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Marta Fana e Simone Fana
La banalissima propaganda di Confindustria sulle riforme
5 Luglio 2016
Critica
«Uno studio catastrofista e privo di metodo scientifico sui presunti effetti del no al referendum costituzionale di ottobre rivela sogni e paure dei padroni italiani».

Il manifesto, 5 luglio 2016 (p.d.)

Confindustria affila le armi in vista del referendum costituzionale di ottobre e, dopo la dichiarazione di sostegno alla riforma, pubblica le ricadute negative di una possibile vittoria del No sull’economia.
Nessun riferimento a uno studio che le sostenga, numeri un po’ a casaccio verrebbe da dire.

A leggere le slide (sic) del Centro Studi di Confindustria, la vittoria del no provocherebbe in tre anni: una riduzione del Pil dell’ 1,7%, un crollo degli investimenti del 12,1%, un aumento di 430 mila poveri e un calo degli occupati di 289mila unità. Una presa di posizione che pare contraddire un primo principio di realtà: il Jobs Act, il pareggio di bilancio, le politiche fiscali a sostegno delle imprese sono state perseguite dentro un quadro istituzionale, quello attuale, che improvvisamente diviene un intoppo per il consolidamento dei benefici, legati alle suddette riforme. Dalle stime di Confindustria non è chiaro quali siano non tanto i nessi causali, impossibili da determinare ex ante, quanto le associazioni tra le variabili studiate.

I numeri presentati esulano da qualsiasi valenza «scientifica» a tal punto che non è neppure chiaro se tali effetti siano dovuti al calo di fiducia delle famiglie oppure alla evocata fuga di capitali supposta in caso di vittoria del No oppure alla somma tra i due effetti. Sarebbe utile capire in che misura l’abolizione del senato elettivo, la riduzione dei tempi di discussione parlamentare, l’accentramento delle competenze statali e la conseguente perdita di autonomia delle regioni possano incidere sulla crescita del paese. Interrogativi che non trovano una risposta nelle stime catastrofiste che l’associazione degli industriali consegna al dibattito pubblico.

E, in mancanza di un’indicazione di merito, il sospetto che l’obiettivo di Confindustria non sia quello di approfondire i contenuti della riforma, ma di confondere le acque e inquinare la discussione per difendere un rapporto organico con l’esecutivo appare tutt’altro che infondato.

D’altronde il primato dell’esecutivo sul legislativo, la predominanza del governo sul Parlamento, rispondono ad una torsione «governista» del sistema istituzionale, che renderebbe più semplice al blocco industriale rendere immediatamente «esecutive» le proprie direttive. L’accento sugli effetti negativi del No sulla stabilità del sistema politico italiano alludono ad una concezione ancillare delle istituzioni democratiche rispetto alle esigenze dei mercati.

A carte scoperte Confindustria ribadisce che l’utilità delle riforme va letta in funzione degli interessi che essa rappresenta. Inoltre, l’organizzazione padronale palesa anche la propria posizione a tutela delle prerogative di un «capitalismo straccione», come ebbe a definirlo Gramsci. Si nota infatti che in nessun discorso si punta sulla rilevanza degli investimenti ai fini di una maggiore crescita, né quali investimenti, se non per dire che diminuiranno.

Ma gli investimenti privati diminuiscono ormai da altre un decennio e le riforme strutturali tanto agognate hanno solo mosso qualche micro decimale, a dimostrazione che il tessuto imprenditoriale italiano non ne è interessato.

L’allarmismo dei Confindustriali si presenta più come una minaccia, tutta politica, che come meccanismo economico. Inoltre, il richiamo alla stabilità del quadro istituzionale è in sé ambigua, se non collegata agli esiti che pone sull’azione di governo e sulla qualità della discussione politica. Avere un esecutivo più forte e meno vincolato alla dialettica parlamentare può avere effetti negativi sull’azione di governo, indebolendo la discussione politica, il confronto e il conflitto nel merito delle proposte. Non è affatto detto che avere un esecutivo forte garantisca un percorso di crescita economico.

E sorprende la disinvoltura con cui Confindustria associ l’effetto Brexit al voto referendario, proponendo una correlazione sistemica tra due fenomeni che non hanno alcuna relazione politica. Votare no al referendum costituzionale significa semplicemente conservare l’attuale quadro istituzionale e nulla ha a che fare con la permanenza del nostro Paese nell’Unione Europea.

Se il Centro Studi volesse prendersi poi la briga di guardare da vicino le ragioni che hanno spinto la Gran Bretagna fuori dall’Ue noterebbe che è proprio dentro un sistema politico fondato sul primato del governo, e sulla rispondenza dei governi laburisti e conservatori ai principi tecnocratici, che si è consumata la Brexit.

Nessuno certo vieta a Confindustria di assumere posizioni politiche, l’unica avvertenza è di fornire alle proprie valutazioni quel briciolo di rigore metodologico, che consente di distinguere un punto di vista parziale dalla mera civetteria ideologica.

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