«Non ci può essere Parlamento senza libertà dei parlamentari. Non solo libertà di parola e di associazione dei cittadini, che devono poter fare campagna elettorale e tenere libere elezioni, ma anche la libertà di decisione di chi siede in Parlamento».
La Repubblica, 2 ottobre 2013
Indipendentemente dagli esiti del sommovimento interno al Pdl, è certo che il Paese sta subendo (non da oggi) le conseguenze della crisi della democrazia dei partiti e della rappresentanza. Paga il prezzo di una democrazia deformata. Le comunità politiche come le persone hanno una figura che le rende identificabili. Tra i tratti distintivi della democrazia costituzionale ci sono elezioni regolari, separazione dei poteri, diritti civili fondamentali e, non ultimo, l’autonomia dei rappresentanti tanto da chi li elegge quanto da chi li mette in lista. La rappresentanza senza mandato imperativo è una componente essenziale dell’immagine della democrazia perché da essa dipende l’autonomia decisionale del Parlamento e, per diretta derivazione, la libertà politica dei cittadini. Alterare lo statuto della rappresentanza equivale a sfigurare la democrazia, a deformarla.
Nel corso di questi anni la democrazia italiana ha subito deformazioni evidenti rispetto al profilo originale definito dalla Costituzione. Tra queste, vi sono i tentativi ripetuti e a volte riusciti di assoggettare i rappresentanti alla volontà di qualcuno. Qui sta il segno macroscopico della crisi dei partiti politici i quali, proprio come la rappresentanza che contribuiscono a creare, non sono equiparabili ad associazioni di interessi o a imprese private, nemmeno se (come la deludente proposta di legge ora in discussione vorrebbe) a contribuire alla loro esistenza sono direttamente i privati, con i loro finanziamenti e le loro donazioni. La crisi politica che si sta abbattendo sul Paese è il segno esplicito dell’assalto alla rappresentanza e ai partiti, del tentativo di catturarli nell’orbita di un qualche interesse particolare. Il fondatore, sponsor e leader del Pdl, Silvio Berlusconi, strumentalizzando la debolezza oggettiva del quadro parlamentare, tiene da settimane sotto ricatto il Paese con la richiesta di conservare il seggio al Senato e quindi l’immunità parlamentare. Perciò ha imposto ai ministri del suo partito di dimettersi. Al momento dell’insediamento, questi ministri avevano giurato nelle mani del presidente della Repubblica con la seguente formula di rito: »Giuro di essere fedele alla Repubblica, di osservarne lealmente la Costituzione e le leggi e di esercitare le mie funzioni nell’interesse esclusivo della Nazione» .
La fedeltà alla legge e alla nazione può entrare in conflitto con altre fedeltà; non dovrebbe succedere ma può succedere. E quel giuramento serve a tutelare i ministri (e noi tutti) da possibili fedeltà a poteri che sono antitetici alla legge e all’interesse “esclusivo” della nazione. Berlusconi ha cercato di imporre ai “suoi” ministri di stracciare quel giuramento nel nome di una fedeltà superiore alla loro stessa coscienza e alla loro ragione (una richiesta umiliante, come si intuisce). Quale che sia il destino di questa maggioranza, l’immagine della Repubblica ne risulta gravemente compromessa. Se non corretta, la deturpazione della rappresentanza può cambiare la fisionomia della nostra democrazia, facendone un campo di battaglia tra due sovranità, quella della nazione e della legge e quella dell’uomo forte. Il rischio è altissimo. Da anni assistiamo ad attacchi all’autonomia delle istituzioni. L’emergenza che si sta consumando in queste ore è però di una gravità estrema. La lotta verte sull’autorità degli eletti dal committente: di chi sono i ministri e in quali mani hanno giurato? Se sono ministri della nazione essi non dipendono da nessuno in particolare e sono autonomi da ogni volontà. Lo stesso vale per i rappresentanti, come recita l’Art. 67 della Costituzione. La richiesta del mandato imperativo era già stata ventilata da Beppe Grillo, quando si avvide che una volta eletti in Parlamento i rappresentanti del M5S avevano il potere di rivendicare la loro libertà di decisione. Anche in quel caso si trattò di una lotta tra fedeltà inconciliabili: alla legge o alla volontà del capo di partito. La tensione ritorna periodicamente, e non sembra destinata a rientrare in tempi brevi.
Essa mette in luce una verità fondamentale: non ci può essere Parlamento senza libertà dei parlamentari. Non solo libertà di parola e di associazione dei cittadini, che devono poter fare campagna elettorale e tenere libere elezioni, ma anche la libertà di decisione di chi siede in Parlamento o di chi, come ministro, giura fedeltà alla Nazione. Come sanno bene i partiti politici, nemmeno la loro più ferrea disciplina può togliere al singolo rappresentante la libertà di decidere e votare secondo il proprio giudizio. La dignità delle istituzioni e quella personale coincidono. Da questa coincidenza dipende la nostra libertà come cittadini.
La tensione in corso nel Pdl sta a dimostrare che un partito politico non può essere un’azienda, anche qualora lo voglia il suo fondatore. Non lo può perché non può preventivamente escludere il dissenso interno e quindi la libertà dei suoi aderenti. Il partito politico è per necessità un’associazione pubblica e libera, insofferente a padronanze e a una dipendenza più o meno suddita. Ridare alla nostra democrazia la sua immagine originale, quella tratteggiata dalla Costituzione, significa mettersi sulla strada maestra della rigenerazione dei partiti politici e della rappresentanza. Liberando entrambi da lealtà private e da
mesmerismi carismatici che mentre saziano le emozioni trascurano i problemi del Paese e deturpano l’immagine della nostra Repubblica.