La Repubblica, 5 ottobre 2016
RIVELA molte cose l’appassionato dibattito su democrazia e oligarchia suscitato dall’articolo di Eugenio Scalfari e dal confronto stesso fra Gustavo Zagrebelsky e Matteo Renzi, come dimostrano le tante lettere arrivate al giornale. È una passione che segna da tempo i confronti e le assemblee pubbliche sulla riforma costituzionale: non mi riferisco qui (e non mi riferirò) alla “animosità da talk show” di alcuni protagonisti ma alla passione vera di molti cittadini, portati ad ingigantire sinceramente i rischi per la democrazia e a sentire vicina una sua crisi radicale ed irrimediabile. Non a caso stiamo parlando soprattutto del popolo della sinistra (quello della destra appare molto meno angosciato, esattamente come i suoi leader) ed ha qualche ragione il lettore che scrive in modo icastico: “la scomparsa di una identità di sinistra ha spalancato i cancelli dello zoo che ci circonda”. È questo popolo orfano di identità a muoversi, talora in modo esasperato, ed a spingerlo non è — o non è solo, a me sembra — la tradizionale “paura del tiranno”, su cui comunque non è lecito ironizzare. È qualcosa di più profondo e non ci parla di un immaginario “altrove”, ci parla di noi e delle nostre inquietudini. Per questo quella passione, portata talora a trasformarsi anch’essa in animosità, non va lasciata a se stessa e certo non può esser considerata solo il residuo di una sinistra ideologica. Per questo è “obbligatorio” passare dalla pancia (in primo luogo dalla nostra pancia) alla testa (in primo luogo alla nostra testa) come ha invitato a fare Mario Calabresi.
In questo passaggio ci aiuta certo la discussione classica su questi temi, e anche quella relativa alla democrazia novecentesca: una democrazia che ha sullo sfondo i processi di industrializzazione e il delinearsi della società di massa, la conquista del diritto di voto e l’affermarsi dei partiti di massa. Ci aiuta ancor di più, forse, una riflessione sulle ansie e sullo spaesamento indotti dal declinare di quella democrazia, dal suo incrinarsi per il drastico modificarsi della realtà sociale e culturale su cui si basava. Indotti, anche, dal contemporaneo e altrettanto radicale modificarsi delle modalità della politica. Viene da qui quello spaesamento, viene da qui quell’angoscia, e con questo dobbiamo misurarci. Diversi anni fa Bernard Manin, ricordato ieri da Nadia Urbinati, ha aperto la riflessione sulla “democrazia del pubblico” — sul trasformarsi cioè della comunità dei cittadini in una platea di telespettatori — e a questo si è aggiunta e sovrapposta poi la realtà della rete. Spettacolarizzazione della politica e delinearsi dei partiti personali hanno preso corpo insieme (e già prima della “discesa in campo” di Silvio Berlusconi, per quel che ci riguarda) logorando l’insediamento dei partiti della società e portando in ultima istanza, per dirla con Ilvo Diamanti ed altri, a partiti senza società e a leader senza partiti. Altri pilastri della democrazia novecentesca sono andati in crisi nei decenni scorsi, nel declinare dell’“età dell’oro” dell’Occidente. Quel declinare ha posto infatti in discussione le modalità tradizionali del welfare, così centrale per le democrazie occidentali (lo ha ricordato spesso con grande lucidità Ezio Mauro): sarebbe stato necessario un ripensamento generale sulle sue modalità e sulle possibilità di un suo allargamento — non di un suo restringimento — nel nuovo scenario che si è delineato, ma quel ripensamento non è venuto. Non è venuta neppure una riflessione sulla formazione e sulla selezione della classe dirigente, assolutamente urgente nel deperire e talora nel crollare delle precedenti forme dell’agire politico. E nel dilagare — non solo nel ceto politico — di forme di corruzione che hanno fatto impallidire quelle del passato.
C’è questo insieme di nodi, a me sembra, dietro le riflessioni sempre più insistite su Come la democrazia fallisce, per citare un libro di Raffaele Simone. C’è questa stessa ansia, questa stessa avvertita urgenza in un comune sentire sempre più diffuso, e non stupisce riconoscerlo nelle molte lettere giunte a la Repubblica o nei molti interventi che rendono talora incandescenti i confronti pubblici sulla riforma costituzionale. E che rischiano troppo spesso di renderli improduttivi, scontri fra opposte sordità, come avviene anche per due dei nodi evocati dal confronto fra Renzi e Zagrebelsky. In questo quadro di incertezze e disorientamenti, ad esempio, l’ipotesi di governi stabili diventa anche in molte assemblee e dibattiti non un segno di salute della democrazia ma quasi un rischio. E la sacrosanta attenzione al mantenimento e al rafforzamento delle figure e degli organi di garanzia porta talora a capovolgere la realtà: così è considerata addirittura un vulnus la norma che in realtà innalza il quorum necessario per l’elezione del Presidente della Repubblica, portandolo dalla maggioranza assoluta ai tre quinti dei votanti, e quindi al di fuori della portata di chi governa (a meno di non ipotizzare una assemblea letteralmente dimezzata nelle presenze, come ha fatto ieri Salvatore Settis). Evitare forzature polemiche o distorsioni è il primo passo per misurarsi con i nodi di fondo: sono nodi ineludibili e forse è un bene, non una iattura, che siano balzati in primo piano con tanta prepotenza. Lo è, per lo meno, se ad essi iniziamo faticosamente a dare alcune prime risposte.