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La crisi dell’università italiana e le sue ragioni
29 Luglio 2010
Scritti 2010
Sulla crisi profonda dell’università la lettera dello studente Stefano Caffari, la risposta di Ugo Mattei e una nota di Alessandro Dal Lago. Il manifesto, 29 luglio 2010

L'insostenibile degrado del sapere

di Stefano Caffari

È davvero possibile mantenere anche solo la speranza, quando nessuna delle parti chiamate in causa in una lotta sono minimamente dalla parte della ragione e/o della correttezza? Una battuta fatta l'altro giorno tra amici mi ha fatto molto riflettere: «La Gelmini non sa neanche di cosa parla e taglia.. Ma pensa se conoscesse davvero quello che capita dentro l'Università cosa cazzo succederebbe». Apparentemente è un'esagerazione, ma più passano i giorni più mi convinco di quanto questa frase sia profondamente e drammaticamente veritiera. Ho finito ormai da un anno il mio percorso universitario, e nei cinque anni passati dentro questa istituzione ne ho viste di cotte e di crude e di qualsiasi tipo immaginabile. Ho visto una profondissima arretratezza culturale, un immobilismo vergognoso, la parola barone evocata in ogni sua possibile accezione. Insomma, in questi anni mi sono reso davvero conto di quanto questo sistema sia marcio e malato, basato su un gruppo di potere il cui unico e solo interesse è il mantenimento dello status quo, in qualunque senso: non ho mai visto un'innovazione didattica che una in 5 anni, nessuno spirito di ricerca e aggiornamento dei propri programmi e insegnamenti, profondo disprezzo per gli studenti avvertiti come un fastidio e un urticante obbligo di interazione quotidiana. Magari è sempre stato così, del resto lo stereotipo dei «bei tempi andati» è sempre in agguato. Ma il peggioramento è visibile, e chiunque se ne rende conto.

L'altro aspetto speculare a tale marciume sono gli studenti, naturalmente. La società berlusconiana ha intaccato profondamente tutti, e intendo veramente TUTTI. L'Università è per gli studenti non un luogo di istruzione superiore ma un supermarket di crediti e punti da sfangare nel modo più semplice possibile, con l'esame più «fattibile», con il «prof più buono». Sono poche le persone che cercano di far capire come l'Università invece vada vissuta con spirito critico e conoscitivo, ma sono sommerse da una valanga di arroganza e pressappochismo che vede negli studenti un'onda montante sempre più preponderante.

I professori dal canto loro, che si fingono vittime di tale processo storico, hanno responsabilità gravi e pesantissime, perché vivono l'Università esclusivamente come il proprio orticello di potere dove sperimentare quotidianamente guerre fra bande alla ricerca di Potere&Prestigio, meglio ancora se sulle spalle del lavoro di numerosi e servili sottoposti. Sono questi professori, che si stracciano fintamente le vesti in realtà non protestando mai davvero quando la politica taglia fondi su fondi (peccato che molti di loro poi siano la politica, ma questo è un altro discorso, immagino), che da decenni distruggono Facoltà storiche creando corsi di laurea barzelletta con l'unico scopo di attirare più studenti possibili, rendendo l'Università un gigantesco baraccone dove non viene offerta un'istruzione ma venduto un prodotto. Gli studenti, già con la mente e la vita distrutta da una società totalmente nichilista si affacciano in questo scenario e l'unica cosa che possono materialmente fare è adattarvisi, perpetuando il mercato e non essendo assolutamente coscienti di quelli che sarebbero i propri diritti-doveri dentro questa istituzione. Ho conosciuto solo due professori, tra centinaia e centinaia, che in cinque anni si smarcavano da questo sistema. Lorenzo e Simone. Mi dispiace Università, ma ti guardo con le lacrime agli occhi, come uno che per sei anni si è spezzato la schiena e sudato e pianto tanto per migliorarti, e ti vedo senza speranze.

Stefano Caffari

La risposta

di Ugo Mattei

Caro Stefano, ho letto due volte la Tua lettera ed entrambe le volte ho terminato con le lacrime agli occhi. L'editoriale di Marco Bascetta («il manifesto» 24/7) descrive, in un' idea di riformismo fine a se stessa propria dei liberisti di sinistra, le radici di questo disastro. L'Università italiana, prima del trionfo del pensiero unico aziendalista (scimmiottato dagli Stati Uniti e amplificato oscenamente dalla destra e dai suoi consulenti accademici «di sinistra» alla Giavazzi), offriva una buona cultura di base critica.

Quando mi sono laureato io (1983) non esistevano né il dottorato di ricerca né le lauree triennali. Gli studenti italiani primeggiavano nei masters e nei Phd di tutto il mondo. Ci avevano dotati di un buon sapere di base. Poi per «competere» nel mondo globale abbiamo inventato il primo ed il terzo livello. Si è trattato di decisione sciagurata. Ben pochi dottorati in Italia formano davvero giovani leve accademiche garantendo standards qualitativi seri. E il 3+2 ha fatto lo spezzatino delle vecchie lauree quadriennali immolandole all' europeismo filo-atlantista dominante (il famigerato processo di Bologna) senza che fosse a nessuno chiaro perché il sistema non andasse bene. Idem per i concorsi universitari. Il sistema nazionale non funzionava? Invece di aggiustarlo si è scelta la scorciatoia del localismo che ha aperto le porte dell' insegnamento a tutti quei baroncini malvagi e scempi che tu lamenti. Per gli studenti non molto è cambiato. Purtroppo la deriva piccolo borghese della società colpisce maggiormente i suoi anelli più deboli e gli studenti (dopo la macellazione dei licei) lo sono. Nessun movimento dopo il '77 ha avuto un vero impatto politico e la Pantera che per un po' ha fatto sperare è finita in un nulla di fatto.

Poi ci sono quelli come Lorenzo e Simone e quelli come te. Tu scrivi benissimo, qualcuno deve averti insegnato a pensare in modo così lucidamente critico! (forse all'Università? Forse la lettura del «manifesto»?). Io di studenti come te ne conosco tanti, magari il 10-20%... Non tantissimi ma credimi sufficienti dopo la Rivoluzione (per la quale non esiste alcun motivo razionale per smettere di battersi con tutte le proprie forze in questo mondo orribile) per creare la classe dirigente del mondo nuovo! Io di colleghi come Lorenzo e Simone ne conosco parecchi, spesso proprio in quelle università piccole che adesso è di gran moda considerar ragione di ogni male. Poi qualcuno arriva anche a quelle grandi e si porta il proprio anelito innovativo, certo reso difficile dalla situazione economica (non ci sono neppure i fondi per i libri e le riviste) e dall' atteggiamento sospettoso di troppi colleghi (sovente proprio di sinistra!).

Il sapere critico, come l'acqua, è un bene comune che va governato con mentalità «pubblica» anche nell'interesse delle generazioni future. L'Università, come gli acquedotti, è il sistema attraverso il quale il bene comune si diffonde consentendo la soddisfazione dei diritti fondamentali cui è collegato. Se gli acquedotti perdono e le Università fanno acqua, occorre ripararle, con uno sforzo comune inclusivo nell'interesse di quel bene comune che veicolano. Lo smantellamento o la ristrutturazione nell'interesse della concentrazione del profitto e del potere non sono una soluzione accettabile, né è accettabile rassegnarsi. Per l'Università come per l'acqua

Ugo Mattei

Università

Il pensiero unico della spesa,

un male italiano

di Alessandro Dal Lago

L'aspetto più sconsolante del «dibattito» sul Ddl Gelmini sull'università è l'interesse esclusivo per le questioni della spesa, come se le virtù di bilancio fossero in grado, da sole, di ridare vita a un'istituzione che sta visibilmente morendo o, ciò che è la stessa cosa, trasformandosi in qualcosa di abissalmente lontano dai fini che tradizionalmente le vengono attribuiti. E questo è tanto più paradossale, quanto più i dati pubblicati ogni giorno mostrano che la spesa per studente, da noi, è tra le più basse in Europa. Come se, insomma, la cura per chi sta morendo d'inedia fosse il digiuno.

Ben pochi si interrogano su quello che l'università è diventata negli ultimi vent'anni, direi dall'epoca di Ruberti, e soprattutto sulle conseguenze delle varie «riforme», a partire da quella Berlinguer, per ciò che si fa (o si dovrebbe fare) davvero in università, ricerca e didattica. In questo senso, il nostro lettore della lettera a fianco descrive perfettamente la complicità di gran parte dei docenti e degli studenti nello sfruttare i miseri vantaggi di una pseudo-razionalizzazione al ribasso. Quanti professori, ormai, se ne lavano le mani dicendo «mi limito a fare il minimo indispensabile», oppure «mi imbosco fino alla pensione»? E quanti studenti concepiscono i loro obiettivi culturali, in questa atmosfera di depressione, come esclusiva ricerca di voti sempre più facili?

Io credo che tutto il male discenda dall'aver applicato meccanicamente all'università una logica opaca e posticcia («autonomia», «professionalità», ecc.) che non discende da alcuna cultura dell'efficienza (che in Italia non esiste, a partire dal mondo dell'impresa), ma dall'utopismo punitivo dei «riformatori». Si pensi solo alla sciagurata definizione degli studenti come «clienti», presente nei documenti di indirizzo della riforma nota come «3+2». Mentre da una parte si trasformava il sapere in calcolo di «crediti» e «debiti», dall'altra si strizzava l'occhio ai «clienti» facendo capire loro che, alla fine, nessuno li avrebbe bocciati più di tanto, purché non rompessero le scatole, non protestassero, si adeguassero al tran tran.

Oggi i ricercatori protestano giustamente perché le loro carriere sono bloccate, e tutti gli altri borbottano e mugugnano perché gli scatti di stipendio sono saltati, o perché li si vuole mandare in pensione prima (scaricando sull'Inpdap i loro oneri), perché non ci sono fondi, ecc. Ma perché non si sono mai ribellati di fatto alla miserabile aziendalizzazione degli atenei, alla contabilizzazione dei crediti, alla proliferazione insensata dei corsi, ai master mangiasoldi, alla vacuità dei dottorati, allo scollamento assoluto tra ricerca, un optional legato ormai alla buona volontà individuale e una didattica ripetitiva e massificata?

Il favore da cui il Ddl Gelmini è accolto dalla cosiddetta stampa indipendente e da tutto l'arco parlamentare descrive la connivenza generale nello strangolamento dell'università. Ma riflette anche la passività di gran parte del ceto accademico negli ultimi due decenni. E in fondo è l'espressione di quello che il paese è diventato, uno spazio privo di idee e progetti in cui la contabilità spicciola è diventata pensiero unico, a destra come a sinistra.

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