La Repubblica, 17 aprile 2014 (m.p.r.)
La premessa è che vorremmo poterci fidare della polizia. Dovremmo. La polizia rappresenta lo Stato, e lo Stato siamo noi. Lo Stato sono le istituzioni che rappresentano i cittadini e sono i cittadini che delegano altri cittadini a rappresentarli,col voto democratico . In un regime democratico le istituzioni sono al servizio di chi dà loro mandato ad esercitare un potere di governo e non viceversa. Lo Stato ci tutela dalle ingiustizie e dai soprusi, non li esercita. Questo è quello che insegniamo ai nostri bambini a scuola, fin dalle elementari.
Sabato scorso si è svolta a Roma una manifestazione che aveva come oggetto, appunto, il diritto alla casa. Le immagini degli scontri e delle violenze sono lì, non c’è molto da commentare. In alcune si vedono manifestanti vestiti di nero con gli elastici delle fionde tesi, in altre poliziotti, ugualmente vestiti di nero, che colpiscono coi manganelli e prendono a cal- ci persone disarmate e già a terra. Nell’epoca dei telefonini, nel tempo in cui di ogni evento ci sono decine e decine di filmati c’è davvero poco da discutere: i fatti sono questi. Ha torto chi dice: ad un’offesa si reagisce con l’offesa, ha torto per principio chi prova a dimostrare che la “provocazione” è partita dalla piazza, in molti lo fanno in queste ore — provano a mostrare che, come direbbe un bambino, “hanno cominciato loro”. È questo il senso delle parole del prefetto di Roma Giuseppe Pecoraro, intervistato oggi da Carlo Bonini: contesta il capo della Polizia Alessandro Pansa che aveva definito l’artificiere che ha calpestato la ragazza a terra «un cretino da identificare». Non un cretino, dissente Pecoraro, ma «uno che dava una mano ai suoi colleghi». Come se fossero due eserciti che, sullo stesso piano, si affrontano. Questo è l’equivoco, se di buona fede si tratta: che sia una battaglia combattuta ad armi pari tra pari, dove ci si dà manforte fra eserciti contrapposti, e non quel che è, invece. Da una parte cittadini che manifestano, dall’altra esponenti delle istituzioni che rappresentano anche quei cittadini, e che sono chiamati a tutelare l’incolumità di tutti: anche dei manifestanti.
È dal G8 di Genova che si è persa questa nozione elementare. È lì, nelle molotov messe ad arte a posteriori per giustificare l’assalto alla scuola Diaz, la ferita originaria mai più rimarginata. Abusi e violazioni da parte di chi dovrebbe per mandato garantire la sicurezza di tutti sono poco a poco, omeopaticamente, divenuti una circostanza di fatto.
Senza arrivare al rosario di morti che da Giuliani passa per Uva, Sandri, Cucchi, Aldrovandi; senza difendersi dietro la retorica delle “mele marce”, ché come dice l’ex capo dell’ispettorato di polizia inglese John Woodcock: «Non credo nelle mele marce, il problema non riguarda un’individuale predisposizione alla trasgressione ma un deficit strutturale, culturale». Il problema non è, in fondo, neppure il singolo episodio di abuso: la vera questione è quale sia la reazione istituzionale all’abuso. Nel caso delle piazze come delle curve calcistiche: quale la risposta di chi detiene il potere alla violazione e all’abuso di potere.
Non si hanno segnali, sinora, di una levata di scudi di chi dovrebbe e potrebbe evitare la violenza in divisa. Al contrario, ogni richiesta di identificare le “mele marce”, per esempio con un numero che consenta di riconoscere gli agenti anonimi come in molti Paesi del mondo accade, è stata accolta quasi come una provocazione. Da ministri di precedenti governi, dai sindacati di polizia — da ultimo, qualche giorno fa, Franco Maccari del Coisp ha bollato il numero identificativo come una proposta sciocca e inutile. Sono molti però — La maggioranza? — i poliziotti a disagio. Sono molti gli agenti che non si riconoscono in questa difesa corporativa, che prendono le distanze dalla logica degli eserciti contrapposti. Noi e loro, noi contro di loro. Proprio per non fare di ogni erba un fascio, proprio per dare atto a chi fa il suo dovere per uno stipendio infimo, proprio per chi veste una divisa con coraggio e dignità sarebbe indispensabile, invece, adottare strumenti che consentano di identificare i violenti protetti dall’uniforme. E chiamare alle loro responsabilità i violenti senza uniforme, evidentemente. Per il bene di tutti. Dello Stato, cioè di tutti. Ha torto chi dice: ad un’offesa si reagisce con l’offesa, e chi per principio prova a dimostrare che la provocazione è partita dalla piazza