Corriere del Veneto, 31 maggio 2017 (m.p.r.)
Padova, Avrebbero accettato qualsiasi cosa. Avevano bisogno di quel lavoro da magazzinieri nei locali dell’Interporto di Padova che avrebbe permesso loro di sopravvivere e garantito il permesso di soggiorno. E così centinaia di stranieri, provenienti per lo più dal Bangladesh, non hanno mai rifiutato le condizioni, a tratti disumane, imposte loro da chi, per almeno due anni, ha gestito una vera organizzazione di caporalato, la prima accertata in Veneto in un settore diverso da quello agricolo.
Vera eminenza grigia era Floriano Pomaro, 52 anni, originario di Lendinara e da anni a Padova, un nome conosciuto nel polo della logistica padovana, e da ieri agli arresti al Due Palazzi. Ad aiutarlo, Riccardo Bellotto e Mario Zecchinato, entrambi padovani ed entrambi ai domiciliari. Per loro le accuse arrivate al termine di un’indagine condotta dalla Digos e dalle Mobile e coordinate dal procuratore capo Matteo Stuccilli, dall’aggiunto Valeria Sanzari e dal sostituto procuratore Federica Baccaglini, sono a vario titolo di caporalato e riciclaggio.
È così emerso il capo indiscusso del sistema, Pomaro, già implicato in passato per frode fiscale in inchieste che hanno coinvolto diverse aziende della logistica padovana. Attraverso prestanome, Pomaro avrebbe costituito cooperative ad hoc. Era lui a gestire tutta l’organizzazione. Un sistema che si occupava di ogni fase: dal reclutamento dei lavoratori all’estero, soprattutto dal Bangladesh («Sono quelli più malleabili», si sente dire nelle intercettazioni ambientali), alla loro assunzione. Gli aspiranti dipendenti, per essere assunti, versavano mille euro. Una volta arrivati in Italia, accettavano un contratto di tre mesi e firmavano le dimissioni in bianco. Scaduto il primo periodo, poi, pagavano altri 500 euro per un rinnovo. E così andavano avanti, di scadenza in scadenza, sempre in pugno di Pomaro e soci.
Figuravano come dipendenti part time, anche se le ore di lavoro erano decine nell’arco di una settimana. Parte dei loro compensi figuravano come «indennità di missione», vale a dire rimborso spese: uno stratagemma per abbassare le tasse e che permetteva un risparmio da centinaia di migliaia di euro.
A dare una parvenza di legalità era Riccardo Bellotto, classe 1981, il contabile del gruppo. Era lui a occuparsi dei contratti e che procurava agli stranieri il tanto agognato permesso di soggiorno. I dipendenti, inoltre, erano costretti ad aprire un conto corrente nel quale ricevere lo stipendio. Le credenziali dei conti, però, erano gestite da Mario Zecchinato, 62 anni e un’accusa alle spalle per favoreggiamento della prostituzione. Una volta versato lo stipendio, Zecchinato si occupava di prelevarne il 30 per cento, una cifra che tornava nelle tasche dell’organizzazione.
Impossibile, per gli stranieri, ribellarsi, o aderire a scioperi. Qualsiasi tentativo di protesta poteva essere pretesto per il mancato rinnovo, il che comportava la perdita del permesso di soggiorno. «Dobbiamo renderli ricattabili», si dicevano i tre indagati. E così hanno fatto.
Oggi Pomaro sarà interrogato dal gip Domenica Gambardella, mentre domani sarà il turno di Belotto e Zecchinato. L’inchiesta, però, non è finita qui. Se per ora nel mirino del gip sono finiti gli organizzatori del caporalato, non si escludono sviluppi che possano coinvolgere altre persone. Nell’ottobre scorso, infatti, è cambiata la legge sul caporalato, rendendo perseguibile anche il datore di lavoro. L’operazione, quindi, procede.