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Francesco Erbani
La città colpita al cuore
5 Aprile 2008
Roma
Una recensione al libro di Paolo Berdini e un’intervista a Leonardo Benevolo sulla crisi dei nostri centri storici, a partire da Roma. Da la Repubblica, 5 aprile 2008 (m.p.g.)

La città colpita al cuore

I centri storici delle città si svuotano, perdono residenti. Svaniscono attività che hanno sempre ospitato - gli artigiani, i negozi di alimentari, le farmacie, gli asili nido. E sbarcano uffici, banche e soprattutto turisti, il cui sciamare domina il paesaggio urbano di Firenze e di Siena, di Venezia e di Roma, di Pienza e di San Gimignano. Dilagano alberghi e bed & breakfast, pizzerie a taglio, tavolini all’aperto e gelaterie, che alterano luci e colori, ma avviano anche un degrado fisico che potrebbe sfigurare la stessa risorsa sulla quale il turismo prospera, essendo i centri storici il fulcro di quel museo all’aperto che l’Italia può vantare.

Il fenomeno è di lunga durata e si intreccia con il modo in cui sono cresciute le città. La città in vendita di Paolo Berdini (Donzelli, pagg. 187, euro 25), urbanista, professore a Roma Tor Vergata, racconta le vicende di questo abbandono, riferendosi in particolare alla capitale, la cui emorragia di residenti Berdini segue dal 1951 a oggi, cercandone le cause e discutendo le politiche attuate per contrastarla o registrando quanto questo esodo, come tante trasformazioni urbane, sia governato prevalentemente dal mercato. Un centro storico vuoto di residenti, segnala Berdini, si riduce a un prezioso involucro senza vita, affogato dalle auto che scaricano chi raggiunge uffici e studi professionali, assediato dai pullman di turisti, dai furgoni che riforniscono un commercio sempre più a misura del turismo stesso. Il centro storico è diventato il cuore malato di un organismo affaticato, la città nel suo complesso.

I numeri danno noia, ma rendono l’idea. E molti numeri indica Vittorio Emiliani nell’introduzione al libro. A Urbino, capolavoro dell’urbanistica rinascimentale, gli abitanti del centro storico sono calati, da sessant’anni in qua, dell’86 per cento. Nel quartiere del Duomo risiedevano 350 persone. Ora sono 16. Al loro posto si è insediata una popolazione di studenti universitari, che fino a un certo limite fa benissimo a una città antica, oltre quel limite rischia di soffocarla. A Venezia erano 164 mila i residenti, ora sono meno di 60 mila (qui non ci sono macchine, ma 12 milioni di turisti ogni anno). A Firenze la superficie di centro storico destinata ad abitazione era il 30 per cento del totale nel 1987, ora si è ridotta al 10.

Ma torniamo a Roma. Nel 1951 risiedevano entro la cinta delle Mura Aureliane 370 mila persone. Oggi sono meno di 100 mila. Sempre nel 1951 Roma era edificata su 6 mila ettari e ospitava 1 milione 600 mila abitanti. Ora gli abitanti sono 2 milioni e mezzo, il 60 per cento in più, ma la città si spalma su 45 mila ettari, sette volte la superficie di allora, e, se verranno realizzate le previsioni del nuovo Piano regolatore, fra pochi anni occuperà 60 mila ettari. La domanda di mobilità in un organismo che prende questa forma aumenta vistosamente. Se ci sono molte metropolitane il danno è contenuto. Altrimenti il problema è drammatico. E la spia è in un altro numero: nella capitale circolano 89 auto ogni 100 abitanti, con conseguenze spaventose sull’inquinamento atmosferico, una cifra di molto superiore a quella media italiana (72 ogni 100), doppia rispetto a Madrid (46).

Nel dopoguerra, racconta Berdini, il centro di Roma era sovraffollato, molte persone abitavano ai piani terra o in seminterrati. Era salutare un diradamento. Poi, fra il 1951 e il 1971, si sono impetuosamente dilatati il settore terziario e quello politico-amministrativo. E l’esodo di residenti si è impennato. Nell’area fra piazza del Popolo, via del Babuino, via del Corso e via di Ripetta, i residenti calano del 65 per cento (da 100 mila diventano 37 mila). Nella zona di piazza Fiume va via il 59 per cento degli abitanti (da 15 mila a 6 mila). Dall’Esquilino il 50 per cento (da 62 mila a 31 mila).

La città della politica e della burocrazia occupa ogni spazio. I prezzi schizzano in alto e dal centro storico vengono scacciati i residenti economicamente più deboli. Nei primi anni Sessanta il problema viene posto con urgenza. Nasce l’idea di spostare fuori dal centro storico molte attività incompatibili con i tracciati barocchi, con i reticoli di strade che risalgono al primo Rinascimento. Si immagina che Roma, come altre capitali, possa avere il suo centro direzionale e che la città contemporanea cresca affiancandosi a quella antica, non deturpandola (il progetto, però, resterà lettera morta).

Contemporaneamente in tutta Italia si sviluppano le competenze. A Gubbio, nel 1960, si mette a punto un decalogo per tutelare i centri storici nella loro interezza - con le strade, gli allineamenti dei palazzi, i materiali costruttivi - e di non concentrarsi sugli edifici monumentali. Gli effetti di queste innovazioni si fanno sentire in molte città, si specializzano i saperi e, secondo Leonardo Benevolo, queste conoscenze sono fra i vanti che l’architettura italiana può esibire sulla scena internazionale. L’integrità fisica dei centri storici italiani può dirsi relativamente al riparo dalle picconate che li avevano sventrati durante il fascismo e negli anni Cinquanta. Ma per continuare a vivere non basta che restino in piedi le mura.

A Roma l’esodo prosegue anche dopo il 1971, sebbene più lentamente. Secondo i dati di Berdini, sono investiti altri quartieri - Borgo, Campo Marzio, Monti, Castro Pretorio. «Ormai solo a Testaccio, Aventino e San Saba il calo della popolazione è inferiore al 60 per cento. Altrove ci si attesta sopra il 70». Nell’estate del 2006, stando alle rilevazioni di una società immobiliare, un appartamento di lusso nel centro storico vale 25 mila euro al metro quadro. Nonostante alcuni tentativi (il restauro di Tor di Nona, per esempio), la rotta non è stata invertita. Riportare residenti nei centri storici, scrive Berdini, ricostituirebbe quella complessità fatta di ceti diversi che li rende vitali. Ma un’operazione di questo genere si scontra con la preponderanza delle leggi di mercato.

«Città e paesaggio sono ridotti a fattore economico», annota Berdini. «È vero che sono anche questo: è stata l’industria a consentire lo sviluppo delle città moderne. Ma esse hanno saputo coniugare la produzione con altre funzioni, che non avevano utilizzazione economica». Oggi, invece, «le prerogative collettive che il liberalismo classico aveva attribuito alla sfera pubblica sono trasferite al comparto privato». In altri paesi europei «vige un sistema di regole che programma gli interventi». In Italia «queste regole sono state in gran parte cancellate, e con esse la stessa urbanistica». Gli appartamenti di un centro storico sono riservati a pochi, il commercio è orientato a soddisfare i turisti, si progettano parcheggi, si vendono ospedali, stazioni ferroviarie, conventi e altri edifici monumentali per farne hotel (nel solo centro antico di Roma, esclusi i bed & breakfast che lavorano in nero, si contano 43 mila posti letto alberghieri, poco meno di metà di tutti i residenti). Il fenomeno pare inarrestabile e, sebbene fisicamente intatti, i nuclei antichi delle città rischiano di perdere l’anima.

Benevolo: "Che cosa fare per salvarli"

Per Leonardo Benevolo, storico dell’architettura, uno dei padri dell’urbanistica in Italia, l’espressione "centri storici" non è convincente. Non rende bene «la natura originaria di città complete e autonome». È una definizione contraddittoria che sfigura il loro equilibrio. Nella città che è continuamente soggetta a trasformazione, e che deve assumere una forma policentrica, aggiunge Benevolo, la "città antica" è uno dei suoi centri e va protetta da tutte «le attività micidiali per la sua conservazione».

Quali sono i principali pericoli?

«La rete di strade deve essere protetta dalle macchine. Questo è un punto delicatissimo. Ma altri se ne possono indicare».

L’eccessiva pressione turistica?

«Direi di sì. Il turismo si può organizzare, indirizzandolo sulle città antiche, ma anche sui paesaggi. In un sistema così concepito il turismo è una risorsa da non sprecare. Ma non può diventare un’attività preponderante: è come se in un appartamento la camera più bella fosse quella per gli ospiti».

Si deve mantenere una proporzione fra abitanti e turisti.

«Tranne Roma, le città di cui parliamo sono abitate in media da alcune decine di migliaia di persone. Se sono frequentate da masse imponenti di visitatori rischiano di soccombere».

Qualcuno indica anche il pericolo che potrebbe derivare dai troppi studenti universitari.

«In qualche caso questo pericolo è evidente. Urbino è al limite della sopravvivenza. L’università è troppo grande e la città troppo piccola. Non si sa più se la città ha gli strumenti necessari al suo funzionamento. O se i suoi servizi sono commisurati all’università».

Ma le università sono in sé stesse un rischio per i centri storici?

«Assolutamente no. Possono essere una fonte di ricchezza. A Oxford o a Cambridge il rapporto fra università e organismo urbano funziona bene».

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