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Fabio Tonacci
La battaglia delle bancarelle “Via da piazze e monumenti”
7 Novembre 2012
Beni culturali
Un intervento del ministero dei Beni Culturali sulle attività commerciali legate agli spazi storico-monumentali provoca subbuglio, quanto giustificato?
La Repubblica, 7 novembre 2012, postilla (f.b.)

ROMA — Via le bancarelle da Ponte di Rialto a Venezia, legittime o abusive che siano. Via i camion bar dal Colosseo, centurioni compresi, via i banchi del mercato di San Lorenzo a Firenze che asfissiano la basilica e nascondono le Cappelle medicee, via i tavolini e i dehor di via Toledo a Napoli. E già che ci siamo sloggino pure gli ‘gnuri’, le carrozze con cavallo di Palermo, “odorosa” presenza fissa davanti al Teatro Massimo. Via tutto, l’operazione “piazza pulita” del ministro Lorenzo Ornaghi non risparmierà nessuno.

Se anche solo un quarto della direttiva appena emanata dal ministero per i Beni culturali sarà realizzato, le città d’arte cambieranno faccia e i monumenti “respireranno”. L’obiettivo del provvedimento è «contrastare l’esercizio di qualsiasi attività commerciale e artigianale su aree pubbliche di particolare valore archeologico, storico e artistico, non compatibile con la tutela del decoro ». Aggiungendo all’elenco anche le strade, le piazze e gli spazi urbani pubblici realizzati da oltre settant’anni. In pratica, tutti i centri storici d’Italia.

Attenzione, non si tratta di una direttiva che riguarda solo venditori abusivi di chincaglieria varia e i titolari di bar e ristoranti che piazzano tavolini dove vogliono. È indirizzata anche a chi ha concessioni storiche («non danno mai luogo a diritti intangibili», scrive il ministro) o regolare permesso per l’occupazione di suolo pubblico. Se le direzioni regionali del Mibac, sentite le soprintendenze, riterranno quelle attività lesive della bellezza artistica della zona, perché antiestetiche o «pregiudicanti la visuale dei beni vincolati», inviteranno gli enti locali a prendere provvedimenti per chiuderle o, nel caso dei mercati, per spostarle. Perché «la tutela del patrimonio culturale è preminente agli interessi privati». Già da tempo alcuni comuni hanno messo divieti a salvaguardia del decoro. Per esempio l’ordinanza di Milano “anti-movida” per la chiusura dei dehor alle 23. E a Roma ieri sono stati presentati i nuovi minibus color crema per i venditori di gelati, con un look più “integrabile alle aree di pregio”.

Ma appena il sindaco Alemanno ha provato a ridisegnare gli spazi concessi a bar, ristoranti e locali nelle “cartoline” della città, subito si è sentito aria di serrata. La profezia è facile, succederà anche con la direttiva Ornaghi. Giacomo Errico, presidente Fiva (ambu-lanti) della Confcommercio non ci gira intorno: «È una follia — dice — un tentativo maldestro di uccidere i mercatini, con l’unico risultato di favorire abusivi e grandi marchi. Se Ornaghi pensa che ci adegueremo, si sbaglia. Sentirà la nostra protesta. Come nel 1995, quando in 80 mila andammo a Roma per l’aumento della Tosap». E però oggi per vedere la basilica di San Lorenzo a Firenze tocca salire sui tendoni delle bancarelle, e non si riesce quasi a fotografare il Castello Sforzesco di Milano senza immortalare anche un venditore di gelati. «Ma chi lo dice che siamo troppi? — sbotta Errico — Roma ha 2 milioni di turisti al giorno, spostare gli ambulanti in periferia significa ucciderli».

C’è anche chi prova a stimare il danno economico. «Perderemo la metà dei 26 miliardi attuali di introito — dice Mauro Bussoni, vice direttore generale di Confesercenti — 200 mila persone rischiano di perdere il posto. Il ministro ha perso il cervello». I “tavolini selvaggi”, però, non sono un’invenzione. «Le autorizzazioni le danno i Comuni — chiosa Bussoni — possibile che oggi il problema del nostro patrimonio artistico siano i commercianti?».

Postilla
Al solito, sarebbe utile vedere (come probabilmente già sa chi è coinvolto) i particolari delle intenzioni ministeriali, e come si mescolano ai poteri degli altri livelli di governo coinvolto. Quello che è certo, è che così come posta dall’articolo la questione rischia di cadere nel trito calderone degli interessi di bottega contro altri contrastanti interessi di bottega. Che immagine di città ne esce? Da un lato la cosiddetta vitalità economica locale e spontanea, che dà vita a quartieri e monumenti, evoca certe foto Alinari con gli atri muscosi e i fori cadenti che l’iniziativa modesta dei commercianti trasforma in polmoni di vita urbana, in qualche modo contribuendo alla loro grandezza. Ma l’uso vuol dire usura, e allora interviene l’altra idea più aulica di città, quella che immagina un mondo bellissimo modellato sulle sublimi vedute dei quadri di De Chirico, o di certi affascinanti plastici sfornati dagli studi di architettura o restauro. Spazi dove ci si muove con il rispetto dovuto al valore culturale, simbolico, e perché no anche sociale degli ambiti e degli oggetti che li compongono. Peccato che da questa specie di contrapposizione dialettica manchi il contenitore sociale per eccellenza, ovvero la città che la società abita: tutta, non i vasi incomunicanti della segregazione funzionale che tanti danni ha già fatto e continua a fare ovunque. La domanda da porsi forse sarebbe: sino a che punto possono convivere la conservazione e la valorizzazione (non quella puramente mercificata naturalmente) di alcune porzioni urbane, con il tipo di vitalità che trasforma dei potenziali cimiteri in poli di vitalità e interazione, stimolando nuove idee, inseriti nel contesto, tali da produrre identità e rispetto per nulla timoroso da parte di tutti i cittadini? L’alternativa, guerra fra botteghe a parte, è una specie di mosaico fatto da gated communities che si guardano in cagnesco l’una con l’altra, da sopra le recinzioni fisiche o elettroniche, in uno scenario che magari non ricorda più certo degrado commerciale da improvvisazione, ma di sicuro non ha nulla a che vedere con la città, storica o non storica che sia (f.b.)

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