Song-do, due ore e passa in metro da Seul, Corea del Sud, è una città costruita dal nulla, su 6,5 chilometri quadrati rubati al mare dalla mano dell’uomo che altera confini e morfologie. L’intenzione è di ospitare almeno 250mila persone in questo insediamento che sta diventando “trendy” al punto da convincere varie star di soap opera di andarci a vivere neanche fosse una Beverly Hills d’Oriente. Ad oggi però ci sono solo costruzioni avveniristiche ultimate semivuote, qualche sparuto ciclista e cantieri che lavorano 24 ore su 24. Sullo sfondo canali pieni di navi mercantili.
Camminando tra questi grattacieli di acciaio e cristalli, strade semivuote in attesa di essere riempite di auto, sembra di vivere in un Truman show del liberismo più sfrenato. Non a caso Song-do è stata costruita all’interno di una delle quattro zone economiche libere della Corea, la Incheon-Free-Economic-Zone (IFEZ), per le quali il governo coreano ha investito qualcosa come 41 miliardi di dollari, su una superficie di 290 chilometri quadrati, la maggior parte conquistata al mare.
Quasi una città-stato nel quale chi investe gode di esenzioni fiscali e non solo. Una raffigurazione plastica e visuale del liberismo estremo, quello della reificazione del quotidiano, della natura trasformata in merce di consumo, dell’impossibile equazione tra Green New Deal e crescita, pietre finte e alberi trapiantati sulla sabbia piatta, sferzata dal vento, gelido di inverno, caldo e umido d’estate. Song-do ci racconta uno stato alterato di sovranità, o forse d’eccezione così ben descritto da Giorgio Agamben. Il “G-building” ospita il governo della IFEZ – c’è addirittura un ambasciatore per le relazioni internazionali – ed anche gli uffici del Fondo Verde per il Clima, entità istituita per finanziare l’attuazione degli accordi sul clima di Parigi.
Al piano terra entri e vieni accolto da uno schermo luminoso che proietta gli indici di borsa, negli ascensori un altro video ti spara un grafico per poi chiederti se hai fatto la tua dose di passi giornalieri per tenerti in forma. I marciapiedi sono quasi tutti in tartan, per biciclette e “runner”, ma ce ne sono assai pochi, in questa città che vuole essere una eco-città modello. Salta agli occhi la vera contraddizione, quella che vorrebbe applicare al liberismo una patina di verde e di tecnologie appropriate. Oggi Song-do è considerata, non a caso, un modello di “green economy” costruito sostituendo un ecosistema dove vivevano 11 specie di uccelli migratori definiti di grande importanza dalla Convenzione di Ramsar, tra cui la “Platalea Minor”.
Mentre le verdissime centrali “a zero emissioni di carbonio” sfruttano le energie delle maree distruggendo habitat costieri delicatissimi. Il paradosso è che uno di questi impianti, il più grande al mondo, il Siwha Tidal Power Plant è stato anche registrato come progetto del Meccanismo per uno sviluppo pulito (Clean Development Mechanism) per ridurre le emissioni e generare crediti di carbonio. “A conflict of greens: Green Development versus Habitat Preservation-the case of Incheon, South Korea” titolava un saggio a sottolineare la contraddizione tra capitalismo verde ed ecologia. Quale conversione ecologica potrà essere possibile in un luogo artificiale, dove i diritti sono sottomessi alle leggi del mercato e della finanza? Un luogo che pretende di essere laboratorio di un Green New Deal asettico e senz’anima? Fa riflettere quella teoria, non corroborata da prove scientifiche, secondo la quale una città acquisisce una propria “anima” nello spazio di due generazioni o per essere precisi intorno a settanta anni o giù di lì. Allora, la Song-do di oggi sarà soppiantata da progetti ancor più avveniristici, già illustrati nel museo-mostra permanente dell’IFEZ. E ci vorranno altri settanta anni per la nuova “anima” della città.
A pochi chilometri dall’aeroporto, in pratica uno “shopping mall” con piste di decollo e atterraggio, sta nascendo un casinò enorme, dal costo, si dice, di un miliardo di dollari, per ricchi cinesi in cerca di azzardo e facile fortuna. Ero già stato in una situazione simile, a Doha, Qatar, lì erano il gas e il petrolio a fare da motore della trasformazione radicale dello spazio urbano, con braccia e mani di centinaia di migliaia di migranti che lavorano in condizioni di semi schiavitù. Anche lì una penisola rubata al mare, una vetrina dei migliori architetti in circolazione da Jean Nouvel a Norman Foster, anche lì una realtà artificiale, una Venezia in plastica al centro di un megacentro commerciale. E poi cantieri e cantieri, per far giocare gli opulenti ed annoiatissimi autoctoni al borsino della speculazione immobiliare, e trasformare il Qatar in un polo della conoscenza e della ricerca scientifica per tutta la regione e attrarre ragazzi e ragazze nei nuovi campus e centri di ricerca.
Pare che il presidente ecuadoriano Rafael Correa si fosse innamorato del Qatar, non a caso gli sceicchi si stanno comprando mezza Quito, dopo avere conquistato Londra e la Milano da “bere”. Si innamorò di quella società che si vuole dire “post-petrolifera”, e che investe nella conoscenza, e dopo Doha si innamorò anche di Incheon. Così anche tra le Ande ecuadoriane, nacque Yachay, una sorta di Silicon Valley della conoscenza e delle biotech, disegnata dalla cura attenta di esperti coreani.
Anche qua, come a Doha ed a Song-do si cerca di attrarre cervelli e docenti delle migliori università. Saranno spazi extraterritoriali urbani come l’IFEZ, plasmati a tavolino, sospesi nello spazio e nel tempo, buchi neri dove vige l’esenzione dalle regole e dalle tasse, dai diritti dei lavoratori, a costituire la nuova frontiera del liberismo selvaggio che si nutre di risorse saccheggiate altrove. Fatto sta che Song-do oggi è uno di quei tanti luoghi di “extraterritorialità”, che fanno il pari con le Zone di Libero Scambio (Export Processing Zones) dedicate esclusivamente all’esportazione – ricordo quella di Manaus – o Hong Kong – che assieme ai paradisi fiscali disegnano un’altra geografia del potere, un sistema reticolare di governo parallelo, impermeabile allo scrutinio pubblico, che non prevede anomalie o alternative.
Un esempio tra i tanti di “zone” (assai bene descritte in un saggio di Keller Easterly del 2014, “Extrastatecraft: the power of infrastructure space” ) dove vengono ridisegnati poteri e sovranità, tra assetti statuali e di mercato. Il modello “coreano” viene esportato ovunque nel mondo, non solo in Ecuador, ma anche ad esempio in Honduras, dove capitali coreani sostengono la creazione di “charter cities”, vere città stato autonome e indipendenti, regolate solo dalla legge del mercato e del profitto. Viene da pensare alla City di Londra oggi all’indomani della Brexit, ed a chi pensa che la Brexit possa contrastare il disegno del capitalismo liberista e finanziarizzato. Non si facciano illusioni, esistono già altri luoghi non-luoghi pronti a prendere il posto di Londra o di Francoforte sparsi lungo la densa rete di “città stato”, “città mercato” globali come disse a suo tempo Saskia Sassen, aree di libero scambio, zone economiche libere che stanno nascendo in ogni parte del mondo.
Così Song-Do, disegnata di sana pianta da una compagnia di progettazione, la Kohn Pedersen Fox, è una città “chiavi in mano” da riprodurre altrove nel mondo, con il suo Central Park, il suo World Trade Center e i suoi canali di tipo Venezia del futuro, e anche altre zone di libero scambio, un technopark e un biocomplex. I cessi elettronici degli hotel ti offrono varie opzioni, tra clistere automatizzato e massaggi del fondo schiena a temperatura regolabile. Intanto i supermercati vendono cosmetici tratti dalla manipolazione genetica di cellule staminali, per schiarire la pelle e regalare l’illusione dell’eterna giovinezza.