggior grado dell’ideologismo: che niente può condividere con la “naturale” laboriosità del faber, cara al materialismo dialettico antidogmatico.

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