il manifesto, 1° aprile 2014
Il governo ha approvato ieri un disegno di legge costituzionale che non ha i numeri per passare al senato. In questo senso la forzatura è doppia. L’esecutivo strappa al legislativo il potere di iniziativa sulla legge che è terreno comune di tutte le forze politiche, maggioranza e opposizione. In più la impone alla sua stessa maggioranza (pure assai larga) con la forza del ricatto. O questo o lascio la politica, dice il presidente del Consiglio. Da intendersi meglio: o questo o le elezioni anticipate.
Chi non vota questa riforma del parlamento, insiste Renzi, blocca il cambiamento. Sul piano della comunicazione semplice ha già vinto.
Renzi sta solo raccogliendo i frutti dei difetti reali del bicameralismo italiano, dei limiti reali della classe politica almeno dell’ultimo ventennio, e del vento freddo che soffia sulle istituzioni al quale ha spiegato le sue vele. Messa così non c’è analisi seria del progetto di legge che tenga, perché l’argomento che si deve cambiare e cambiare presto è più travolgente di qualsiasi ragionamento. Anche l’osservazione di partenza sul fatto che nel senato di oggi sono più i contrari che i favorevoli alla riforma Renzi perde molto del suo valore. Quanti saranno infatti, alla fine, quelli che voteranno sulla base delle loro convinzioni di merito, se l’oggetto del voto sarà un altro, e cioè la tenuta del governo, o la voglia di stare dalla parte del «nuovo»?
Molto poco è cambiato in queste tre settimane, da quanto il Consiglio dei ministri aveva reso pubblica la prima bozza. Chiedendo quei suggerimenti che non sono stati accolti. La riforma cambia il bicameralismo paritario italiano, senza avere il coraggio di scegliere fino in fondo il monocameralismo, ma tradendone la pulsione. Il senato viene quindi conservato, dopo mille proteste salva anche il nome, e a fatica gli si trova qualcosa da fare. Procedimento rovesciato: Renzi non è partito dalle funzioni della camera alta per disegnarne la composizione, ma si è mosso dai risultati che voleva raggiungere — strombazzando quello (tutto da dimostrare) del risparmio economico — e ha adattato le forme. La conclusione è paradossale al massimo: i cittadini non eleggeranno i nuovi senatori, ma dovrebbero sentirsi più rappresentati da 150 esponenti delle elite politiche e culturali cooptati nel Palazzo. Il che pone un problema enorme di tradimento del principio della sovranità popolare. E fa saltare ogni garanzia di equilibrio tra i poteri. L’accoppiata con la legge elettorale stra-maggioritaria, poi, apre le porte al disastro.
Basta ragionarci un po’ su, fare calcoli semplici — in fondo non potendo noi frenare il cambiamento possiamo permetterci il lusso di giudicarlo. La legge elettorale approvata dalla camera permette a un solo partito, in ipotesi il Pd, che raggiunge anche solo il 30% dei voti e che è alleato con un paio di partiti più piccoli che restano sotto la soglia di sbarramento del 4,5%, di conquistare al primo turno la maggioranza assoluta della camera. Quel partito basta a se steso nel voto di fiducia al — naturalmente suo — presidente del Consiglio. Il parlamento diventa la cinghia di trasmissione dell’esecutivo, che in più avrà a disposizione lo strumento nuovo della «tagliola» sui suoi provvedimenti di legge. La camera dovrà votare quello che il governo chiede entro 60 giorni, se non meno. Accanto a questo resta per l’esecutivo lo strumento del decreto legge, che la riforma presentata ieri da Renzi limita appena un po’, in ossequio a quanto già stabilito dalla Corte Costituzionale.
Passando al senato, guardando all’appartenenza politica dei sindaci dei capoluoghi, dei presidenti di regione e dei consiglieri regionali che verosimilmente sarebbero scelti oggi, si può concludere che ancora il Pd avrebbe i numeri sufficienti per cambiare da solo la Costituzione, per quanto la revisione resti di competenza bicamerale. Per il delitto perfetto al primo partito mancherebbero solo pochi voti, ma potrebbe facilmente trovarli all’interno di quel «partito del presidente» che ha resistito nel passaggio di bozza in bozza. Saranno 21 i senatori nominati direttamente dal presidente della Repubblica, per sette anni, e il loro voto sarà tanto decisivo quando avulso da qualsiasi legittimazione popolare, di primo o di secondo grado.
Renzi ha ragione quando dice che sono trent’anni che si discute di riforma delle istituzioni. E in quella discussione si colloca, schierandosi con una linea di pensiero precisa: quella che da sempre indica la soluzione nel rafforzamento dei poteri dell’esecutivo. Piccolo problema: è la stessa linea che ha ispirato le leggi elettorali maggioritarie e consentito l’indicazione diretta del presidente del Consiglio. I risultati li abbiamo conosciuti nell’ultimo ventennio. La riforma del senato aggiungerà un sovrappiù di rinunce sul versante parlamentare. Ma che l’intenzione sia quella di colpire più il simbolo che la sostanza lo dimostrano non solo le novità che la riforma introduce ma anche quelle che ha dimenticato per strada. Due su tutte, che avrebbero sì inciso nelle inefficienze del parlamento: la sfiducia costruttiva, che avrebbe consentito alla camera di far cadere il governo solo quando è in grado di esprimere una maggioranza alternativa per un esecutivo diverso. E, finalmente, la sottrazione ai deputati del potere di decidere sui loro stessi titoli di ammissione in parlamento. È il privilegio che ha consentito le ripetute elezioni dell’inelegibile Berlusconi e che Renzi non tocca. Gli interessano più gli slogan, e le alleanze