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Arturo Carlo Quintavalle
La città moderna? Senza modelli. Alberti e la lezione di 600 anni fa
23 Giugno 2005
Recensioni e segnalazioni
In Italia l'urbanistica nasce dall'architettura. Sui rapporti odierni tra architettura (e architetti) e città varrebbe la pena di ragionare, magari più con Krier che con Fuksas. Da il Corriere della sera del 22 giugno 2005

Perché mai la mostra che si apre domani in Campidoglio, dedicata a Leon Battista Alberti, un architetto nato nel 1404 e morto nel 1472, si inserisce nel vivo del dibattito sulla città? Perché mai la teoria dell'architettura di Alberti è nuovissima, determinante guida per la urbanistica di oggi, dove i pareri sono violentemente contrapposti? Lo sappiamo: il lussemburghese Leon Krier, consulente di Carlo di Inghilterra, vuole la tutela ferrea delle città storiche, il loro integrale recupero, la limitazione delle altezze, l'uso degli antichi materiali. Ma per Massimiliano Fuksas, progettista di Porta Palazzo a Torino, della Nuova Fiera diMilano e del Centro Congressi dell'Eur, la così detta Nuvola, la città è una utopia, un modello del passato, servono gli interventi del nuovo. Del resto anche Jean Nouvel, il progettista de l'Institut du Monde Arabe a Parigi, i centri storici, e in particolare ad esempio quello di Roma, sono uno spazio nel quale intervenire, anche nella zona barocca, peraltro esclusa da manomissioni dal sindaco Walter Veltroni. D'altro canto Kjatil Traedal Thorsen, norvegese, ritiene che anche a Roma, nel centro storico, si debba intervenire con forme nuove. Così anche adesso le polemiche sono fortissime quando si inseriscono segni violenti, distruggendo per giunta architetture storiche di grande rilievo, come è il caso di Richard Meier con il suo imballaggio dell'Ara Pacis di sapore post moderno, obelisco compreso.

Torniamo ad Alberti per leggere un modernissimo passo della sua De re aedificatoria ( 1452), il trattato di architettura che, evocando quello di Vitruvio scritto in età augustea, mette le basi per la nuova idea della città di oggi: « Quando si giunge in una città, se questa è famosa e potente, esigerà strade dritte e molto ampie, confacenti al suo decoro e alla sua dignità. Se invece è una colonia o una semplice piazzaforte… ( le vie) all'interno della città non dovranno passare in linea retta, ma piegare con ampie curve come anse di fiume, più volte da una parte e dall'altra… perché il fatto è di grande giovamento sia alla bellezza, sia alla pratica convenienza, sia alle necessità di determinati momenti… infatti chi vi cammina viene scoprendo man mano, quasi a ogni passo, nuove prospettive di edifici… inoltre la strada a curve sarà sempre ombreggiata, anche d'estate; e d'altra parte non vi sarà casa ove non giunge la luce del giorno: mai vi mancheranno le brezze… né vi sarà pericolo di venti nocivi, che verrebbero subito respinti dai muri frapposti » .

Qui dunque le città di Alberti sono due, quella rinascimentale, con le sue vedute assiali, la sua prospettiva come una scena teatrale e l'altra, la città che l'umanista, studioso della Roma dove lavora come « abbreviatore » per i pontefici, vede ogni giorno, la città medievale, la città con le strade dense di edifici di epoche diverse, che si guardano camminando fra essi lentamente, ciascuno con dentro il senso della propria storia. Così dunque Alberti dialoga con l'antico ma anche con il mondo medievale.

Un moderno architetto, Stefano Boeri, ricorda un libro di Françoise Choey, La regola e il modello , che contrappone alla città utopica di Tommaso Moro ( 1516) quella di Leon Battista Alberti: « Alberti ha capito - dice Boeri - che per l'architettura delle città non si possono fissare modelli; la città non è la creazione del principe, se mai lo è stata, ed è il prodotto di tanti soggetti che devono fissare regole condivise; e proprio il trattato di Alberti è il primo a indicare per la città un sistema di spazi ordinati da norme » . Così dunque la mostra organizzata da Paolo Fiore e, fra gli altri, da Howard Burns e Arnold Nesselrath, pone problemi che vanno al di là della pur importante vicenda di Alberti, e segna una tappa nella storia del dibattito sul mondo di oggi. Proviamo a riflettere, una generazione fa Bruno Zevi scriveva un libro su Biagio Rossetti ( 1447 1516) che veniva definito « primo urbanista moderno europeo » . Ebbene ben prima Alberti ripensa per i Gonzaga Mantova, come propone in mostra Arturo Calzona, costruisce alcuni nuclei, alcuni nodi fuori le mura, come il San Sebastiano, progetta nuovi portici rinascimentali lungo le antiche strade, adattandosi dunque ai percorsi medievali, alle curve, alle prospettive della città storica entro cui deve operare. Ancora lui, Alberti, ripensa anche la centralissima Piazza delle Erbe, con doppi portici attorno e in mezzo un monumento a Virgilio, mai realizzato, ma che riprendeva la vivissima tradizione medievale del poeta, provata anche da due statue del secolo XIII che ancora si conservano. Così Alberti applica agli spazi urbani una visione nuova, che Biagio Rossetti imiterà a Ferrara, dove peraltro prima era operoso proprio Alberti, e che sta alla base della moderna idea della città e della sua funzione in tutto l'occidente. Dice Guido Canali, che di interventi nelle città storiche ha grandi esperienze, dal restauro dello Spedale di Santa Maria della Scala a Siena a quello del Real Collegio Carlo Alberto di Monreale: «Alberti ha segnato gli inizi del mondo moderno: certo è che per intervenire nella città storica si deve rifiutare il protagonismo, l'architetto deve sapersi adattare ai volumi, agli spazi, ai colori del tessuto storico per assecondarli, per evocarli, a volte anche per riscoprirne valenze che sono state velate da trasformazioni o manomissioni» .

Dunque una mostra importante perché permette di riflettere sulla città così detta storica, ma questa, lo vediamo sotto i nostri occhi, ha perso la sua antica forma, è diventata senza limiti, senza confini. Si parla oggi di città diffusa, di reti urbane, e così gli interventi in città si fanno sulle aree dismesse, ai margini, ai confini, oppure si decide di recuperare una fabbrica, se ne lascia intatto l'involucro esterno e poi lo si intasa di nuove strutture. Gli esempi? Troppi , ma il vero nodo sta sempre nel dialogo fra antico e nuovo, fra una architettura per l'architetto e la sua mitologia, quella fallica dei grattacieli stigmatizzata da Krier, e un dialogo attento, consapevole, con le pietre, con i mattoni, con gli intonaci, con le forme del passato, quello stesso sguardo lungo che Leon Battista Alberti portava alla città pensando sopra tutto alla gente, a quelli che la devono abitare.

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