«Più determinato che mai» sulla strada delle riforme, Mario Monti torna dalla sua visita negli Stati uniti con un surplus di legittimazione politica che nemmeno cento voti di fiducia del parlamento italiano avrebbero potuto assicurargli. È un indice significativo di quanto stiano cambiando, sotto il combinato disposto della globalizzazione e della crisi economica, le regole del gioco della politica nelle democrazie occidentali, un cambiamento di cui il caso italiano, nella sua apparente eccentricità e anomalia, si rivela ancora una volta laboratorio di frontiera. Dove infatti le contraddizioni del gioco, lungi dal chiudersi, si riaprono.
Sul successo del viaggio americano del premier «tecnico» italiano c'è poco da dubitare. Accompagnato da un'investitura mediatica che rende ancor più patetici, retrospettivamente, i rovinosi tentativi di Berlusconi di accreditarsi sulla scena internazionale a suon di battute e barzellette, l'endorsement di Obama risponde certo a ragioni geo-politiche e geo-economiche stringenti - al primo posto il ritrovamento, sotto i colpi della crisi, dell'importanza dell'asse transatlantico nella politica americana, e la necessità di una sponda europea nel conflitto più o meno dichiarato con la gestione della crisi di Angela Merkel. Ma corona anche il lungo lavorio diplomatico del Quirinale - cominciato con l'accoglienza di Obama alla vigilia del G8 dell'Aquila nell'estate del 2009, e proseguito con la visita di Napolitano alla Casa Bianca nel maggio successivo - volto a «salvare» l'immagine nazionale dal discredito berlusconiano. Quelle fotografie del 2009, con i grandi della terra accolti fra le macerie dell'Aquila da un premier sommerso dagli «scandali sessuali» su tutti i media del mondo, sono archiviate. Italy is back, con tutt'altra faccia, sobria e competente, rispettabile e affidabile. Per chiunque si sia trovato negli ultimi anni a render conto a un tassista o a un giornalista, a un amico o a un'università di dove fosse precipitata l'Italia, non c'è che da rallegrarsi.
Da qui a parlare di un nuovo De Gasperi, come fa l'ex ambasciatore Gardner salendo a ritroso sulla macchina del tempo, o del Salvatore dell'Europa, come ha fatto il Time facendola partire in quarta, ce ne corre. Non siamo nel secondo dopoguerra ma nel pieno della guerra economica in corso, e il discreto ottimismo di Monti sull'eurozona e sull'Italia può servire a rassicurare Wall Street e i think tank, ma non i greci oltre l'orlo del crack, né gli italiani provati dalla sua ricetta pedagogica fatta di competizione e concorrenza e piegati dal debito a rispondere «con soli tre giorni di sciopero» alla riforma della previdenza.
Non solo: Angela Merkel è sempre lì e delle politiche keynesiane adombrate da Obama non vuol saperne, l'Europa monetaria manca sempre di un governo politico, l'euro è tutt'altro che in salvo. Di più: alla legittima incredulità di Obama sulla capacità delle politiche del rigore di rilanciare la crescita Monti non dà risposta, né si allinea al presidente americano nel giudizio sulla finanza emesso nel recente discorso sullo stato dell'Unione.
Ce ne corre anche a voler dedurre dalle stellette americane la consacrazione garantita di Monti a un futuro politico tutto in discesa, e la morte volontaria e certificata, per inutilità, della politica nazionale. È il teorema automatico prospettato ieri dal quotidiano della Confindustria (e già vagheggiato da Casini), un bell'accordo pre-elettorale che trasformi l'appoggio temporaneo al governo tecnico in una Grande Coalizione montiana blindata per la prossima legislatura: tanto i partiti non sanno fare niente, a governare ci pensano i tecnici, e le elezioni, com'è noto, sono diventate un rito superfluo. C'era una volta l'Europa, culla della politica antica e moderna. È davvero la tecnica che può salvarla?