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Francesco Erbani
La battaglia degli architetti per tutelare il secolo breve
20 Luglio 2011
Beni culturali
Importante tutelare il patrimonio culturale che ci lasciano i progettisti moderni, ma forse andrebbe sottolineata anche la funzione sociale-urbana dei loro segni. La Repubblica, 20 luglio 2011, con postilla (f.b.)

Il campanello d’allarme è suonato scrutando quella norma nel Decreto sviluppo. Un piccolo comma che fa slittare da cinquanta a settant’anni l’età che deve avere un edificio per essere meritevole di tutela. Vent’anni di più. Che lasciano senza protezione molto di ciò che l’architettura italiana ha realizzato fra il 1941 e il 1961: Pier Luigi Nervi, Franco Albini, Ignazio Gardella, Carlo Scarpa, Lodovico Belgiojoso, Enrico Peressutti, Ernesto Nathan Rogers, Piero Bottoni, Ludovico Quaroni, Mario Ridolfi e altri ancora. L’allarme ha destato più profonde preoccupazioni: è a rischio tanta parte dell’architettura di tutto il Novecento. «Secolo fragile», concordano gli storici dell’architettura Carlo Olmo e Piero Ostilio Rossi. Dominato da un materiale friabile come il cemento armato, insiste Franco Purini, professore a Roma e progettista. Un secolo, ricorda Purini, inaugurato dalla profezia del futurista Edoardo Sant’Elia: ogni generazione costruirà la propria casa.

Un Novecento oggetto di consumo, dunque, affetto da una forma di minorità che deriva per paradosso dall’essere molto familiare. Sembra che su di esso non si sia depositata una sufficiente quantità di storia e di attenzioni culturali che rendono invece automatica la salvaguardia di un edificio del Trecento e del Quattrocento. Eppure, spiega Olmo, professore a Torino e direttore de Il giornale dell’architettura, «se si lasciano deperire i quartieri di edilizia pubblica sorti dopo la guerra, gli stabilimenti industriali ora dismessi, gli insediamenti organizzati intorno al lavoro, è in discussione una parte essenziale delle nostre città».

La buona architettura del Novecento rischia di essere inghiottita nella massa di costruzioni che ingombrano la scena delle nostre città, dove si stima che i nove decimi dell’edificato risalgano al dopoguerra (Roma era costruita su sei ettari fino al 1951, ora si espande su cinquanta e oltre) e la cui qualità è giudicata pessima. Ma quali sono i morbi che affliggono quelle architetture? Alessandra Vittorini, che al ministero per i Beni culturali cura un catalogo dei migliori prodotti novecenteschi (circa duemila edifici dal 1945 in poi, trecento dei quali eccellenti), indica soprattutto il loro cattivo uso: «Non si distingue fra un palazzo di speculazione e una palazzina di pregio: gli interventi su infissi e intonaci, gli adeguamenti per sicurezza o isolamento termico possono essere compiuti con uguale trasandatezza, badando a risparmiare più che a mantenere leggibili i tratti architettonici».

D’altronde un manufatto, anche prezioso, che ha cinquanta o settant’anni, è vissuto, abitato, calpestato - ed è nell’essere usato e non musealizzato la sua ragion d’essere.

A Roma destarono impressione, anni fa, gli interventi sulla palazzina Furmanik di Mario De Renzi, il cui intonaco è stato stravolto e dalle cui balconate sono sparite le persiane scorrevoli. Ma si è arrivati anche alle demolizioni: il Velodromo, delicato impianto realizzato per le Olimpiadi del 1960 da Cesare Ligini, è stato abbattuto e rase al suolo finiranno anche le torri di Ligini all’Eur di Roma: operazioni "ingiustificabili", dice Purini: «l’Eur è un riferimento per l’architettura di tutto il mondo, non può finire preda di speculazione». Altri emblemi del Novecento romano sono in pericolo: lo stadio Flaminio e il Palazzetto dello Sport, entrambi opera di Nervi ed entrambi oggetto di piani di ampliamento che, denunciano in molti, li snaturerebbero (ma per lo stadio, grazie all’intervento di Renzo Piano, si fa avanti l’idea di una struttura smontabile).

A Pozzuoli, vicino a Napoli, la fabbrica Olivetti realizzata da Luigi Cosenza, Marcello Nizzoli e Pietro Porcinai e raccontata da Ottiero Ottieri in Donnarumma all’assalto, è stata venduta e i molti proprietari hanno diviso gli interni, abbassato le altezze e costruito soppalchi. Manomissioni vengono denunciate a Ivrea, dove il settanta per cento di tutto il costruito si deve alle idee comunitarie di Adriano Olivetti, ma dove almeno vigila, sensibilizzando gli utenti, la Fondazione intitolata al grande imprenditore-intellettuale. «L’enorme spazio delle Officine di Luigi Figini e Gino Pollini è stato diviso per ricavarne piccoli box», racconta Patrizia Bonifazio, che per conto della Fondazione segue il patrimonio di Ivrea. «La mensa di Gardella è diventata un call center e sono stati smantellati gli impianti di areazione che avevano un grande impatto formale».

In un appello promosso da Gino Famiglietti, direttore regionale dei Beni culturali in Molise, e firmato da migliaia di persone, viene allegato un elenco di opere di proprietà pubblica o ecclesiastica che, con la tutela spostata da cinquanta a settant’anni, potrebbero essere vendute o alterate: il Salone per le Esposizioni e il Palazzo del lavoro di Nervi a Torino; la chiesa della Sacra Famiglia di Quaroni a Genova; il Padiglione d’arte contemporanea di Gardella a Milano.

Ma nella lista figurano anche quartieri di edilizia popolare, il QT8 di Milano (Piero Bottoni, Vico Magistretti, Giancarlo De Carlo, Marco Zanuso), la Falchera di Torino (Giovanni Astengo), il Borgo La Martella di Matera, voluto da Olivetti e progettato da Quaroni.

Italia Nostra si è mobilitata. La conoscenza, si sente dire, può valere persino più dei vincoli, perché sensibilizza chi quelle architetture le vive. L’associazione Docomomo scheda con cura le opere per le Olimpiadi del 1960 e segnala gli edifici meritevoli di protezione a L’Aquila. «Può bastare una piccola targa accanto al portone, come si fa in Francia», ricorda Alessandra Vittorini, «per sapere di abitare in un palazzo che ha qualità architettonica». Marco Dezzi Bardeschi, architetto e professore al Politecnico di Milano, ha raccolto nella mostra "Salvaguardare l’architettura contemporanea a rischio" casi emblematici di abbandono: il Foro Boario di Giuseppe Davanzo a Padova (1965), l’Istituto Marchiondi di Baggio (Vittoriano Vigano, 1957), la Villa Saracena progettata da Luigi Moretti a Santa Marinella.

«L’architettura del Novecento dura programmaticamente poco», dice Purini. «Questo vale per Ville Savoy di Le Corbusier, che è costantemente in restauro, e per i Grand Ensemble, i giganteschi complessi francesi o dell’ex Urss, per i quali è stato necessario intervenire per dare solidità a posteriori». Ma come agire correttamente? Tanti citano un caso virtuoso, il restauro del grattacielo Pirelli di Gio Ponti a Milano, dopo l’incidente provocato nel 2002 da un aereo. A Roma esiste una Carta per la qualità curata da un gruppo guidato da Piero Ostilio Rossi, storico dell’architettura alla Sapienza (milletrecento edifici dall’inizio del secolo indicati come meritevoli di tutela). Il documento fa parte del Piano regolatore, fissa criteri per intervenire, ma resta lettera morta. «Per il passato basta una data a segnalare come pregiata un’architettura», spiega Rossi, «ma per il Novecento non si riesce a dar vita a giudizi di valore condivisi».

Più ci si avvicina alla contemporaneità, più la percezione estetica si fa debole. Ma oltre le questioni propriamente culturali, le malversazioni si moltiplicano. Quella subìta dal Memoriale per gli italiani caduti nei lager nazisti, per esempio, un’opera che nel 1980 vide la collaborazione dell’architetto Belgiojoso, del pittore Mario Samonà, dello scrittore Primo Levi e del musicista Luigi Nono. La struttura, voluta dall’Associazione ex deportati e allestita nella baracca 21 di Auschwitz, consiste in un percorso a spirale, rivestito all’interno da una serie di illustrazioni. È un’opera d’architettura e d’arte, la cui visita era accompagnata dal brano di Nono, Ricorda cosa ti hanno fatto in Auschwitz. Il memoriale è in condizioni precarie, avrebbe bisogno di restauri: ma su di esso incombe addirittura la minaccia di demolizione.

postilla

Anche nell’articolo, fortemente improntato ad una logica conservazionista, si cita la necessità di “non musealizzare” le opere degli architetti del ‘900. Ecco: basta essere coerenti con questo assunto per fare il passo successivo, ovvero che da tutelare, e in modo attivo, c’è l’idea di città alle spalle delle singole opere. Un percorso che del resto è già stato compiuto ad esempio nella tutela dei centri storici o degli edifici di interesse monumentale in area non urbana, almeno in teoria. E che proprio dai lavori di almeno due generazioni di progettisti emerge evidente, ovvero la capacità di immaginare e suggerire contesti spaziali assai più ampi di quelli direttamente interessati dalle realizzazioni.

Non a caso si parla di esperienze a cavallo fra l’emergere della cosiddetta figura di architetto integrale (che comprende sia l’urbanista, che il progettista, che il designer e il critico) e la transizione verso la successiva riorganizzazione, secondo molti in negativo, e l’emergere delle figure attuali, archistar o comunque più fortemente improntate a un approccio individualista.

Il che non significa ovviamente musealizzare intere aree metropolitane: la “morte dell’architettura moderna” in questo senso è stata ufficialmente sancita a livello internazionale già negli anni ’70. Ma sicuramente recuperare il meglio delle suggestioni urbane di queste generazioni di architetti, andando se non altro oltre la pura logica del restauro e/o del “diradamento edilizio” di buona memoria (f.b.)

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