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Fabrizio Tonello
La febbre del guadagno, accecante e contagiosa
15 Novembre 2011
Recensioni e segnalazioni
”C’é qualcosa di nuovo oggi nel sole / anzi d’antico…”. Denaro, potere, banche, si parla di questo. Non sempre c’è bellezza, a volte solo miseria. Il manifesto, 15 novembre 2011

Ripercorrendo l'ascesa, lo splendore e la rovina della banca Medici, la mostra «Denaro e bellezza», allestita a Firenze presso Palazzo Strozzi, rivela forti elementi di affinità con quello che sta accadendo ai nostri giorni

«Fare affari era l'imperativo del giorno. Ma come?» La domanda che ossessiona Goldman Sachs e J. P. Morgan non è nuova. Se la ponevano, sei secoli fa, anche i banchieri fiorentini come i Bardi, i Peruzzi o i Medici e la risposta non era molto diversa da quella trovata a Wall Street: «Questi uomini intrattenevano buoni rapporti con i governanti locali, ed erano nella posizione di negoziare prestiti a re e duchi che stentavano a tirare avanti con le sole entrate fiscali; prestiti che, il più delle volte erano rimborsati consentendo al prestatore fiorentino di riscuotere le tasse o i dazi doganali per conto del governo». Così scrive Tim Parks in uno dei testi introduttivi alla mostra Denaro e bellezza. I banchieri, Botticelli e il rogo delle vanità allestita fino al 22 gennaio nel fiorentino Palazzo Strozzi (catalogo Giunti a cura dello stesso Tim Parks e della storica dell'arte Ludovica Sebregondi, pp. 281, euro 38). Una mostra nella quale il piccolo fiorino d'oro (non più grande di una monetina da 5 centesimi di euro) risplende in tutta la sua forza perfino accanto ai quadri più inquietanti di Botticelli, come La calunnia - estremamente utile, dunque, per farsi un'idea di quanto poco di nuovo ci sia nella crisi finanziaria attuale. (E del resto, a dimostrazione che le ricette dei banchieri funzionano a lungo, basti pensare che a Chicago, se infilate una moneta nel parchimetro, finisce direttamente nelle casse di J. P. Morgan, oggi e per i prossimi trent'anni).

Tesori nel cielo

Il denaro non è un problema moderno: duemilacinquecento anni fa, il greco Teognide rifletteva amaramente sull'unica virtù - areté - apprezzata dai suoi contemporanei: «Ecco la sola qualità che vale per la massa degli uomini: il denaro. A niente servirebbe tutto il resto: nemmeno essere saggi come il grande Radamanto, o saperne più di Sisifo». Di Sisifo, figlio di Eolo, si diceva che fosse l'unico ad essere riuscito a scendere all'Inferno e uscirne, grazie alle sue belle parole: il denaro, quindi, è più persuasivo di chi ha saputo infinocchiare perfino le potenze delle Tenebre.

Duemila anni fa, Orazio congratulava l'amico Iccio perché non cedeva alla «contagiosa febbre di guadagno» ma continuava a occuparsi di questioni scientifiche: «quali leggi moderino il mare, cosa regoli l'alternarsi delle stagioni, se le stelle si muovano errando spontaneamente o spinte da una forza esterna, quale oscurità ricopra il disco lunare e che cosa lo riporti alla luce, a cosa miri e quale sia la portata della discorde concordia delle cose». La lettera del poeta latino fa capire, però, che Iccio (amministratore dei beni siciliani di Agrippa) era molto tentato di abbandonare la via della sapienza per quella dell'accumulazione.

Qualche anno dopo, sull'altra sponda del Mediterraneo, un falegname errante diceva a chi si fermava ad ascoltarlo: «Non accumulate tesori sulla terra, dove tignola e ruggine consumano e dove ladri scassinano e rubano; accumulate invece tesori nel cielo, dove né tignola né ruggine consumano e dove ladri non scassinano e non rubano. (...) Nessuno può servire due padroni: o odierà l'uno e amerà l'altro, o preferirà l'uno e disprezzerà l'altro: non potete servire a Dio e a Mammona» (Matteo 6,19).

Il cristianesimo nacque invitando i fedeli a ritirarsi dal mondo («accumulate invece tesori nel cielo») perché la fine dei tempi era imminente ma, dopo l'anno mille, era diventato la religione dei papi, dei re, dei mercanti e dei banchieri: la condanna dell'adorazione di Mammona sopravviveva solo nelle leggi che proibivano l'usura, cioè il prestito a interesse. Un merito non piccolo della mostra di Firenze è spiegare come questa proibizione fu aggirata senza troppe difficoltà: la nascita di una moneta forte come il fiorino (oro a 24 carati) permise di mascherare i crediti da operazioni di cambio.

Il meccanismo era relativamente semplice: un prestito di 1000 fiorini veniva concesso contro una lettera di cambio incassabile, supponiamo, a Londra, specificando un certo tasso di conversione in sterline. A Londra, novanta giorni dopo, la lettera veniva incassata in sterline e riconvertita in fiorini con un guadagno che corrispondeva a un «equo» interesse sulla somma prestata.

Molti altri trucchi erano possibili, per esempio i prestiti «a discrezione» in cui l'interesse veniva mascherato da «dono» spontaneo del debitore.

Global ante litteram

Il fiorino nacque nel 1252. «Durante tutto il Trecento e il Quattrocento», scrive Tim Parks, «i banchieri fiorentini sondarono i limiti di ciò che il denaro poteva procurare. Comprarono il consenso della Chiesa e del governo» perché il denaro che si spende per corrompere chi ha potere è sempre ben speso. Come osservava il mercante Francesco di Marco Datini (di cui c'è in mostra un bel ritratto opera del Trombetto) «i doni accecono gli occhi dei savi e mutano le parole dei giusti». E le figure accecate dal guadagno a Palazzo Strozzi non mancano di certo: il Prestatore su pegno (una miniatura dal libro d'ore del duca di Rohan), Sant'Antonio fa ritrovare nel forziere il cuore dell'usuraio (predella del Pesellino), Gli usurai e Il cambiavalute e sua moglie, di Marinus van Reymerswaele, L'avaro di Jan Provost.

L'attualità della mostra fiorentina si legge senza difficoltà: è la storia dell'ascesa, splendore e rovina della finanza, impersonata in questo caso dalla banca Medici. Fondata nel 1397 da Giovanni de' Medici, che si era fatto le ossa nell'istituto creato dal cugino Vieri, la banca ha un'ascesa spettacolare nella prima metà del Quattrocento sotto la direzione di Cosimo il Vecchio (il documento del 1435 che riorganizza la società è tra quelli esposti). La parola d'ordine è globalizzazione: ci sono filiali a Londra, a Bruges, a Ginevra, a Lione, a Roma, Napoli e Venezia. I profitti sono vertiginosi: il 10, il 20, perfino il 30 per cento l'anno nel caso di Roma, dove i Medici sono i tesorieri dei papi.

Per decenni, le cose vanno per il meglio: si prestano soldi ai re d'Inghilterra, ai principi tedeschi, a chiunque dia garanzie di poter pagare. E poi si entra in politica perché, come disse Lorenzo (poi soprannominato il Magnifico), «a Firenze si può mal vivere ricco sanza lo Stato». Ecco, lo Stato: la finanza può esistere solo se controlla le istituzioni, comprando o intimidendo i politici, costringendo la collettività a pagare per la sua megalomania (quadri, chiese e palazzi allora, grattacieli oggi) e, naturalmente, i suoi errori (i prestiti al re d'Inghilterra nel Quattrocento, alla Grecia oggi). Sarà proprio Lorenzo a portare la banca alla rovina, una fine che sarà però rinviata di decenni grazie al potere politico che era riuscito a procurarsi.

L'eredità dei banchieri

Sarà proprio il potere politico, alla fine, a portare al crack finanziario: Lorenzo muore e il figlio Piero pensa di poter sopravvivere al Savonarola e all'invasione francese del 1492. Si sbaglia, il palazzo viene distrutto, la famiglia esiliata. I Medici torneranno nel 1512, rovesciando la repubblica con l'aiuto del Vaticano ma la banca non risorgerà più nelle dimensioni di un tempo.

Goldman Sachs ha fatto profitti vertiginosi ai quattro angoli del mondo e li ha protetti mettendo i suoi uomini al ministero del Tesoro e alla Federal Reserve per decenni: se i banchieri fiorentini ci hanno lasciato in eredità Botticelli (peraltro un seguace di Savonarola) Wall Street lascia dietro di sé il disastro della Grecia, le case pignorate e i quartieri in rovina negli Stati Uniti.

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