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Adriano Prosperi
La complicità del silenzio
25 Agosto 2009
Scritti 2009
Quando la legalità si oppone alla giustizia è arbitrio del potere a cui bisogna opporsi: e celebrare così, degnamente, l’unità d’Italia. Da la Repubblica, 25 agosto 2009 (m.p.g.)

Titi Tazrar è una dei cinque sopravvissuti al viaggio dei disperati. Ha 27 anni. E’ ricoverata all’ospedale di Palermo. La attende, lei e gli altri sopravvissuti, l’incriminazione per il reato di immigrazione clandestina.

I procuratori competenti per territorio non hanno alternative: non possono ignorare l’art. 10 bis del decreto sicurezza. Né possono ignorarlo gli italiani che vanno per mare. Sono le leggi che creano i reati; creano anche l’omertà, la volontà di chiudere gli occhi, la capacità di non sentire le grida di aiuto, di chi non vedeva i convogli di deportati del Terzo Reich e di chi navigando oggi nel mar di Sicilia ignora i barconi africani. Dietro la paura c’è il potere. Noi tutti dimentichiamo volentieri quanto l’opera del potere sia efficace nel modellare la pasta morale dell’umanità. Oggi in Italia il decreto sicurezza produce paura, produce morte, cancella le reazioni umanitarie.

Bisogna cancellare il decreto, denunziarlo davanti al mondo, sperare nell’intervento di autorità esterne visto che non possiamo sperare in una rivolta del paese. Ma per ora, aspettando il processo e l’espulsione, Titi Tazrar è ancora in Italia. I giornalisti la cercano, lei risponde in uno stentato inglese. Una cosa ha detto che ci interroga tutti: «Sono partita perché volevo venire in Italia. Non in Germania o Francia, ma in Italia. Voglio restare qui».

A questa domanda si deve dare una risposta. Una sola. Titi deve restare qui, con gli altri superstiti. Perché al disopra della legge scritta c’è la giustizia, senza di che la legge è arbitrio, violenza, suprema ingiustizia. Chi ha attraversato l’inferno di quei pochi chilometri di mare senza trovare fra gli infiniti natanti che lo affollano un briciolo di umanità, chi ha visto finire a mare prima i bambini abortiti poi le loro madri poi tutti gli altri, non può essere rimandato al punto di partenza. Se accettassimo in silenzio questo esito saremmo complici di un infame gioco dell’oca. Titi e i quattro sopravvissuti con lei hanno conquistato un diritto.

Lei è partita per venire proprio qui da noi. E noi italiani scopriamo all’improvviso nella sua frase la risposta al problema che da giorni è al centro del confuso discorrere sul se e sul come celebrare il centocinquantesimo anniversario dell’unità d’Italia. Lo ha capito subito con una dichiarazione che gli fa onore il Presidente della Camera Fini quando ha detto che bisogna far sentire «l’Italia come patria anche a coloro che vengono da paesi lontani e che sono già o aspirano a diventare cittadini italiani». Patria è la parola giusta.

Oggi se ne parla guardando solo al passato. Ritengono alcuni che si tratta di ritrovare o di ribadire una specie di identità collettiva che avremmo ereditato perché qui siamo nati; argomento non di qualità diversa da quello di chi propone invece di sostituire all’Italia la sua piccola patria locale, il pezzo di suolo dove gli fa comodo vivere e di cui vorrebbe chiudere le porte agli altri. Ebbene, in questione non è l’indiscutibile appartenenza di fatto e di diritto della popolazione italiana a uno fra gli stati europei; né lo è il dovere delle nostre istituzioni di esplorare e commemorare e far conoscere le ragioni e i caratteri storici e culturali dell’esistenza del paese. Tutto questo è doveroso, ma non sufficiente.

Ciò che abbiamo ricevuto - dice una famosa massima di Goethe - dobbiamo conquistarlo perché possiamo dirlo nostro. Da noi la passività dell’eredità ricevuta è moltiplicata dagli abissi di ignoranza di un paese in preda all’analfabetismo di ritorno. Oggi il problema è ancora quello antico: la nazione come volontà e speranza di futuro. Un plebiscito di tutti i giorni, diceva Ernest Renan. A questo plebiscito aderisce oggi Titi Tazrar quando affronta il deserto e l’orrore in nome di una speranza e di un desiderio che ha nome Italia.

Quanto a noi italiani, con lei e con tutto il suo popolo abbiamo un grande debito storico, una promessa non mantenuta. Titi è figlia di un popolo che fu unito a quello italiano nelle sofferenze e nelle miserie delle nostre guerre coloniali. Accanto agli eritrei hanno vissuto e combattuto tanti italiani, poverissimi come loro, spediti in guerra da una patria che stava nel cuore di uomini come il siciliano Vincenzo Rabito, autore dell’indimenticabile Terra matta, che come lui non riconobbero più la patria in quella "porca Italia" fascista che li mandava a combattere altri disperati come loro, ma che si riconciliarono poi con la riconquistata libertà del paese.

La storia della patria italiana è quella dei processi di integrazione che hanno portato le masse a diventare coscienti del loro essere l’Italia. Processi lunghi, difficili, spesso bloccati e rovesciati da scelte sbagliate. Se Cavour ebbe chiara coscienza del fatto che una volta creata l’Italia bisognava creare gli italiani, le lacerazioni e le violenze di una storia più che secolare hanno attraversato e ostacolato quel progetto, lasciando alla polemica clericale il facile compito di seminare tra le classi popolari delle campagne il discredito verso lo scomunicato Stato liberale.

E si può ben capire che non fosse vissuto come patria uno stato che mandava l’esercito nel Mezzogiorno a piegare i cosiddetti briganti e nelle pianure padane la polizia a incarcerare gli scioperanti. Come disse Camillo Prampolini nel 1894, replicando in Parlamento all’accusa di Crispi ai socialisti di essere "senza patria", il problema era precisamente quello di dare una patria alla massa dei diseredati, ai braccianti di Molinella come ai contadini veneti guidati dai parroci che si affollavano sulle banchine di Genova. L’integrazione di quelle masse nella vita del paese richiese lotte durissime, passò attraverso lacerazioni profonde, costò l’immane bagno di sangue della prima guerra mondiale.

Oggi i loro nipoti non raccolgono più i pomodori nell’agro napoletano e loro eredi non sono costrette a lavori domestici e ad assistere vecchi e malati: sono liberi, liberi di studiare, viaggiare, sviluppare attività creative e produttive. Al loro posto sono subentrati quelli che sono per ora degli schiavi, dei ribelli, dei fratelli in spirito di Vincenzo Rabito, tentati come lui dalla ribellione allo sfruttamento disumano ma tentati ancor più dalla speranza di diventare i nuovi italiani.

Davanti a noi c’è una alternativa: taglieggiarli con le sanatorie, chiuderli in centri di espulsione, oppure tentare la scommessa dell’integrazione. Con le plebi senza diritti del nostro passato, con quei contadini e operai tentati da una speranza che si chiamava rivoluzione proletaria e cancellazione delle patrie borghesi, l’integrazione è avvenuta: una imprevedibile svolta della storia ha portato un’Italia scalciante e urlante nel mezzo dello sviluppo civile del 900. È sulla base di questa consapevolezza storica che oggi si può dare un senso alla celebrazione dell’unità d’Italia guardando avanti, a una nuova e più coraggiosa integrazione.

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