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Annamaria Rivera
La discriminazione e la violenza sessiste
10 Luglio 2014
Articoli del 2014
«La discriminazione e/o la violenza in base al genere – come quelle in base alla “razza”, alla classe, all’orientamento sessuale - non sono necessariamente residuo del passato, segno di arretratezza o di modernità incompiuta». Il granello di sabbia, giugno 2014 (m.p.r.)

«». Il granello di sabbia

Per andare oltre le semplificazioni tipiche delle rappresentazioni mediatiche della violenza sessista che tendono a eluderne contorni, portata e ragioni, conviene smontare alcuni pregiudizi, stereotipi, luoghi comuni. Anzitutto, il sistema gerarchico di relazione fra i generi, quindi il sessismo e la violenza sulle donne, non sono l’esito fatale di qualche fatto naturale (per esempio, l’aggressività maschile, la passività femminile), bensì di un processo storico e di una costruzione sociale e culturale. Vi sono società che mai hanno conosciuto il patriarcato o altre forme di dominio-appropriazione delle donne. Il che dimostra che la natura non è determinante. Vi sono state e vi sono società considerate “arretrate” che ignorano non solo la gerarchia ma anche una rigida distinzione in base al sesso detto naturale(1).

In secondo luogo, il sistema di dominio, discriminazione e violenza sessisti non rappresenta un rigurgito dell’arcaico o un’anomalia della modernità. Anche se eredita credenze, pregiudizi, strutture, simbologie e mitologie del passato, appartiene al nostro tempo e al nostro ordine sociale ed economico. Del tutto infondato, quindi, è il dogma secondo il quale la modernità occidentale sarebbe caratterizzata da un progresso assoluto e indiscutibile nel campo delle relazioni di genere, mentre a essere immerse nelle tenebre del patriarcato sarebbero sempre le altre. Per dirne una, nell’ultimo rapporto (2013) sul Gender Gap del World Economic Forum (2), le Filippine figurano al 5° posto su scala mondiale per parità fra i generi (dopo Islanda, Finlandia, Norvegia e Svezia), mentre l’Italia è solo al 71°, dopo la Cina e la Romania (3).

Purtroppo, come dimostra il caso della Svezia, non sempre c’è un rapporto inversamente proporzionale tra la conquista della parità di genere e la violenza sessista. Questo paese, da sempre in prima linea nel garantire la parità, e perciò occupa il 4° posto su 136 paesi, registra un numero crescente di stupri: negli ultimi vent’anni si sono quadruplicati, così da riguardare una donna svedese su quattro e porre il paese al secondo posto nella classifica mondiale dopo il Lesotho. A spiegare questa progressione drammatica non credo sia sufficiente la spiegazione per cui in paesi, come la Svezia, ove vige una cultura più egualitaria tra i sessi, il numero delle denunce si avvicini a quello dei casi reali. Un sondaggio recente realizzato dall’Agenzia europea per i diritti fondamentali, non basato sul numero di denunce bensì sulle risposte di un campione di 42mila donne, conferma che è nei paesi scandinavi che si verifica l’incremento più allarmante di violenze, abusi e molestie ai danni delle donne.
I risultati del sondaggio collocano al vertice della triste classifica la Danimarca (con il 52% di donne che dichiarano di avere subìto violenza fisica o sessuale), seguita dalla Finlandia (47%) e dalla Svezia (46%). Al 18° posto (con il 27%) vi è l’Italia, che, come ho detto, si colloca agli ultimi livelli per parità di genere. Il che non deve farci dimenticare i dati italiani sul femminicidio. Dal 2006 al 2013, nel nostro paese sono state uccise 1.042 donne: in media 116 ogni 12 mesi, con un picco di 134 nel 2013. Dunque, non bastano la parità formale o il fatto che un buon numero di donne ricoprano ruoli di rilievo a determinare una cultura dell’uguaglianza e del rispetto.
Allorché, come nei paesi scandinavi, il sistema economico e sociale, quindi identitario, subisce una crisi o un crollo, riemerge la tentazione del dominio sessista, così come accade in certi contesti di guerra (l’ex Jugoslavia insegna…). Il che smentisce un altro luogo comune corrente, quello secondo cui per superare la violenza di genere sarebbe sufficiente un cambiamento culturale, tale da archiviare finalmente la cultura patriarcale. In realtà, la gerarchia e la disuguaglianza fra i generi, nonché la violenza sessista, hanno spiegazioni e dimensioni molteplici: economica, sociale, giuridica, simbolica linguistica, semantica… Fra le tante ragioni che possono spiegare perché mai in società “avanzate” avanzi pure il numero di stupri e altre violenze sessiste, ne cito giusto una: non tutti gli uomini sono in grado/disposti ad accettare i cambiamenti che investono i ruoli e la condizione femminili, vissuti come minaccia alla propria virilità e/o al proprio “diritto” al possesso se non al dominio. Tale inadeguatezza della società (maschile) si riflette anche nella risposta delle istituzioni rispetto alla violenza di genere, risposta spesso tardiva, elusiva o inadeguata: in molti dei casi italiani che si concludono col femminicidio, le vittime avevano denunciato più volte, invano, i loro persecutori.

Insomma, conviene diffidare degli schemi evoluzionisti e dei facili ottimismi progressisti: la discriminazione e/o la violenza in base al genere – come quelle in base alla “razza”, alla classe, all’orientamento sessuale - non sono necessariamente residuo del passato, segno di arretratezza o di modernità incompiuta, destinato a dissolversi presto, bensì un tratto che appartiene intrinsecamente anche alla tarda modernità (o alla modernità decadente, si potrebbe dire). In più, oggi, particolarmente in Italia, il neoliberismo, le privatizzazioni, la crisi economica, le politiche di austerità e le pesanti ricadute sull’occupazione e sul Welfare State hanno significato per le donne arretramento in molti campi.

Su questo versante la situazione italiana è pessima. I dati sul Gender Gap che ho citato prima sono eloquenti: in Italia solo il 51% delle donne lavora, contro il 74% degli uomini. Quanto al salario, un’italiana guadagna in media 0,47 centesimi per ogni euro guadagnato da un uomo: per eguaglianza salariale l’Italia è al 124° posto su 136 paesi. Tutto ciò per non dire della crescente reificazione/mercificazione dei corpi femminili, cui il sistema di potere berlusconiano ha dato nel corso del tempo un contributo rilevante.E’ forse pleonastico aggiungere che le stesse donne talvolta sono complici, consapevoli o non, del sistema sessista. Per non dire che anche donne vittime di discriminazioni di genere possono dominare o sfruttare altri/e in base al privilegio della nazionalità, all’appartenenza alla maggioranza e/o a una classe superiore.

Perciò sono molto scettica rispetto a quei femminismi deboli che si limitano a promuovere il progresso individuale e la meritocrazia in ambito femminile. Penso, invece, che la lotta per trasformare l’ordine fondato sulla gerarchia di genere debba essere collettiva e coniugata con quella per la giustizia economica e l’uguaglianza sociale, civile, politica. Infine: se è vero, come ha scritto più volte Etienne Balibar, che la comunità razzista e la comunità sessista si identificano sostanzialmente, allora la battaglia contro il sessismo è inscindibile da quella contro il razzismo. Ma per articolare il tema della liberazione delle donne con quello dei diritti delle/dei migranti, occorre un pensiero critico complesso, affrancato da semplificazioni, cliché, luoghi comuni, disposto a mettere in discussione alla radice anche la tradizione cui si appartiene(4).

Note
1 In proposito, riporto un esempio, tratto dal mio La Bella, la Bestia e l’Umano (Ediesse, Roma 2010). Per gli Inuit (uno dei due gruppi principali che costituiscono gli “Eschimesi”), ogni essere umano è la reincarnazione di un certo antenato, di cui alla nascita l’individuo assume il nome-anima: quindi anche l’identità sessuata e la personalità sociale, qualunque sia il proprio sesso “naturale” e quello dell’antenato/a. Solo alla pubertà egli/ella torna a “riprendere” il sesso con cui è nato/a.
2 Il Gender Gap è misurato in base a quattro criteri principali: salute, formazione, lavoro e partecipazione al sistema politico. In particolare, l’Italia è al 65° posto per il livello di scolarizzazione, al 72° per il diritto alla salute, al 44° per l’accesso al potere politico e al 97° per la partecipazione alla vita economica.
3 Ricordo che la maggior parte dei paesi europei si trova nelle prime trenta posizioni, su 136 paesi.
4 Qui posso solo enunciare il tema. Per un’analisi approfondita, si può vedere il mio, già citato, La Bella, la Bestia e l’Umano.

Annamaria Rivera è docente di antropologia sociale all’Università di Base, editorialista, scrittrice e saggista, una vita da attivista dei movimenti

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