C’è una nuova moda tra i potenti: profanare Venezia. In barba alle leggi e asservendo le istituzioni. Tre eventi in sequenza non lasciano dubbi in proposito. Atto primo: dopo l’incidente della Costa Concordia naufragata al Giglio con gravi perdite umane e disastro ambientale, da tutto il mondo venne la richiesta che si stabilissero :«Nuove regole per quei colossi».
Specialmente nel punto più prezioso e fragile, Venezia. E infatti il decreto è arrivato in marzo, e vieta “inchini” e passaggi a meno di due miglia nautiche dalla costa (quasi quattro chilometri). Con una sola eccezione: Venezia, dove enormi navi, da 40.000 tonnellate e oltre, sfiorano ogni giorno Palazzo Ducale, incombono sulla città, inquinano la laguna, oltraggiano lo skyline di Venezia e i suoi cittadini. Venezia dunque “fa eccezione”, ma non perché è più protetta, come il mondo si aspetta, bensì perché non lo è affatto (due incidenti evitati per pochi metri negli ultimi sei mesi).
Secondo atto: Benetton compra il Fondaco dei Tedeschi, prezioso edificio di primo Cinquecento ai piedi del ponte di Rialto, per farne «un megastore di forte impatto simbolico». Accettabile, vista l’antica destinazione commerciale di quella fabbrica illustre. Ma Rem Koolhaas, l’architetto incaricato della ristrutturazione, disegna un neo-Fondaco con sopraelevazione, mega-terrazza con vista su Rialto e scale mobili che violentano da lato a lato l’armonioso cortile. Dopo la denuncia di questo giornale (“Quel centro commerciale che ferisce Venezia”, 13 febbraio) e di molti altri, dopo il parere negativo della Soprintendenza, Koolhaas insiste: «Faremo il progetto, al diavolo il contesto, è quello che paralizza la nuova architettura». Profanare un edificio storico è dunque parte del “forte impatto simbolico” commissionato da Benetton.
Il terzo atto è di questi giorni: Pierre Cardin, memore delle sue origini venete, a 90 anni vuol lasciare un segno in Laguna. Costruendo a Marghera un Palais Lumière da un miliardo e mezzo, alto 250 metri, superficie totale 175mila metri quadrati. Tre torri intrecciate, 60 piani abitabili, un’università della moda e poi uffici negozi, alberghi, centri congressi, ristoranti, megastore, impianti sportivi. Una città verticale, un’occasione unica per il recupero di un’area industriale in degrado. Ma la Torre di Babele targata Cardin, coi suoi 250 metri di altezza, sarebbe alta 140 metri in più del campanile di San Marco, e svettando su Marghera segnerebbe duramente lo skyline di Venezia, in barba a tutte le norme urbanistiche: impossibile non vederla da piazza San Marco, anzi da tutta la città. Specialmente di notte, perché il mastodonte, illuminatissimo, meriti il nome di Palais Lumière.
Non solo: sarebbe sulla rotta degli aerei, e violerebbe di ben 110 metri i limiti di altezza imposti dall’Enac (Ente nazionale aviazione civile). Ma se l’Enac risponde picche, Cardin non demorde: o un sì integrale al progetto, o il suo palazzo emigrerà in Cina.
Che cos’hanno in comune questi tre episodi? Sono tre occasioni per Venezia. Ma perché, se vogliamo portare turisti a Venezia per mare, va fatto con meganavi superinquinanti che s’insinuano in città come altrettanti grattacieli? Perché, se vogliamo recuperare all’uso commerciale il Fondaco dei Tedeschi, dobbiamo violarne l’architettura? Perché Cardin non può, nei 250mila metri quadrati del parco che avrebbe a disposizione, edificare due, tre torri più basse, con la stessa superficie totale? C’è una sola risposta: in tutti questi casi, oltraggiare Venezia non è una conseguenza non prevista, ma il cuore del progetto. E’ essenziale profanare questa città gloriosa che infastidisce i sacerdoti della modernità quanto una vergine restia può irritare un dongiovanni che si crede irresistibile.
La profanazione, anzi la visibilità della profanazione, ha una forte carica simbolica, è uno statement di iper-modernità rampante e volgare, che si vuol prendere la rivincita sul passato, umiliare Venezia guardandola dall’alto di una mega-nave o di una superterrazza a piombo su Rialto, o di un grattacielo a Marghera. Pazienza se (lo ha scritto Italia Nostra) l’Unesco dovesse cancellare Venezia dalle sue liste, dato che nel 2009 lo ha fatto con Dresda, dopo la costruzione di un ponte visibile dalla città barocca.
Ma c’è un altro denominatore comune: i soldi. In tutti e tre i casi, il ricatto è lo stesso: senza le mega-navi calano i turisti; per avere la mega-torre di Marghera e la mega-terrazza del Fondaco bisogna ubbidire al committente senza fiatare. E le istituzioni? Prone ai voleri del dio Mercato, sono pronte a tutto: nel caso del Fondaco, il Comune ha accettato da Benetton una sorta di “bonus” di 6 milioni promettendo in cambio di permettere (e far permettere) tutto; il sindaco Orsoni dichiara che «è assurdo mettersi di traverso a Cardin».
Intanto il presidente della regione Zaia incensa lo stilista paragonandolo a Lorenzo il Magnifico (forse non ricordava il nome di nessun doge), e chiede «che il ministro Passera si metta una mano sul cuore» e induca l’Enac a chiudere un occhio: anche la sicurezza dei voli dovrà pur inchinarsi al Denaro. In questa squallida sceneggiata, due sono le vittime: non solo Venezia (e i veneziani), ma anche la legalità, sfrattata a suon di milioni.
E intanto Pierre Cardin ha già messo in vendita gli appartamenti del Palais Lumière, con un annuncio diffuso a Parigi, in cui lo si vede torreggiare sullo sfondo di una Venezia ridotta a miniatura. La legalità può aspettare, la Costituzione può andare in soffitta.