Il manifesto, la Repubblicail Fatto quotidiano, 13 dicembre 2016
Il Manifesto
«ATTACCO ISISt» A SULTANAHMET
di Fazila Mat
Turchia. Esplosione nel cuore turistico e commerciale della città turca tra Santa Sofia e la Moschea Blu. Dieci le vittime, otto sono turisti tedeschi. Per il governo è stato lo Stato Islamico
Un nuovo attentato, questa volta a Istanbul, nel cuore economico e commerciale del paese. Dopo gli attacchi kamikaze di Suruç del luglio scorso (33 vittime) e di Ankara a ottobre (con oltre 100 morti)il governo turco guidato dal premier Ahmet Davutoglu (e di fatto dal presidente Recep Tayyip Erdogan) deve affrontare il terzo attacco attribuito — dalle stesse autorità — allo Stato islamico (Isis). Una diretta conseguenza, secondo gli oppositori dell’esecutivo, della politica estera condotta da Ankara, e principalmente in Siria.
Le vittime dell’esplosione avvenuta ieri mattina alle ore 10.20 locali, sono «tutti cittadini stranieri», così come confermato nel tardo pomeriggio di ieri Davutoglu ai giornalisti. Si contano anche 15 feriti (tutti stranieri) due dei quali sarebbero in gravi condizioni. L’attentatore, sempre secondo le affermazioni del premier, sarebbe un cittadino saudita - una novità questa rispetto ai precedenti attentati - di 28 anni, giunto in Turchia dalla Siria. Si è fatto esplodere a Sultanahmet, quartiere in cui sono concentrati i principali monumenti storici della città come Santa Sofia o la Moschea Blu e per questo sempre meta privilegiata dei turisti.
La deflagrazione è avvenuta all’Ippodromo romano, nei pressi dell’obelisco egiziano (di Teodosio), mentre stava passando una comitiva di cittadini tedeschi. Nove, tra le vittime, sono infatti tedeschi, il decimo, un cittadino peruviano. Un’ora dopo l’esplosione, così forte da essere stata sentita anche in quartieri sull’altra sponda del Corno d’oro, il Consiglio superiore per la radio e la televisione (Rtuk, organo governativo) ha emanato un divieto temporaneo sulla «diffusione delle immagini del luogo del delitto e dei corpi, sia in diretta che dopo», sollevando non poche critiche, soprattutto nei social media.
«Vi abbiamo esortato più volte a non trascinare la Turchia nella palude del Medioriente» è stata la reazione del leader Chp (Partito repubblicano del popolo, principale formazione d’opposizione) Kemal Kilicdaroglu che ha attaccato il governo accusandolo di essere «incapace di gestire questo paese». Come di consueto, più interventista la reazione del leader del Partito di azione nazionalista (Mhp, i lupi grigi) Devlet Bahceli che invitato Ankara a «reagire pesantemente l’atto sanguinoso» punendo «i mandanti, gli esecutori e i collaborazionisti che operano contro l’umanità e che si annidano nelle case-celle (così chiamate le case dove i membri dell’Isis abiterebbero in gruppi di 12, nda)». Un’altra condanna è arrivata da Selahttin Demirtas, co-leader del Partito filo-curdo democrtico dei popoli (Hdp). «Vogliamo che sappiate che lotteremo fino all’ultimo respiro finché i responsabili non verranno resi noti», ha detto Demirtas.
Per diversi mesi il governo di Ankara è stato accusato da più fronti di appoggiare logisticamente i gruppi d’opposizione - al Nusra e Isis compresi - in lotta in Siria contro il regime di Bashar al Assad. Le accuse sono proseguite anche dopo che nel luglio scorso la Turchia ha preso apertamente parte nella coalizione anti-Isis guidata dagli Usa e dopo una serie di arresti effettuati contro presunti membri dell’Isis in Turchia. Date poi le continue rimostranze degli Stati occidentali - Ankara ha messo in atto un maggiore controllo alle proprie frontiere sudorientali – definite dalle autorità troppo estese per essere interamente controllate - per impedire che i jihadisti potessero transitarvi con agio, come invece denunciato da diversi media.
Ma la lotta del governo turco contro l’Isis è sempre proseguita parallelamente alle operazioni effettuate contro due altre organizzazioni considerate terroristiche da parte di Ankara: il Pkk (Partito dei lavoratori del Kurdistan) e il Dhkp-C (Fronte rivoluzionario per la liberazione del popolo), con un bilancio finale di detenzioni a carico dell’Isis, in netta minoranza. Questo atteggiamento che mette sullo stesso piano «tutte le organizzazioni terroristiche» ha fatto sì che i precedenti attentati, ma soprattutto quello di Ankara, fossero attribuiti dall’esecutivo turco ad un «cocktail terroristico», sebbene sia stato accertato dlla polizia che gli esecutori fossero membri di cellule turche dell’Isis.
Anche la dichiarazione rilasciata ieri dal premier Davutoglu segnala il rischio di ripetere la stessa linea. «Da qualunque parte provenga e qualunque motivo si adduca chi fa terrorismo compie un reato contro l’umanità. La Turchia ha dimostrato un atteggiamento aperto e di principio contro tutte le organizzazioni terroristiche, che sia il Pkk o l’Isis…», ha detto Davutoglu.
Ma se la lotta del governo turco contro il Pkk, ripresa a tutto campo dallo scorso luglio non lascia ombra di dubbio, considerati anche i coprifuochi che interessano il Sudest del Paese da diverse settimane e le costanti perdite di vite umane, non risulta ancora chiaro quale sarà la strategia che Ankara intende adottare per impedire che l’Isis preda piede in Turchia e minacci nuovi attentati.
La Repubblica
ISTAMBUL COLPITA AL CUORE.
UN KAMIKAZE FA STRAGE.
UCCISI DIECI TURISTI OTTO ERANO TEDESCHI
di Marco Ansaldo
Ora, nella notte, c’è solo silenzio. E poliziotti al lavoro in tuta bianca e copriscarpe azzurri per rilievi che compiono chinandosi a terra, misurando distanze, parlandosi sottovoce dopo che anche il corpo dell’ultimo turista tedesco è stato rimosso. Ma a Piazza Sultanahmet, nel quadrilatero che i viaggiatori di ogni parte del mondo conoscono, fra la Moschea blu, la basilica di Santa Sofia, il Topkapi e la Cisterna, i jihadisti hanno lasciato per terra una macchia scura. Nessuno riesce a lavarla. Colpendo al cuore l’unica città al mondo che si estende su due continenti, cerniera fra Asia e Europa, hanno voluto spezzare l’ultimo lembo di dialogo che adesso sarà difficile ricostruire.
Come sempre Tayyip Erdogan, l’uomo forte della Turchia, voce tonante e ciglio asciutto, lancia accuse all’esterno. L’altro ieri lo faceva contro i militari, contro i curdi, poi gli alleati islamisti, la finanza mondiale e i media internazionali. Oggi allunga la lista al terrorismo e agli “intellettuali stupidi”. Ma per molti osservatori indipendenti è proprio l’ambiguità mostrata dal suo governo con il Califfato nero, durata quasi tre anni e giocata sul filo di un’acquiescenza criticata da molti, a essere considerata come la causa reale dell’attentato nel centro di Istanbul. Dove l’accordo raggiunto con Angela Merkel e con un’Europa convinta infine a concedere all’alleato turco tre miliardi euro in cambio della lotta al terrorismo e dell’aiuto nel controllare frontiere sempre più porose per lo sbarco di profughi e per l’attraversamento di terroristi, non ha salvato i turisti tedeschi. Solo lo scorso anno sono stati 5 milioni e mezzo dalla Germania. Il prevedibile crollo del turismo, adesso, e le difficoltà dell’economia turca faranno riconsiderare a molti l’affidabilità del loro Presidente.
Tutti i 10 morti sono stranieri e ben 8 quelli tedeschi saltati in aria con l’attentatore, un kamikaze saudita di origine siriana che il premier Ahmet Davutoglu ha spiegato essersi arruolato nel cosiddetto Califfato islamico (secondo alcune fonti, si sarebbe registrato come rifugiato). Alle 10,20 ora locale (le 9,20 in Italia), Piazza Sultanahmet per fortuna non era zeppa di turisti come d’estate. Il freddo incombente in questa stagione in Turchia ha contribuito a tenere molti visitatori lontani. Gruppi di autobus stazionavano comunque davanti alla Moschea blu. Ed è qui, nel piazzale antistante, colmo di giardini fioriti e di fontane, nei pressi dell’obelisco di Teodosio, che l’attentatore si è fatto esplodere.
Una deflagrazione tanto potente da essere percepita fino nella parte asiatica. «La terra ha tremato e c’era un odore pesante che mi ha bruciato le narici», haraccontato una turista tedesca. «Abbiamo sentito un boato fortissimo - dice Turgut, il portiere di uno degli alberghi nella zona, tantissimi ormai e quasi sempre di ottimo livello visto il copioso giro di affari - ma dobbiamo avere paura qui: sia per il nostro lavoro, perché le gente ha subito disdetto molte prenotazioni; sia per la Turchia, ora al centro di giochi che passano sopra le teste di noi cittadini». A guardarli bene negli occhi, i turchi oggi hanno volti affranti: visi impauriti, e pensieri che si immaginano incapaci di immaginare un futuro di pace, stretti come sono fra la minaccia terrorista, la guerra curda riscoppiata in Anatolia, le tensioni con la Russia, e un braccio di ferro irrisolto con l’Europa.
Passa una manciata di ore, e Erdogan compare alla tv. Ne ha per tutti. «La Turchia continuerà a lottare sino a quando le organizzazioni terroristiche non saranno totalmente annientate. Il problema oggi è il terrorismo, non la questione curda. Dobbiamo dirlo al mondo. Sono stupidi gli intellettuali che imputano al governo di aver compiuto qualche tipo di strage. Il governo conosce come il palmo delle sue mani il Sud-Est dell’Anatolia, mentre loro non lo conoscono e non sanno neppure il nome delle strade». Sotto tiro gli intellettuali, gli scrittori, gli accademici, come il sociologo americano Noam Chomsky: tutti colpevoli di criticare l’operato del governo: «Queste persone devono scegliere se stare dalla mia parte o dalla parte dei terroristi». E poi accuse a Russia e Mosca, «che vogliono espandere la loro area di influenza in Siria».
Metà Turchia applaude Erdogan. Lo dimostrano le elezioni stravinte lo scorso novembre, quando ne è uscito premiato con oltre il 49 per cento dei voti, perché considerato l’uomo della stabilità. L’altra metà letteralmente lo odia, giudicando come irresponsabile il suo obiettivo di polarizzare il Paese, mettendo in un angolo avversari politici, magistratura e media, licenziando e facendo arrestare i giornalisti per i loro scoop antigovernativi. In serata la sua polizia scate- na la caccia ai terroristi, e arresta nella capitale Ankara 16 sospetti jihadisti.
Ma questo è un Paese che vive ormai nella paura del terrorismo, alla media di un attacco ogni due mesi. A giugno a Diyarbakir 6 morti, poi a Suruc i 32 giovani che volevano ricostruire la biblioteca della città siriana di Kobane, quindi il 10 ottobre le 102 vittime curde ad Ankara poco prima delle elezioni. Ora l’attacco più duro per l’immagine del Paese. Con un governo che sull’esplosione di Piazza Sultanahmet impone il silenzio stampa, vietando, decreta il tribunale di Istanbul, «tutti i tipi di notizie, interviste, critiche e pubblicazioni simili sulla carta stampata, le televisioni, i social media e tutti gli altri tipi di mezzi di informazione su Internet».
Il Fatto Quotidiano
ERDOGAN HA VOLUTO STRAPPARE
LA CERNIERA TRA EUROPA E ORIENTE
di Fabio Mini
È strabiliante vedere con quanta sicurezza i leader turchi abbiano subito individuato autori materiali e mandanti dell’attentato a Istanbul. Sulle vittime si sapeva ancora quasi nulla e già i vertici politici, della polizia e dei servizi segreti davano nomi e cognomi: erano siriani dell’Isis che, nel lessico politico turco, significa amici del regime di Assad o curdi comunisti del Pkk o tutti e due. La stessa certezza era stata manifestata giorni fa dalle informative inviate dai servizi turchi ai colleghi europei sulla minaccia di attacchi terroristici in Europa. I potenziali autori si trovavano ancora in Siria ma il loro progetto e i loro nomi erano già nelle schede segnaletiche delle polizie europee.
Questa formidabile efficienza dovrebbe essere una rassicurante dimostrazione di forza e coerenza della Turchia e dei suoi alleati, ma non riesce a fugare i sospetti e le ambiguità che ormai costituiscono il terreno di coltura di tutti i “batteri” turchi e mediorientali. La Turchia così maschia e determinata è in realtà una complessa entità ambigua e ambivalente. Da sempre. La Turchia moderna occupa i territori che furono colonie iranico-scite e greche, che furono provincie e clientes di Roma. Il nome Ponto originariamente significava “sentiero” lungo la costa del Mar Nero e nel tempo passò da “sentiero inospitale” a “sentiero ospitale” (Ponto Eusino). Tanto per restare nell’ambiguità. È il limite della migrazione pontica delle orde turco-mongole che convivevano nella Siberia del lago Baikal e si confederarono sotto Gengiz Khan.
La Turchia è l’erede dell’impero Ottomano che rivendicò per sé la funzione di Califfato o difensore di tutti gli islamici nel 1517. Il califfato turco durò fino al 1924, ben 6 anni dopo la fine della Prima guerra mondiale e la caduta dell’impero, quando Kemal Ataturk (generale ottomano) diventato presidente della repubblica turca indisse un congresso che ne decise l’abolizione. La Turchia moderna ha bandito molti costumi del sultanato, ma non ha mai ripudiato l’ascendenza imperiale e soprattutto non ha mai ammesso le responsabilità ottomane negli eccidi e nelle pulizie etniche ai danni dei popoli sottomessi tra cui armeni e greci del Ponto.
Questa Turchia ambigua e reticente avrebbe dovuto essere il ponte tra Europa e Asia: non ci credevano davvero né i turchi né gli europei. La Turchia ha preferito pensare ai propri affari diretti dal panturchismo e la sua funzione di raccordo è sempre nella nebbia. Doveva essere l’interlocutore privilegiato e il massimo mediatore tra cultura occidentale e cultura islamica: tra giochi di potere e giochi di convenienza è riuscita a inasprire le differenze facendo dimenticare le affinità.
Per un certo periodo si è creduto che la Turchia dei generali potesse diventare il ponte tra mondo islamico e Israele: ci fu un’alleanza tutt’altro che chiara tra due regimi che avevano in comune solo il forte militarismo e la predilezione per le soluzioni armate. L’ambiguità fu comunque peggiorata con la deriva islamista del regime di Erdogan che staccò di nuovo i due ambiti politici, ma non quelli commerciali. Doveva essere la sponda asiatica della Nato a guardia del blocco occidentale: si è persa nelle pastoie delle diatribe territoriali e ideologiche con la Grecia mettendo più volte in crisi tutta l’alleanza. Doveva essere il ponte tra curdi e iracheni, iraniani e siriani: con il paravento dell’appoggio al Kurdistan iracheno ha tentato la carta della divisione di tutti i curdi, che oggi o fanno affari con la Turchia o la odiano. E perciò sono “terroristi”. Doveva essere il faro laico di un nuovo approccio alla società islamica: è divenuta sempre più fondamentalista e nazionalista. Doveva essere alleata della Russia e dell’Iran per un nuovo assetto mediorientale e una nuova stagione di rapporti internazionali tra Usa, Europa e Mondo orientale: oggi è vista come un pericolo da tutti i principali interlocutori. Doveva essere un baluardo a salvaguardia della protezione dei rifugiati e della sicurezza europea: ha usato l’emigrazione come valvola di scarico a favore e contro la stessa Europa. Quasi sempre contro e solo dietro pagamento di miliardi sonanti “a favore”.
Dietro la maschera della sicurezza, la Turchia continua a essere un bastione dell’ambiguità. Non sa neppure quale sia il suo destino o il suo nemico. Nessuno può mettere la mano sul fuoco in merito alle sue affermazioni, nessuno può dire chi stia manovrando i terroristi in Turchia e fuori. Nessuno può dire a cosa tendano le informazioni turche condivise col contagocce. Nessuno si può fidare dell’ambiguità e ancor meno dell’arroganza delle affermazioni. L’ambiguità può anche essere una necessità politica, e ne sappiamo qualcosa noi, ma l’arroganza e la sicumera sono vere pazzie. E ne sappiamo qualcosa noi.
LA GERMANIA: NOI NEL MIRINO
di Andrea Tarquini
Colonia. Angela Merkel non ha perso un istante: ha parlato subito ai tedeschi scossi dai loro morti a Sultanahmet. «Almeno otto sono i nostri concittadini assassinati, forse il bilancio aumenterà; il terrorismo ha di nuovo mostrato il suo volto più brutale e crudele, il nostro lutto è solidale col lutto della Turchia, sono vicina al suo popolo», ha detto la cancelliera, pallida in volto in tv. Germania nel mirino, ancora una volta un amaro risveglio. E parole scelte non a caso, a indicare una partnership strategica con Ankara che non vuol lasciarsi intimidire.
Otto cittadini federali uccisi, almeno altri nove feriti di cui alcuni in gravi condizioni. Lo shock è enorme. «I terroristi sono i nemici dell’umanità intera, che colpiscano in Francia o in Germania, in Siria o in Turchia: il loro bersaglio è la nostra vita libera, di liberi cittadini di democrazie moderne», ha aggiunto la cancelliera, «li combatteremo con tutta la determinazione necessaria». Tutto il giorno è stata in contatto telefonico col premier Davutoglu e col presidente Erdogan, poi ha convocato una riunione d’emergenza del governo, in teleconferenza con l’esecutivo di Ankara. «Siamo vicini al popolo turco, spesso vittima dei terroristi». «È una guerra»: ha detto il premier francese, Manuel Valls. «Sono minacce che conosciamo».
«Non ci lasceremo intimidire », ha incalzato il ministro degli Esteri, Frank-Walter Steinmeier. Gli appelli alla fermezza indicano che la Germania sa benissimo di essere un bersaglio preferito, speciale, nella strategia del Daesh. «Quelli», dicono fonti dell’esecutivo, «hanno nel mirino la strategia di Berlino. E cioè la strategia di mano tesa a tutti i costi verso la Turchia, l’obiettivo tedesco di agganciare sempre più Ankara all’Europa, nella lotta al terrore come nell’economia, nella geopolitica, nella ricerca di interessi comuni».
Credito per tre miliardi, incontri al vertice frequentissimi, passi a Bruxelles con la Commissione europea per la marcia di Ankara verso l’associazione alla Ue. Tutto nella politica tedesca verso la Turchia, anche negli ultimi mesi, anche dopo svolte autoritarie, ha un obiettivo chiaro: rendere ancor più saldi i legami con l’alleato, fa notare un diplomatico occidentale. Con tre milioni di turchi ormai minoranza etnica in casa, rapporti economici in decollo, e l’uso indispensabile alla Luftwaffe della base di Incirlik per i Tornado da ricognizione che indicano ai jet francesi, americani e russi i siti del Califfato da bombardare e per gli Airbus-cisterna con la croce nera che riforniscono in volo i Rafale decollati della Charles de Gaulle, Berlino è insieme amico-chiave di Ankara in Europa e belligerante nella coalizione antiterrorismo. E ne paga le spese.
“CORSA CONTRO IL TEMPO PER FERMARE IL TERRORE L'IS STA REAGENDO ALL'ASSEDIO DEL MONDO”
intervista di Andrea Bonanni a Federica Mogherini
Bruxelles. Le bombe a Istanbul, le stragi in Libia, le violenze contro le donne a Colonia, l’attentato al premier libico designato che lei aveva appena incontrato a Tunisi cronaca degli ultimi giorni e delle ultime ore: permetta una domanda personale, signora Mogherini, ma non le capita mai di sentirsi in guerra?
Federica Mogherini, l’Alto rappresentante per la Politica estera e la sicurezza europea, ci pensa un attimo. «No. L’unica guerra che mi sento addosso, ed è drammatica, è la guerra contro il tempo. I fatti che lei ha citato dimostrano che c’è un’accelerazione e un’estensione anche geografica di alcune tendenze già emerse l’anno scorso. Un’accelerazione che diventa tanto più rapida quanto più, in Libia come in Siria, si intravvedono possibilità di soluzione. E noi non possiamo permetterci di perdere questa battaglia contro il tempo per fermare questa valanga di follia che incombe».
La strage di tedeschi a Istanbul lascia pensare che la valanga sta ormai estendendosi anche alla Turchia?
«Non è la prima volta che la Turchia subisce un attentato. Sappiamo da mesi di avere un interesse comune nel contrastare e sconfiggere Daesh. Per questo abbiamo rafforzato la nostra collaborazione nell’antiterrorismo con la Turchia e con altri Paesi della Regione».
In Libia e in Siria la diplomazia stanno facendo progressi. Ma anche Daesh è all’offensiva. Chi la spunterà?
«Non sono un’indovina. Quello che cerchiamo di fare non è tanto prevedere ma determinare il corso degli eventi. Ma la mia percezione è che si siano messi in moto meccanismi impensabili anche solo un anno fa e che finiranno per indebolire Daesh dovunque si trovi. E questo naturalmente provoca reazioni».
Quali meccanismi?
«Intanto per la Libia e per la Siria si è aperto un canale di consultazione permanente tra Europa, Stati Uniti e Russia che ha portato anche alle risoluzioni votate all’unanimità dall’Onu. Sulla Siria abbiamo un coordinamento che comprende tra gli altri Turchia, Egitto, Arabia Saudita e Iran: anche questo sembrava un traguardo impossibile prima dell’accordo sul nucleare iraniano che abbiamo negoziato l’anno scorso. Il 25 gennaio si terrà il primo incontro negoziale tra il regime siriano e le opposizioni. Tra pochi giorni si dovrebbe insediare il primo governo di unità nazionale libico. Il cerchio politico si sta stringendo attorno a Daesh».
È prevedibile un intervento militare europeo in Libia?
«Se c’è una lezione che abbiamo imparato è che queste crisi non si risolvono dall’esterno. Devono essere i libici a indicare le soluzioni. Non credo che il nuovo governo di unità libico chiederà un intervento militare dell’Occidente. Credo invece che domanderà il nostro sostegno in una serie di settori, che vanno dagli aiuti umanitari, alla ricostruzione, alla creazione di un nuovo esercito e di nuove forze di polizia, al loro addestramento e al loro sostegno logistico per far fronte alla minaccia terrorista. E su questo la Ue e i suoi stati membri, con l’Italia in prima fila, sono da tempo pronti a fornire tutto l’aiuto necessario. Un intervento militare esterno darebbe solo argomenti alla propaganda di Daesh».
A complicare i suoi compiti ci si è messa anche la nuova tensione tra Iran e Arabia Saudita, che minaccia di riacutizzare il conflitto tra sciiti e sunniti...
«Dai miei colloqui con Iran e Arabia Saudita, e altri partner del mondo islamico, ho avuto assicurazioni che tutti vogliano evitare che questi contrasti si ripercuotano sulla crisi siriana o su altri Paesi vulnerabili, come il Libano e l’Iraq. Teheran e Riad siedono insieme al tavolo dei colloqui di pace per la Siria. È importante che continuino a farlo. È importante per la Siria, per le prospettive di stabilità in tutto il Medio Oriente e per evitare di infiammare con scontri settari le comunità musulmane di altre parti del mondo, dall’Africa all’Asia».
Finora si guardava a queste crisi come alla manifestazione di una guerra intra-islamica tra sciiti e sunniti, di cui noi eravamo semmai vittime collaterali. Ma i fatti di Colonia sembrano dirci che non è così. Stiamo vivendo uno scontro di culture che ci colpisce ben al di là del terrorismo?
«Sulle violenze contro le donne nella notte di Capodanno vorrei, come politico ma anche come donna, richiamare alla razionalità. Metterei tre punti fermi. Primo: le autorità tedesche devono fare piena luce su quello che è successo, e sulle responsabilità penali, che sono comunque e sempre individuali, anche per evitare strumentalizzazioni politiche. Secondo: le leggi vanno rispettate da tutti, e in particolare quelle che tutelano i diritti umani e la libertà della donna. Terzo: la violenza sulle donne non è un fenomeno nato a Colonia il 31 dicembre. Vorrei ricordare che la violenza sulle donne fa una vittima al giorno anche in Paesi dell’Unione europea. La condanna per la violenza sulle donne a Colonia è totale. Ma non esiste una singola cultura cui si possa attribuire questo fenomeno».
Anche a causa dei fatti di Colonia, però, la cancelliera Merkel si trova sotto attacco sia in patria sia sui grandi organi di stampa mondiali. Questo fatto la preoccupa?
«Da un punto di vista politico, credo che il sistema tedesco sia abbastanza solido. Quello che mi preoccupa è la dinamica profonda che può innescarsi nella società e che può portare a una ridiscussione della identità tedesca. Finora, sull’accoglienza ai rifugiati, la Germania è stata tra i Paesi in grado di proiettare un’immagine positiva dentro e fuori la Ue. È importante che continui a farlo. Così come è importante che l’intera Europa preservi i valori su cui è stata fondata».