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Chris Jordan
La desertificazione del pianeta fra i relitti del quotidiano
22 Aprile 2008
Capitalismo oggi
Manuela De Leonardis intervista l'artista di San Francisco, che presenta “Running the numbers” (link in calce) in occasione della Giornata della Terra. Il manifesto, 22 aprile 2008

«Dell'acqua per favore, ma non nella bottiglia di plastica», chiede Chris Jordan (San Francisco 1963, vive a Seattle). Davanti al museo dell'Ara Pacis, il fotografo americano presenta Running the numbers (2007), grandi visioni caleidoscopiche, che innescano una serie di riflessioni. L'occasione è la Giornata della Terra, organizzata dai canali National Geographic e inserita nel circuito del festival FotoGrafia. Un'anticipazione del progetto sul tema della speranza che porterà a Milano, all'Hangar Bicocca, nell'aprile del prossimo anno. Gli oggetti fotografati sono bottiglie vuote, cellulari, scie di aerei, Barbie, buste di plastica, risme di carta... multipli di relitti del quotidiano. Numeri che Chris Jordan traduce in immagini, proprio perché lo spettatore possa visualizzare - dando forma all'entità sfuggente del numero - l'insidia della poetica del consumo. «Il mio parametro di scelta rappresentativa è sempre l'atto inconscio della massa come cultura - spiega il fotografo -. Mi riferisco alla devastazione che crea l'atto incondizionato che la gente compie quotidianamente».

Il dito è puntato sulla società materialistica per eccellenza, quella americana. Spiritualità e consumismo sono i due poli opposti, come gli Stati Uniti e il Tibet. Le società che consumano di più sviluppano meno consapevolezza delle proprie azioni e dei danni che producono, insiste l'artista. Forse - ma di questo Jordan non può esserne certo - le società più spirituali conoscono ancora il significato della felicità. «Durante la mia carriera di avvocato pensavo che la cosa importante fosse apparire felice. Andare in palestra per essere bello, ridere alle battute dei colleghi, bere liquori costosi... Invece, ero sempre più solitario, arrabbiato e depresso. Una condizione generale nel mio paese dove ci viene inculcato che il successo materiale equivale alla felicità. Questa è l'immagine che vendiamo in tutto il mondo. Piuttosto non si dice che in America c'è il più alto numero di persone che prende antidepressivi, che abusa di alcool e droghe, che divorzia... La tragedia è che ci sono paesi che stanno prendendo a modello la nostra società consumistica, prima fra tutti la Cina. Stiamo insegnando loro a consumare a livelli insostenibili, un processo che uccide l'individualità».

Roma è la tappa conclusiva, dopo Taipei e Lisbona, del tour presentato dai canali National Geographic. Come si sente in qualità di eco-ambasciatore per l'Earth Day 2008?

È un grandissimo onore, soprattutto in un momento così critico del movimento ambientalista. Credo nel ruolo determinante della gente per una sensibilizzazione sui problemi dell'ambiente. L'idea è che la massa critica di persone - unite in un movimento spontaneo - possa determinare un cambiamento a favore dell'atteggiamento ecosostenibile.

Trova che ci sia differenza nella reazione del pubblico americano, di fronte al suo lavoro, rispetto ad altre parti del mondo?

La reazione è identica ovunque. È scattata una scintilla di consapevolezza, di risveglio nei confronti di tematiche ambientalistiche, ovunque nel mondo.

Quando è scattata questa scintilla di consapevolezza?

Il processo è stato lungo e lento. Fino a cinque anni fa sono stato avvocato nel settore commerciale. Contemporaneamente fotografavo, pensando però solo alla luce, ai colori e alla composizione. Non ero interessato ad altri contenuti. Mio padre è fotografo e collezionista, tra l'altro possiede una libreria con cinquemila libri fotografici e quando ero studente universitario, mi regalava manuali tecnici sull'uso della macchina fotografica. C'è stato un momento in cui lavoravo alla mia teoria del colore basata sul caos, incomprensibile come certi testi critici che si trovano nei cataloghi delle mostre. Le mie foto erano la messa in pratica di quella teoria. Ritrovavo spesso quello che cercavo nella zone industriali di Seattle.

Un giorno, ho scoperto una massa di coloratissime ecoballe, provenienti da un supermercato. Tutto quello che compriamo è molto colorato, dall'involucro al contenuto. Fui attratto dai colori e scattai la fotografia pensando che fosse bellissima. Poi la feci ingrandire e la appesi nel mio studio. I miei amici guardandola parlavano di consumo di massa, ma in chiave personale. Si chiedevano se quella data bottiglia di vino, o qualsiasi altro prodotto, fosse stata la loro o meno prima di andare a finire nella spazzatura. Questo mi procurava fastidio, perché nessuno sembrava attento alla mia immagine, né dal punto di vista estetico né teorico.

Un mio amico mi fece notare che c'era stato un punto di svolta nel mio lavoro. Era la prima volta che la ricerca si spostava dalla semplice forma astratta a qualcosa di reale. Così ho iniziato a cercare intorno a me i luoghi di degrado e, contemporaneamente, a leggere tutto ciò che riguardasse la cultura del consumismo e l'impatto ambientale che il consumismo ha sulla società non solo a livello materiale, ma anche spirituale. Dagli anni '50 ad oggi è stato scritto moltissimo su questo argomento. Il mio risveglio è avvenuto allora. Questo momento di lucidità mi ha fatto capire che in tutti gli anni della mia carriera di avvocato non ero mai stato felice. Non avevo fatto che seguire la ricetta per raggiungere il sogno americano. Guadagnavo bene, avevo la casa piena di cose bellissime, ma dentro sentivo che stavo morendo. Fotografare l'immondizia è stato un portale per ritrovare me stesso.

Il lavoro è proseguito con «Intolerable Beauty»...

L'intenzione era mostrare la vasta scala del consumismo negli Stati Uniti. Ma, fotografando l'oggetto in sé, mi sono reso conto che non rappresentavo l'idea della quantità. Durante le mie conferenze usavo slide show con dati statistici per rinforzare il concetto. Mostravo, ad esempio, la foto di un cellulare, dicendo che ogni giorno, negli Stati Uniti, buttiamo 426mila cellulari. Leggendo le statistiche mi dicevo che avrei voluto realizzare opere che rappresentassero proprio quelle cifre, senza che fosse necessaria la mediazione verbale. Un altro problema che avevo riscontrato, poi, è che quando parlavo di numeri così grandi la gente - ed io per primo - non arrivava a capire veramente il senso. Solo cambiando la tecnica fotografica sarei riuscito a raggiungere il mio obiettivo. Fino all'autunno 2006 fotografavo con il banco ottico, in piena tradizione fotografica, è stato allora che sono passato al digitale. Pur essendo molto combattuto ho venduto tutta la mia attrezzatura fotografica analogica, subito dopo è nato Running the numbers.

Negli Stati Uniti è diverso l'approccio al consumismo, a seconda delle classi sociali?

Penso che questo concetto stia cambiando. Prima più eri ricco e più lo mostravi, soprattutto per esternare la felicità. Adesso chi si è arricchito raggiungendo il successo si è anche accorto di non essere necessariamente felice. Questa consapevolezza trasforma quegli uomini in filantropi, come Bill Gates che dopo anni e anni passati ad essere un commerciante egoista ha avuto un risveglio, diventando una persona che vuole salvare il mondo!

Pensa che l'atteggiamento di Bill Gates sia solo di circostanza?

È la moglie che l'ha influenzato...

La consapevolezza di cui parla sembra rientrare in un discorso elitario. Chi ha raggiunto il successo può permettersi il «risveglio», ma invece chi combatte quotidianamente per la sopravvivenza?

C'è qualcosa di paradossale in quello che sta succedendo in questo momento in America, perché le persone con un alto reddito stanno scoprendo la saggezza portata da Gesù, Buddha, Confucio... che a grandi linee dicono tutti la stessa cosa, esortando a vivere una vita meno materialistica e ad essere gentili con il prossimo. Sembra ipocrita che un ricco vada a dire ad un povero, o a chi possiede di meno, che non è bello essere ricchi. Non è un argomento che riesce a persuadere.

Paradossalmente, però, consuma di più chi è meno ricco...

In America c'è molto spreco a tutti i livelli. Anche chi è al limite della sopravvivenza possiede le carte di credito e si indebita per acquistare prodotti tecnologici o l'automobile. Malgrado ciò detestano il loro lavoro, la propria vita. Al lato opposto della ricchezza, quindi, è esattamente la stessa cosa. C'è una specie di anestesia generale, la gente ha perso la propria rabbia. Ma c'è una minoranza di persone che si sta risvegliando. È dall'epoca del movimento degli hippies che non si assisteva ad una simultanea presa di coscienza a tutti i livelli, insegnanti, scrittori, documentalisti, attivisti... È come l'erba che spunta in un parcheggio abbandonato. Non solo negli Stati Uniti, ma in tutto il mondo senza distinzione di etnia, lingua, cultura di appartenenza.

Lei è ottimista?

Tutto quello che sta succedendo sul pianeta, dal riscaldamento globale all'estinzione delle specie, alla desertificazione delle foreste... non può che spaventare a morte. Siamo al punto critico, basta poco perché l'ago della bilancia penda dalla parte della salvezza o da quella della distruzione totale. È un momento incredibile per rendersi consapevoli di quello che sta succedendo.

In alcuni suoi lavori, sono citati espressamente Van Gogh o Seurat; inoltre, guardandoli, vengono in mente le reiterazioni delle immagini proprie della pop art. Ci sono autori, in particolare, a cui si è ispirato?

Mi ha influenzato il lavoro di un fotografo tedesco, Andreas Gursky, che si basa sull'anonimato dell'individuo nella società contemporanea, ma personalmente mi sento più un traduttore che un artista. Prendo i numeri e le statistiche e li sposto sul piano del linguaggio visuale: è un messaggio universale.

Sul sito web inhabitat.com un filmato nel quale Chris Jordan mostra e illustra la sua opera

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