Da “La città inclusiva. Argomenti per la città dei pvs”, a cura di Marcello Balbo, Franco Angeli, Milano 2002. Contributi di Jordi Borja, Rod Burgess, Fernando Carrion, Alain Durand-Lasserve, Caren Levy, Ricardo Montezuma, Annik Osmont, Laura Petrella, Carole Rakodi, Ronaldo Ramirez, Daniela Simioni, Franz Vanderschueren
La città produttiva
I testi di questo volume sono tutti attraversati da due fili conduttori.
Il primo è la crescente polarizzazione, frammentazione, esclusione che, sotto la spinta delle trasformazioni in corso nel sistema economico internazionale, investono le città dei pvs. La globalizzazione, che la si interpreti come fenomeno che ha radici lontano nel tempo, o che la si consideri invece un’innovazione specifica di questi ultimi anni, ha rilevanti conseguenze sull’or-ganizzazione e sul funzionamento economico, sociale, istituzionale e dello stesso spazio fisico della città. Liberalizzazione dei mercati e privatizzazione dei servizi, insieme alla spinta a ridurre la presenza dello Stato e la sua azione redistributiva, per quanto modesta, hanno provocato un’accentuazione degli squilibri interni alla città, l’aumento della povertà urbana, l’esclusione di un numero sempre maggiore di persone dalle opportunità offerte dalla città, il diffondersi della violenza.
All’inizio degli anni novanta si è fatta strada la consapevolezza che le città stanno al centro dello sviluppo economico: le economie urbane contribuiscono ovunque per il 60%, più spesso per il 70% o l’80%, alla produzione della ricchezza nazionale. Le città sono il motore della crescita, per questo è indispensabile che funzionino bene, che siano efficienti, che riducano gli sprechi per essere competitive sulla scena nazionale e internazionale (World Bank, 2001). Delle opportunità che la città offre (Getting the Best from Cities), la Banca Mondiale sottolinea innanzitutto, e sostanzialmente, il potenziale economico:
Le città sono fonte di produttività e innovazione. Industrie e servizi si sviluppano in città perché imprenditori e piccole imprese possono condividere mercati, infrastrutture, lavoro e informazioni. […] Le città promuovo la trasformazione della conoscenza, delle istituzioni e delle attività economiche. […] Per mantenere la promessa di migliori condizioni di vita, le città hanno bisogno di istituzioni più forti in grado di rendere più accessibili le risorse e di assicurare una più equilibrata distribuzione dei beni pubblici tra i diversi interessi” (World Bank, 2002).
La città viene vista dunque sempre più come un prodotto da vendere, ma di fatto lo è, come conseguenza della globalizzazione che obbliga a competere per catturare investitori e utilizzatori esterni, che nei pvs vuol dire sostanzialmente esteri.
Di fatto è il tema della competitività a dominare non solo le politiche urbane ma anche quelle urbanistiche, sempre più impostate intorno all’obiettivo di rendere la città attrattiva, vale a dire capace di attirare risorse da fuori. La recente “riscoperta” dei centri storici in America Latina, o nei paesi asiatici e africani, in particolare quelli del mediterraneo, nella cui cultura salvaguardia e conservazione non sono mai state particolarmente sentite, è significativa. Il recupero delle aree storiche risponde infatti prima di tutto all’esigenza di offrire qualcosa da “vendere”, nel senso ampio del termine, ma anche in quello stretto, dato che la vendita ai privati di più o meno grandi porzioni pubbliche dei centri storici è una strada che i governi locali tendono a imboccare sempre più spesso[1], nella speranza di attrarre investitori appunto, di avviare la riqualificazione di queste parti di città spesso degradate, e di ottenere qualche entrata con cui incrementare il bilancio[2].
Certo, il discorso è ammantato sempre di altri obiettivi, in particolare la salvaguardia e il recupero di un patrimonio che appartiene alla storia del luogo, ai valori culturali e all’identità stessa della città e dei suoi abitanti: obiettivi che si possono condividere e considerare del tutto legittimi, ma che appaiono secondari o comunque non disgiungibili da quelli della competizione economica[3].
Analoghe considerazioni si possono fare sul marketing urbano, diventato obbligatorio anche per le città dei pvs, ovviamente soprattutto per quelle di maggiori dimensioni. Indispensabile lo è sempre stato per quelle città che si vendevano sul mercato turistico, direttamente o ad emblema del paese, come Bangkok (Thailandia), Damasco (Siria), Dakar (Senegal) o Rio de Janeiro (Brasile), ma è diventato un terreno su cui le città sono costrette a presentarsi se non vogliono restare ai margini dei flussi finanziari e di investimento internazionali[4].
Con la globalizzazione, i meccanismi dell’integrazione diventano sempre più deboli, sia all’interno della città che rispetto al territorio che la circonda. La città produttiva approfondisce sempre più la separazione tra attività locali, informali ma non solo, in grado di sopravvivere solo perché situate in un luogo preciso e legate a un mercato altrettanto preciso, e attività che si svolgono nel mercato globale che possono benissimo fare a meno delle prime, dei loro luoghi e territori, con i quali hanno poco o nulla a che spartire.
Lo sviluppo delle tecnologie di informazione e comunicazione che sta alla base della globalizzazione, costituisce un ulteriore fattore di differenziazione. La possibilità di servirsi di queste tecnologie, teoricamente di facile diffusione, nelle città dei pvs riguarda in realtà una sparuta minoranza della popolazione, quella che dispone di una linea telefonica, che ha i soldi per comprarsi il computer, e che può permettersi di pagare la connessione a internet. Ma, di nuovo, per stare nella globalizzazione le città devono essere in grado di offrire buone infrastrutture di comunicazione: a Bangkok, paese dove il numero di linee telefoniche è superiore a quello dell’intero continente africano, vengono installate fibre ottiche lungo i “corridoi intelligenti” in modo da connettere con il centro città aree della periferia o qualche piccolo centro esterno, scavalcando tutto quello che c’è in mezzo; a San Paolo (Brasile) gli investimenti si concentrano sull’offerta di sistemi infrastrutturali estremamente avanzati per le fasce di popolazione a redito alto, mentre “la drastica riduzione dell’intervento pubblico per quanto riguarda acqua, luce e telecomunicazioni, insieme alle misure di riduzione delle sovvenzioni incrociate, mette il resto della popolazione in condizioni di svantaggio, o peggiori di un tempo” (Unchs, 2001).
L’esclusione urbana
Sotto certi aspetti, le città dei pvs sono sempre state luoghi dell’esclusione, a partire dalla colonizzazione, quando alcune di esse si sono consolidate e molte sono addirittura nate. La differenza è che oggi, nel contesto della globalizzazione, l’esclusione viene stabilita dal valore aggiunto che ognuno è in grado di apportare al prodotto città: la globalizzazione infatti esclude le persone, i territori e le attività, che non producono o non contengono valore, per lo meno quello di interesse all’economia globale.
La nozione di esclusione sociale viene spesso usata come sinonimo di povertà, anche se a volte criticata in quanto meno esplicita della seconda sulle conseguenze dei meccanismi dell’economia di mercato, della liberalizzazione, delle privatizzazioni.
Tuttavia, fare riferimento all’esclusione sociale consente di mettere in luce sia le cause della povertà e delle disuguaglianze nella città, sia le diverse conseguenze che la povertà può avere in termini di inclusione o di esclusione appunto, a seconda di variabili oltre che economiche, di classe, genere, età, appartenenza etnica o religiosa. La riflessione condotta in questi anni ha consentito di capire che la povertà è un grande problema fatto di tanti problemi diversi: sulla povertà influiscono fattori diversi, economici certo ma anche sociali e culturali, fortemente legati al contesto locale.
Per questo in città si può essere poveri senza essere esclusi, perché comunque si appartiene a un sistema di reti sociali e di meccanismi di solidarietà; viceversa si può essere esclusi senza essere poveri, anzi a volte l’essere parte dell’esclusione significa poter accedere a lavori che, per motivi diversi, altri gruppi rifiutano o, per ragioni sociali, non possono svolgere[5].
Il concetto di esclusione sociale consente anche di riflettere meglio sui legami tra fattori macroeconomici e fattori locali, quelli che si presentano al-l’interno della città, con caratteristiche specifiche in ogni città. Vi sono stretti legami tra l’esclusione legata a fattori nazionali e locali, e quella provocata dai meccanismi della globalizzazione; anzi, non di rado questa si innesta sui primi, servendosene e approfondendo disuguaglianze che già esistono (Beall, 2002).
Nella città dei pvs l’esclusione presenta essenzialmente tre dimensioni.
La popolazione esclusa da beni e servizi urbani di base come la casa, l’acqua, le fognature, i trasporti è molta: nell’Africa subsahariana due terzi della popolazione non è collegata alla rete idrica, in America Latina il fabbisogno abitativo alla fine del secolo era valutato tra i 17 e i 21 milioni di alloggi, a seconda dei criteri (Mac Donald, Simioni, 2000), mentre in Asia meno di quattro abitazioni su dieci disponevano di un qualche sistema fognario. Negli anni novanta spesso la situazione è andata peggiorando: quasi ovunque in Africa, nella maggior parte dei paesi dell’America Latina e in un numero non piccolo di quelli asiatici, compresi quelli del sudest del continente che fino alla crisi avevano visto per diverso tempo le proprie economie crescere a tassi di due cifre.
Invece, casa, infrastrutture e servizi sono componenti essenziali di quella “domanda di città” che occorre soddisfare perché sia riconosciuto davvero il “diritto alla città”, ma questa non è la condizione in cui si trova la maggior parte delle città dei pvs, in particolare quelle di grandi e medie dimensioni.
All’esclusione dai servizi urbani e da condizioni abitative adeguate[6] si accompagna la sempre maggiore difficoltà di avere un lavoro se non fisso almeno stabile, pagato adeguatamente e regolarmente, in condizioni dignitose. In qualsiasi città dei pvs è il settore informale a fornire un reddito a quote elevate della popolazione, non di rado per la maggioranza. Negli anni novanta, con la dismissione o la riduzione di molte delle attività del settore pubblico, imposte dai Programmi di aggiustamento strutturale, sono state le “microimprese” a fornire la quasi totalità di nuovi posti di lavoro: le attività informali oggi sono ormai la principale fonte di occupazione urbana nella maggior parte delle città.
La terza dimensione è quella dell’esclusione dalla rappresentanza politica e dalla presa di decisioni. Chi vive nei quartieri dell’irregolarità del suolo o della casa, in particolare quelli ai margini o fuori dalla città che spesso nemmeno appaiono nelle carte; o chi, ma non di rado si tratta delle stesse persone, lavora quando e come può nelle precarie attività dell’informale, meno instabili di quanto si sia portati a pensare ma comunque esposte ai rischi di una situazione anch’essa spesso di irregolarità, se non di illegalità: questi gruppi di popolazione difficilmente vengono riconosciuti come parte della società urbana e dunque non possono avanzare alcuna pretesa di far parte della città intesa come istituzione politica, di essere citoyens e non semplici citadins.
La città dell’esclusione
Il secondo filo conduttore è però che se la città esclude, ad escludere non è la città, ma il contesto di mercato globale in cui si collocano crescita e trasformazioni urbane.
In Argentina, dove più del 90% della popolazione è urbana, per la crisi conseguente alle politiche liberali “suggerite” dal Fondo Monetario Internazionale, nel primo semestre di quest’anno il pil è diminuito del 16%, con ovvie drammatiche conseguenze sull’occupazione e i redditi, prima di tutto quelli urbani. In Indonesia, la brusca fine del miracolo asiatico della metà degli anni novanta ha fatto diminuire il pil del 15%, ancora oggi non completamente recuperato: anche in questo caso, come in tutti gli altri paesi del sudest asiatico che hanno vissuto lo stesso processo, gli effetti sulle città sono stati devastanti, con il vero e proprio blocco di interi settori produttivi, primo fra tutti quello della costruzione, la drastica diminuzione dei consumi, l’aumento vertiginoso dei poveri urbani.
Progetti e investimenti per migliorare le condizioni di vita della popolazione urbana, in particolare quelle delle fasce più povere, dipendono in misura più o meno ampia dai flussi di risorse che vengono dall’estero: in alcuni casi si tratta dell’unica fonte su cui si può contare. Tuttavia, i programmi pubblici di aiuto allo sviluppo, finanziati dagli organismi multilaterali o dalle cooperazioni bilaterali, oltre che essere assai poca cosa[7], nella maggior parte dei casi sono instabili e imprevedibili, a volte con obiettivi discutibili. Quelli che più contano, sotto il profilo quantitativo, sono di gran lunga gli investimenti privati[8], la cui priorità è ovviamente la redditività degli investimenti, non certo la riduzione degli squilibri o una maggiore giustizia sociale.
A questo si somma la minore presenza dello Stato e la conseguente diminuzione delle sue capacità di ridurre le disuguaglianze. Liberalizzazione e privatizzazione significano quanto meno recupero dei costi, più spesso ricerca, legittima, di un profitto. Realizzare questi obiettivi lasciando da parte meccanismi di compensazione tra gruppi sociali con capacità economiche fortemente diverse, significa escludere importanti quote di popolazione dall’accesso alla casa, all’acqua, ai trasporti, al mercato del lavoro formale, cioè dal “diritto alla città”.
Le strategie urbane, e urbanistiche, costituiscono a loro volta fattore di esclusione. Gli insediamenti informali sono il risultato di politiche errate, conseguenti alla volontà di rispondere alla domanda di alloggi a basso costo attraverso l’intervento pubblico, secondo un modello consolidato nei paesi del Nord, ma del tutto inadatto a fornire un’offerta abitativa sufficiente nei pvs. La città “irregolare” è la risposta all’assenza di alternative praticabili, non la volontà o il desiderio di irregolarità dei suoi abitanti. Allo stesso modo, l’assenza o l’insufficienza di infrastrutture e servizi in molte parti della città derivano dall’adozione di standard e soluzioni tecniche incompatibili con le risorse, pubbliche e private, disponibili (Balbo, 1999).
Le attività informali per lungo tempo sono state osteggiate, pur rappresentando non solo la parte più dinamica dell’economia ma, in quanto meccanismo di redistribuzione delle risorse, anche il principale fattore di integrazione sociale e di contenimento della conflittualità. Esattamente come nel caso degli insediamenti irregolari, il problema sta nell’assenza di alternative. Nessuno ambisce a un’occupazione precaria, mal pagata, svolta in condizioni ambientali spesso al di là dell’accettabile, con il continuo rischio di essere cacciati o, se va bene, multati per i motivi più diversi.
Ad escludere non è dunque la città, ma i meccanismi del mercato globale rispetto ai quali liberalizzazione e privatizzazione sono scelte quasi obbligate che amministrazioni e attori locali hanno poche possibilità di contrastare, ammesso che lo vogliano, pur trattandosi di scelte che aggravano ulteriormente gli squilibri di una crescita urbana non poggiata su una concomitante crescita economica e dei redditi.
L’idea della città produttiva è andata sempre più prevalendo su quella della città come luogo di incontro, di mediazione e di integrazione sociale, e amministrazioni e attori locali hanno poche o nulle possibilità di contrastare tali meccanismi
Per una città più inclusiva
È indispensabile invece che la città sia, o torni a essere, “inclusiva”.
“La ‘città inclusiva’ è il luogo dove a chiunque, indipendentemente dalla condizione economica, dal genere, dall’età, dalla razza o dalla religione, è permesso partecipare produttivamente e positivamente alle opportunità che la città ha da offrire.” (Unchs, 2000).
Città produttiva e città inclusiva sono due modi di essere non facilmente conciliabili. Con il decentramento, il compito di combattere gli effetti di esclusione, è affidato ai governi locali, ma per mettere in atto strategie inclusive occorre stabilire a quale inclusione si pensa, in che termini, a vantaggio e nell’interesse di chi: alla nozione di città inclusiva si possono dare infatti significati molto diversi, traendone strategie altrettanto differenti.
L’inclusione non può ridursi all’integrazione degli insediamenti irregolari e delle attività informali nei meccanismi del mercato formale della casa, dei suoli, del lavoro. Questo significherebbe disconoscere le differenze, non ammettere che le città e le società urbane dei pvs si sviluppano in contesti istituzionali, seguendo norme sociali e secondo sistemi di valori specifici, non sempre riconducibili alla logica del mercato ormai dominante.
La lotta all’esclusione e il rafforzamento dell’inclusione richiedono politiche urbane, economiche e sociali all’interno delle quali sia chiaramente posta la questione del diritto alla città: politiche integrate in cui i temi della povertà, delle condizioni insediative, delle opportunità di reddito siano affrontati congiuntamente, come si usa dire, in maniera integrata.
Per questo occorre che i meccanismi decisionali siano anch’essi “inclusivi”. Governance e pianificazione strategica sono strumenti indispensabili di una strategia di inclusione, che non possono però essere utilizzati in un’ottica di competizione e di marketing.
L’esclusione, la frammentazione della società e dello spazio urbano sono la risposta di alcuni segmenti della popolazione di fronte all’incapacità o all’impossibilità dei governi di gestire la crescita della città e le sue trasformazioni. Gli insediamenti irregolari possono essere visti come la risposta “dal basso” all’insufficiente offerta di case a basso costo, così come la raccolta e il riciclaggio dei rifiuti possono essere considerati l’alternativa alla mancanza di un servizio pubblico, o alla sua privatizzazione.
Ma la città inclusiva non può fondarsi sulla frammentazione delle sue parti, su condizioni e funzionamenti così profondamente diversi. Per restare il luogo dell’incontro, della mescolanza e dell’integrazione delle differenze, l’unica strada percorribile sono politiche che promuovano una più equa distribuzione delle risorse, e gli attori primi di queste politiche oggi sono inevitabilmente i governi locali.
Nelle città dei pvs, dove senso di appartenenza, coesione sociale e concetto di cittadinanza risultano sempre più deboli, l’inclusività appare ogni giorno più difficile da ricostituire con gli strumenti di governo tradizionali.
Non esistono risposte univoche, ma la costruzione di un Progetto di città, che parta dalla ridefinizione dei modi della rappresentanza di gruppi e dei singoli individui sembra aprire uno spiraglio per contrastare le tendenze all’esclusione. Governance significa partecipazione e partenariato, dunque prima di tutto riconoscimento di tutti e delle differenti capacità, possibilità e aspirazioni. Urban governance significa assumere l’ipotesi della città come soggetto sociale e politico complessivo, insieme di soggetti diversi che, partecipando alla costruzione di un Progetto di città, si misurano intorno a un’idea attorno alla quale i differenti interessi si organizzano, i gruppi sociali si confrontano e si incontrano arrivando, forse, a mobilitarsi per cercare di realizzarla.
Rispetto a un’inclusione nel e di mercato, la differenza è dunque sostanziale. Governare la città e i suoi processi non può limitarsi a garantire quante più condizioni possibili per un buon funzionamento dei meccanismi dell’economia. Si tratta invece di ricomporre gli interessi dei singoli intorno a una nuova identità urbana collettiva, a un ricostituito senso di appartenenza, a una ristabilita convergenza su, e a partire da, un territorio.
Nel quadro della competizione tra città cui si trovano assoggettate anche, e forse prima di tutto, quelle dei pvs, le alternative che si danno sono ben poche: o si riesce a far parte della globalizzazione, o se ne sta fuori. Stare fuori è assai facile, spesso lo si è già. Complicato è entrarci, o semplicemente restarci, perché i posti disponibili sono pochi. È una competizione che può non piacere, ma è certo che è meglio parteciparvi che essere semplici spettatori. Nella città dei paesi in sviluppo non è possibile mobilitare le risorse necessarie (forse non sufficienti) per stare dentro alla globalizzazione, senza trovare un punto di incontro tra i diversi interessi da cui muovere per la costruzione di una città inclusiva.
Se è vero che chi vive nei quartieri irregolari o lavora nell’informale contribuisce in misura sostanziale a far funzionare la città, è tempo che la città contribuisca altrettanto sostanzialmente a migliorare le condizioni di questa popolazione, riconoscendo il suo diritto alla città e alla cittadinanza.
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[1] Il ruolo assunto da Carlos Slim, il proprietario della più importante catena di televisione messicana e una delle persone più facoltose dell’America Latina, nel recupero del centro storico di Città del Messico, è forse il caso più emblematico.
[2] Non a caso il recupero dei centri storici si traduce prima di tutto nella loro trasformazione in vetrine di negozi, ristoranti e caffè piacevolmente disseminati nei palazzi, nelle corti e nelle strade stesse.
[3] Del resto lo affermava esplicitamente il Prefeito di Salvador de Bahia, Magalhaes, cosciente del fatto che di spiagge come quelle che circondano la città, bellissime, in Brasile ve ne sono migliaia di chilometri, mentre di centri storici come il Pelourinho ve ne è uno solo, che occorreva dunque riqualificare e “risanare” dai suoi abitanti, per poterlo vendere.
[4] Vi sono ormai manifestazioni internazionali organizzate appositamente per il marketing urbano, con annessa vendita, come l’annuale Marché International des Professionnels de l’Immobilier (Mipim) di Cannes.
[5] Come la raccolta dei rifiuti, o comunque di lavori socialmente stigmatizzati, da sempre svolti da, e riservati a, particolari gruppi sociali o etnici.
[6] Questa la formula, volutamente indefinita, adottata a Istanbul nel 1996 dalla Conferenza Habitat II e da allora usata nelle sedi internazionali.
[7] L’impegno di destinare all’aiuto allo sviluppo lo 0,7% del pil è stato sempre disatteso: attualmente l’Italia destina poco più dello 0,1%, gli Stati Uniti ancora meno.
[8] Nel 1998 il rapporto tra finanziamenti pubblici per lo sviluppo e investimenti privati è stato di uno a due per i paesi a basso reddito; di uno a otto in quelli a reddito medio (World Bank, 2001).