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Giorgio Nebbia
La casa e il furore
24 Dicembre 2013
Giorgio Nebbia
Da duemila anni, di questi giorni, ci viene ricordata la storia di una donna incinta ...>>>
Da duemila anni, di questi giorni, ci viene ricordata la storia di una donna incinta ...>>>
Da duemila anni, di questi giorni, ci viene ricordata la storia di una donna incinta che cerca un posto in cui poter partorire, ma deve rifugiarsi in una grotta “perché non c’era posto per lei nell’albergo”. E’ un racconto di ieri e di oggi; ancora oggi nel mondo milioni di donne partoriscono e vivono in grotte o baracche o tende, perché non c’è altro posto per loro.
I governanti e le agenzie delle Nazioni Unite ripetono instancabilmente che la casa è uno dei diritti e dei “beni” umani fondamentali, insieme al cibo, all’acqua, alla salute e all’istruzione. Ma niente viene fatto per rispettare tale diritto nei paesi sottosviluppati e poveri, ma neanche nei paesi opulenti. Ogni tanto i telegiornali fanno vedere “le grotte” dei nostri giorni, le misere condizioni, spesso inumane, in cui vivono donne e uomini e bambini, anche nella civilissima Italia, nella civilissima Europa.
Eppure il problema può essere risolto con azioni politiche, economiche e tecniche. Non è tollerabile che, nel mondo, esista una piccola minoranza che possiede ville e ricchi appartamenti, magari negli svettanti grattacieli ultramoderni, e una folla di persone che cerca invano una casa e deve accontentarsi “di una grotta”. Una parabola di queste iniquità si trova nel romanzo di John Steinbeck, “Furore”, che racconta le disavventure dei contadini poveri nell’America degli anni trenta del Novecento, espulsi dai loro campi dall’avidità delle banche e dei proprietari terrieri. Una di queste famiglie affronta la “statale 66” per raggiungere la California dove “dicono” che c’è lavoro per tutti. La statale 66 è stata, per milioni di americani in quegli anni, una strada della speranza, come oggi il Mediterraneo per i migranti che cercano lavoro in Europa, il deserto verso il Mediterraneo per i migranti africani e asiatici.
E come questi migranti di oggi, anche la famiglia Joad incontra ostilità, rigetto, “caporali” che sfruttano il loro lavoro di raccoglitori di agrumi. Fino a quando raggiungono un campo predisposto dal Ministero dell’Agricoltura in cui questi migranti trovano una casetta, acqua corrente, gabinetti, decenti e un salario accettabile, pagato dallo stato. Con l’aperta ostilità dei grandi proprietari terrieri verso un governo che spendeva denaro pubblico per alleviare le condizioni di vita dei poveri sottraendoli allo sfruttamento. Nel Novecento, negli anni trenta della grande crisi, il presidente americano Roosevelt investì grandi quantità di soldi pubblici per assicurare un rifugio e un lavoro ai contadini poveri e incoraggiò anche la creazione di cooperative di edilizia popolare a prestiti agevolati, con l’aperta ostilità delle banche. Altra storia raccontata nel film di Ford. “La vita è meravigliosa”.
Nella breve stagione del centro sinistra anche in Italia furono finanziati con denaro pubblico gli interventi di edilizia popolare. Per il coraggioso progetto di dare la casa a chi ne è privo o vive in condizioni disumane, ci vogliono soldi da trarre da una politica finanziaria capace di distribuire secondo maggiore equità il denaro in circolazione, proprio quello che nessuna politica sembra intenzionata a fare. Ne deriva una ondata di “furore” da parte di coloro che chiedono casa e lavoro, come quelli che sono andati domenica scorsa in piazza San Pietro a Roma a sventolare davanti al Papa uno striscione con la scritta: ”I poveri non possono attendere”.
D’altra parte un progetto di edilizia capace di assicurare una casa a chi ne è privo, metterebbe in moto un settore economico in crisi, e la richiesta di una diversa edilizia avrebbe effetti positivi anche dal punto di vista ambientale. Non è infatti possibile continuare a costruire come si è fatto finora, con la conseguenza di un crescente numero di nuove abitazioni che restano invendute o non affittate dopo aver “consumato” inutilmente crescenti estensioni di suolo. Oggi ci sono tecnologie e conoscenze che permetterebbero di costruire case con i servizi essenziali, con minore consumo di materiali e di energia, con sistemi razionali di distribuzione dell’acqua e di gabinetti e fognature. Di costruire case con una diversa diffusione nel territorio evitando o diminuendo l’inquinamento dell’aria, che costringe i sindaci a vietare l’accesso nelle città, curando che le fogne non esplodano e che l’acqua sporca non invada le strade e le case.
A mio modesto parere, la crisi giovanile dipende anche dalla mancanza di una “visione”, di un progetto di città e di tecnologia nel quale la casa e il lavoro abbiano un ruolo centrale. Negli anni sessanta del Novecento la contestazione giovanile nacque, prima in America e poi da noi, proprio dall’aspirazione ad una nuova urbanistica; si leggevano i libri di Patrick Geddes e di Lewis Mumford che avevano ispirato Roosevelt trent’anni prima. L’economia non è soltanto soldi e bilanci ma è (sarebbe) anche moralità e solidarietà.

Nel libro “Furore”, prima citato, uno dei personaggi è una donna incinta e senza casa, come Maria duemila anni prima; Rosa Joad però perde il figlio e alla fine del romanzo offre il latte, ormai inutile, del suo seno ad un vecchio affamato che sta morendo: c’è più cristianesimo (e magari anche socialismo) in quelle pagine che in mille trattati di sociologia. Propongo che la lettura di “Furore” di Steinbeck, sia obbligatoria per quelli che aspirano ad essere eletti in qualche carica pubblica.
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