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Nadia Urbinati
La democrazia dell'audience
7 Gennaio 2014
Politica
la Repubblica delle idee, 37 gennaio 2014. A partire dalla rivoluzione berlusconiana la politica non conta più per ciò che racconta, propone o promette, per l'apparenza del comportamento personale del leader

la Repubblica delle idee, 37 gennaio 2014. A partire dalla rivoluzione berlusconiana la politica non conta più per ciò che racconta, propone o promette, per l'apparenza del comportamento personale del leader

Si parla da alcuni anni di una trasformazione molecolare del modo di essere della politica e dell’etica pubblica nel nostro paese. La diagnosi si basa su alcuni segni distintivi riscontrabili all’interno dell’intero spettro politico e che appartengono al modo di operare in pubblico dei leader, allo stile del discorso dentro i partiti e nei media, alle pratiche di intervento nella sfera di formazione dell’opinione politica. Una trasformazione assai radicale della cui portata non ci rendiamo spesso conto perché è avvenuta gradualmente, in sordina. Essa si manifesta tra le altre cose nell’emergere di nuovi criteri generali nella valutazione dei fatti e nella scelta delle priorità politiche. Lo scontro di queste ore tra Matteo Renzi e Stefano Fassina è un episodio di questa più generale trasformazione. La più importante indicazione della quale è senza dubbio la pratica dirigenziale nell’uso degli organi della sfera pubblica, e cioè dei “corpi intermedi” del governo rappresentativo: i media e i partiti politici.

Chi voglia ricostruirne la genealogia dovrà partire ça va sans dire dalla rivoluzione berlusconiana, che consistette nella costruzione simultanea dell’impero mediatico e del partito-azienda. Al di là dell’unicità dell’impresa di Silvio Berlusconi, che rimane ineguagliata, resta il fatto che il modus operandi da essa inaugurato è diventato col tempo parte del comportamento pubblico: il successo politico gestito con uso dirigenziale dei corpi intermedi. Il modello privatistico dei comportamenti pubblici è la madre di una trasformazione che è diventata così profonda da essere quasi la nostra seconda natura, un costume normale che guida le azioni e le valutazioni politiche. Un modus operandi appunto, e che si avvale della democrazia dell’audience.

La democrazia dell’audience, cioè del pubblico che assiste allo spettacolo della politica, ha a poco a poco sostituito quella dell’identità di partito. Poco male, si dirà, anzi un segno di avanzamento democratico perché ha dimostrato che l’opinione della gente conta più di quella delle oligarchie di partito. Sennonché, l’idea che questo gentismo significhi più democrazia potrebbe valere al massimo nel mondo astratto della teoria. Nella realtà concreta, l’abito dirigistico che conquista l’audience può avere spiacevolissimi esiti se non incanalato da pratiche e regole virtuose che garantiscano sempre il pluralismo, il quale è l’anima della leadership, non il suo ostacolo. La vicenda italiana (che fa testo nei manuali universitari) parla per default di come la democrazia del pubblico rischi di trasformarsi in una mono-archia dell’opinione vincente nella gara del consenso mediatico
se non viene praticata l’arte del pluralismo, che è il bene primario da difendere affinché la democrazia sia “del” pubblico: questo è il primo comandamento del buon governo rappresentativo. Il pluralismo dei media e quello dei e nei partiti stanno insieme; essi corrispondono a un modus operandi che è diverso da quello dirigistico.

Ora, la creazione del partito-azienda, l’opera forse più rivoluzionaria nella storia della democrazia dei partiti, fu accompagnata da pratiche e comportamenti conseguenti, che inizialmente fecero scandalo e che si sono col tempo sedimentati nell’immaginario pubblico. Come per esempio il fatto che il capo di Forza Italia riunisse il partito in casa propria, ad Arcore prima e poi a Palazzo Grazioli, tanto che è probabile che pochi italiani sappiano dove si trovi la sede nazionale dei partiti gemmazione di Forza Italia. Un simile abito emerge nel Pd, la cui segreteria nazionale sente di potersi riunire nella sede dove il leader ha iniziato la sua corsa alla leadership del partito. Non si tratta questa volta di una sede privata. Ma è una sede comunque identificata con la dirigenza del leader.

Dirigere il partito è diventato col tempo simile a “tenere” il partito, non diversamente da come un bravo amministratore delegato “tiene” l’azienda che rappresenta (pur senza possedere): che significa, in senso classico, avere il controllo personale nel dettare l’agenda e nel selezionare il team più adatto a realizzarla. Il successo è più importante del modo in cui lo si ottiene; anzi liberare l’operato dagli orpelli delle regole di accountability appare come uno snellimento delle procedure per giungere a decisioni spedite. Abbiamo per anni denunziato il decisionismo dirigistico perché implicava prima di tutto la svalutazione del controllo, della dialettica interna al partito, della partecipazione delle varie opinioni alla costruzione della linea generale. Sono stati versati fiumi di inchiostro per sostenere la specificità della leadership politica rispetto ad altre. Una caratteristica di questa specificità sta nella libera discussione, che significa che il partito è luogo comune nel quale tutti, maggioranza e minoranza, possono sentirsi a casa propria (cosa non assimilabile al correntismo). Non è una questione di buonismo ma di logica della buona pratica, perché debilitare l’opposizione comporta inevitabilmente allentare il controllo sulla dirigenza che non essendo più incalzata e stimolata può perdere in energia innovativa. La trasformazione del partito per pratica dirigistica può rischiare di diventare un problema proprio per la leadership, poiché debilitare la critica indebolisce anche i vincitori più pugnaci.

Articolo tratto da "la Repubblica delle idee" qui raggiungibile in originale

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