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Andrea Fabozzi
La Costituzione secondo Matteo
1 Aprile 2014
Articoli del 2014
«Riforme. Il capo del governo presenta la riforma del bicameralismo: "Chi non la vota è contro il cambiamento". Respinte le richieste di modifica, l’accoppiata con l’Italicum apre la strada alla concentrazione del potere».

il manifesto, 1° aprile 2014

Il governo ha appro­vato ieri un dise­gno di legge costi­tu­zio­nale che non ha i numeri per pas­sare al senato. In que­sto senso la for­za­tura è dop­pia. L’esecutivo strappa al legi­sla­tivo il potere di ini­zia­tiva sulla legge che è ter­reno comune di tutte le forze poli­ti­che, mag­gio­ranza e oppo­si­zione. In più la impone alla sua stessa mag­gio­ranza (pure assai larga) con la forza del ricatto. O que­sto o lascio la poli­tica, dice il pre­si­dente del Con­si­glio. Da inten­dersi meglio: o que­sto o le ele­zioni anti­ci­pate.
Chi non vota que­sta riforma del par­la­mento, insi­ste Renzi, blocca il cam­bia­mento. Sul piano della comu­ni­ca­zione sem­plice ha già vinto.

Renzi sta solo rac­co­gliendo i frutti dei difetti reali del bica­me­ra­li­smo ita­liano, dei limiti reali della classe poli­tica almeno dell’ultimo ven­ten­nio, e del vento freddo che sof­fia sulle isti­tu­zioni al quale ha spie­gato le sue vele. Messa così non c’è ana­lisi seria del pro­getto di legge che tenga, per­ché l’argomento che si deve cam­biare e cam­biare pre­sto è più tra­vol­gente di qual­siasi ragio­na­mento. Anche l’osservazione di par­tenza sul fatto che nel senato di oggi sono più i con­trari che i favo­re­voli alla riforma Renzi perde molto del suo valore. Quanti saranno infatti, alla fine, quelli che vote­ranno sulla base delle loro con­vin­zioni di merito, se l’oggetto del voto sarà un altro, e cioè la tenuta del governo, o la voglia di stare dalla parte del «nuovo»?

Molto poco è cam­biato in que­ste tre set­ti­mane, da quanto il Con­si­glio dei mini­stri aveva reso pub­blica la prima bozza. Chie­dendo quei sug­ge­ri­menti che non sono stati accolti. La riforma cam­bia il bica­me­ra­li­smo pari­ta­rio ita­liano, senza avere il corag­gio di sce­gliere fino in fondo il mono­ca­me­ra­li­smo, ma tra­den­done la pul­sione. Il senato viene quindi con­ser­vato, dopo mille pro­te­ste salva anche il nome, e a fatica gli si trova qual­cosa da fare. Pro­ce­di­mento rove­sciato: Renzi non è par­tito dalle fun­zioni della camera alta per dise­gnarne la com­po­si­zione, ma si è mosso dai risul­tati che voleva rag­giun­gere — strom­baz­zando quello (tutto da dimo­strare) del rispar­mio eco­no­mico — e ha adat­tato le forme. La con­clu­sione è para­dos­sale al mas­simo: i cit­ta­dini non eleg­ge­ranno i nuovi sena­tori, ma dovreb­bero sen­tirsi più rap­pre­sen­tati da 150 espo­nenti delle elite poli­ti­che e cul­tu­rali coop­tati nel Palazzo. Il che pone un pro­blema enorme di tra­di­mento del prin­ci­pio della sovra­nità popo­lare. E fa sal­tare ogni garan­zia di equi­li­brio tra i poteri. L’accoppiata con la legge elet­to­rale stra-maggioritaria, poi, apre le porte al disastro.

Basta ragio­narci un po’ su, fare cal­coli sem­plici — in fondo non potendo noi fre­nare il cam­bia­mento pos­siamo per­met­terci il lusso di giu­di­carlo. La legge elet­to­rale appro­vata dalla camera per­mette a un solo par­tito, in ipo­tesi il Pd, che rag­giunge anche solo il 30% dei voti e che è alleato con un paio di par­titi più pic­coli che restano sotto la soglia di sbar­ra­mento del 4,5%, di con­qui­stare al primo turno la mag­gio­ranza asso­luta della camera. Quel par­tito basta a se steso nel voto di fidu­cia al — natu­ral­mente suo — pre­si­dente del Con­si­glio. Il par­la­mento diventa la cin­ghia di tra­smis­sione dell’esecutivo, che in più avrà a dispo­si­zione lo stru­mento nuovo della «tagliola» sui suoi prov­ve­di­menti di legge. La camera dovrà votare quello che il governo chiede entro 60 giorni, se non meno. Accanto a que­sto resta per l’esecutivo lo stru­mento del decreto legge, che la riforma pre­sen­tata ieri da Renzi limita appena un po’, in osse­quio a quanto già sta­bi­lito dalla Corte Costituzionale.

Pas­sando al senato, guar­dando all’appartenenza poli­tica dei sin­daci dei capo­luo­ghi, dei pre­si­denti di regione e dei con­si­glieri regio­nali che vero­si­mil­mente sareb­bero scelti oggi, si può con­clu­dere che ancora il Pd avrebbe i numeri suf­fi­cienti per cam­biare da solo la Costi­tu­zione, per quanto la revi­sione resti di com­pe­tenza bica­me­rale. Per il delitto per­fetto al primo par­tito man­che­reb­bero solo pochi voti, ma potrebbe facil­mente tro­varli all’interno di quel «par­tito del pre­si­dente» che ha resi­stito nel pas­sag­gio di bozza in bozza. Saranno 21 i sena­tori nomi­nati diret­ta­mente dal pre­si­dente della Repub­blica, per sette anni, e il loro voto sarà tanto deci­sivo quando avulso da qual­siasi legit­ti­ma­zione popo­lare, di primo o di secon­do grado.

Renzi ha ragione quando dice che sono trent’anni che si discute di riforma delle isti­tu­zioni. E in quella discus­sione si col­loca, schie­ran­dosi con una linea di pen­siero pre­cisa: quella che da sem­pre indica la solu­zione nel raf­for­za­mento dei poteri dell’esecutivo. Pic­colo pro­blema: è la stessa linea che ha ispi­rato le leggi elet­to­rali mag­gio­ri­ta­rie e con­sen­tito l’indicazione diretta del pre­si­dente del Con­si­glio. I risul­tati li abbiamo cono­sciuti nell’ultimo ven­ten­nio. La riforma del senato aggiun­gerà un sovrap­più di rinunce sul ver­sante par­la­men­tare. Ma che l’intenzione sia quella di col­pire più il sim­bolo che la sostanza lo dimo­strano non solo le novità che la riforma intro­duce ma anche quelle che ha dimen­ti­cato per strada. Due su tutte, che avreb­bero sì inciso nelle inef­fi­cienze del par­la­mento: la sfi­du­cia costrut­tiva, che avrebbe con­sen­tito alla camera di far cadere il governo solo quando è in grado di espri­mere una mag­gio­ranza alter­na­tiva per un ese­cu­tivo diverso. E, final­mente, la sot­tra­zione ai depu­tati del potere di deci­dere sui loro stessi titoli di ammis­sione in par­la­mento. È il pri­vi­le­gio che ha con­sen­tito le ripe­tute ele­zioni dell’inelegibile Ber­lu­sconi e che Renzi non tocca. Gli inte­res­sano più gli slo­gan, e le alleanze

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