Reset, 27 febbraio 2017
Israele è uno dei pochi Paesi ad avere ottime aspettative sulla nuova amministrazione USA. È vero che per ora il nuovo Presidente non ha ancora annunciato in che modo intenda rivedere l’accordo sul nucleare iraniano raggiunto a Vienna nel 2015, né come reimporre le sanzioni, ma certamente l’attuale amministrazione Trump si annuncia come la più vicina e più simpatetica al governo Netanyahu dal 2009.
Tuttavia, il rinnovato slancio USA all’alleanza strategica con Tel Aviv non è l’unica ragione dell’euforia israeliana: in una regione attraversata da molteplici crisi e sconvolta da insanabili guerre civili, Israele è un Paese che non solo economicamente cresce per il 13° anno consecutivo (dati OECD 2016), ma sembra riuscito nell’intento di relegare il conflitto israelo-palestinese sullo sfondo ad un ruolo di serie B nello scenario internazionale. La coscienza di quella parte dell’opinione pubblica araba ed occidentale tradizionalmente attenta alle violazioni israeliane e sensibile al progressivo deterioramento dei diritti dei Palestinesi, sembra oggi attonita e distratta da conflitti più impellenti che causano un numero maggiore di morti e, soprattutto, di rifugiati.
È indubbio che riflettori da sempre puntati sul conflitto israelo-palestinese si siano spenti e che il governo israeliano ne approfitti per varare alcune leggi che in altri tempi sarebbero diventate facilmente oggetto di critiche virulente da parte delle organizzazioni internazionali e boicottaggio da parte delle opinioni pubbliche.
La prima delle leggi controverse recentemente passate dalla Knesset quasi in sordina è stata “la legge sulla regolarizzazione degli insediamenti” del 6 febbraio scorso, in cui all’unanimità il Comitato legislativo del Parlamento ha stabilito che sia possibile per l’amministrazione civile israeliana requisire terre private palestinesi per costruire insediamenti o legalizzarne quelli già esistenti in funzione retroattiva, infrangendo così una pericolosa “linea rossa” ovvero quella della tutela almeno delle proprietà private palestinesi.
D’ora in poi nella cosiddetta area C, corrispondente a circa il 60% della Cisgiordania, il governo israeliano, tramite il suo braccio esecutivo nei Territori occupati della Cisgiordania (l’amministrazione civile) potrà espropriare qualsiasi porzione di terra al solo scopo dichiarato di facilitare e intensificare la creazione di insediamenti israeliani. Mentre prima era possibile espropriare solo a scopi pubblici (costruzione di strade e servizi collettivi, ragioni di sicurezza) adesso gli interessi privati di gruppi di coloni vengono legalmente equiparati alla ragion di Stato. Altre postille della legge prevedono che tutti gli avamposti finora costruiti illegalmente vengano “sanati” ovvero automaticamente convertiti in insediamenti legali destinatari di fondi pubblici governativi, spianando la strada alla trasformazione di tutta l’area C in una nuova regione israeliana suscettibile di annessione (che in ebraico ha già un nome,“Yeudah e Shomron”, ovvero “Giudea e Samaria”). La legge è stata votata ed approvata per ben tre volte alla Knesset da una maggioranza di partiti di governo composta da Israel Beitenu (Israele casa nostra), Ha Bayit ha Yehoudi (La Casa ebraica), Likud (“Consolidamento”) e Kulanu (“Noi tutti”), convincendo quest’ultimo, un partito di centro-destra che si era originariamente dichiarato contrario, barattando il voto favorevole del partito centrista con la promessa di una maggiore attenzione del governo alle crescenti disparità sociali.
Fatto ancora più grave, attraverso la legge, di per sé sintomatica di un solido sentire della maggioranza favorevole al superamento dello status quo vigente in materia di insediamenti (secondo l’ultimo sondaggio Peace Index del giugno del 2016 il 55% sarebbe tendenzialmente favorevole all’estendere la sovranità israeliana agli insediamenti in Cisgiordania), si delinea un difficile rapporto tra due poteri forti dello Stato: il governo e la Corte Suprema.
Il primo agisce secondo il principio della “democrazia della maggioranza”, pensando di essere l’unico legittimo rappresentante del popolo e dunque di essere investito dell’autorità suprema di governare in piena autonomia dalle norme vigenti, erigendosi a “corte d’appello” superiore alla stessa magistratura, mentre la seconda vede sistematicamente nullificate le sue sentenze -si veda il caso dello smantellamento, decretato appunto dalla Corte, dell’avamposto illegale di Amona etc.- e contestata la sua autorità da parte tanto del governo che del Parlamento, ovvero i due poteri che assieme ad essa costituiscono le più alte istituzioni dello Stato. Una situazione critica che si riflette nelle parole di una delle deputate di estrema destra che più si sono battute per la promulgazione di questa legge di “regolarizzazione degli insediamenti”, Shuli Mualem Refaeli del partito La Casa Ebraica: “La questione della Giudea e della Samaria non costituisce affatto un problema legale, ma se la Corte rigetterà la legge, al Parlamento rimarranno solo due opzioni: l’annessione diretta di tutta l’area C o una nuova legge per limitare i poteri della Corte” (Hezki Baruch, Arutz Sheva, 7 febbraio 2017).
Il ruolo della Corte Suprema è contestato da molti anni, in primis dalle forze che appartengono all’attuale coalizione di governo, ma anche da altri gruppi schierati alla loro ulteriore destra. Nonostante essa abbia storicamente evitato di esprimersi su controverse decisioni governative come l’introduzione delle leggi d’emergenza o l’esproprio di terreni da parte dell’esercito a fini di sicurezza, essa è percepita come un “bastione” delle forze liberali nel Paese soprattutto a seguito dell’attivismo che l’ha caratterizzata negli anni immediatamente precedenti e successivi ad Oslo (anni ’90) in cui la Corte ha spinto il Parlamento a promulgare due nuove leggi fondamentali sulla difesa dei diritti umani sotto il lungo mandato del Giudice supremo Aharon Barak (1995-2006). In particolare, poiché Israele manca di una costituzione, la Corte Suprema ha teso a supplire con il proprio attivismo all’assenza di una legislazione capillare in materia protezione dei diritti umani. A differenza degli anni Novanta, però, in cui la Corte godeva di un’ampia legittimità democratica e di un consenso trasversale, dal 2003 la sua buona reputazione si è attenuata per le sentenze sull’illegalità del percorso della Barriera difensiva (o Muro di separazione, che per alcune porzioni illegalmente è stato costruito su terra privata palestinese, il cui esproprio oggi è stato retroattivamente legalizzato), sull’illegalità delle demolizioni di abitazioni palestinesi e per l’accoglienza di alcune petizioni individuali avanzate da Palestinesi dei Territori.
Dal 2000, il Governo cerca dunque di mettere un freno all’attivismo della Corte -che nel frattempo si è molto smorzato- sostenendo che le sue decisioni mettano a repentaglio la sicurezza e la capacità di sopravvivenza dello Stato. Da allora, i disegni di legge avanzati dal Parlamento a questo scopo si sono succeduti: dalla proposta dei deputati di Israel beitenu (“Israele Casa nostra”) Eliezer Cohen e del Mafdal Igal Bibi di affiancare alla Corte Suprema una Corte Costituzionale maggiormente influenzata dal governo, a quella del Ministro della giustizia del Governo Olmert Daniel Friedman di limitare il diritto di petizioni individuali, per arrivare a quella del Ministro della giustizia del precedente governo Netanyahu, Ya’acov Neeman, di rivedere il processo di nomina dei giudici alla Corte Suprema in modo da procedere con assegnazioni più compiacenti al governo (Yossi Verter, Ha’aretz, 6 gennaio 2012). Quest’ultima proposta è stata coronata proprio in questi giorni (23 febbraio 2017) dal successo riportato dal terzo governo Netanyahu, ed in particolare dal suo attuale Ministro della giustizia Ayelet Shaked (la Casa ebraica), con la nomina di quattro nuovi giudici conservatori o “falchi”.
Tuttavia, la crisi -nel senso greco di trasformazione dalla quale emerge un nuovo equilibrio- è molto più estesa del “braccio-di-ferro” in corso tra le istituzioni dello Stato, ma si avvicina ad una resa dei conti totale, in cui una parte maggioritaria del Paese afferma di non voler più vivere secondo le regole che hanno plasmato la vita politica israeliana fino ad oggi.
Tale “resa dei conti” si radica in un consolidato sentimento popolare che ritiene che Israele stia entrando in una fase di maturità in cui abbia finalmente la possibilità di assecondare le sue vere aspirazioni nazionali rimaste ancora incompiute. Tale posizione, riassuntiva del sentire di una buona parte dell’opinione pubblica politicamente rappresentata dall’ampio arco di forze di destra al potere quasi ininterrottamente dal 1996, ritiene che l’attuale accomodamento -o coabitazione di comodo- con l’Autorità nazionale palestinese si avvii alla fine, per essere sostituita dall’estensione della sovranità israeliana a quei territori che le sono da sempre appartenuti, Giudea e Samaria, garantendo diritti di residenza -e non di cittadinanza- ai Palestinesi ivi residenti in attesa di futuri equilibri demografici più favorevoli agli ebrei all’interno di un Grande Israele.
Come viene ben sintetizzato dal giornalista di Israel Hayom, quotidiano vicino al premier, Dror Eydar (Allgemeine Zeitung, 23 febbraio 2017): “In futuro… vi saranno milioni di ebrei in più in Israele grazie all’immigrazione ed al saldo positivo della crescita naturale della popolazione e dunque… sarà possibile anche concedere diritti di cittadinanza a quei Palestinesi che vi aspirassero”. La speranza rimane sempre che siano in pochi a farne richiesta, così come avvenne dopo l’annessione di Gerusalemme est nel 1967, in cui centinaia di migliaia di palestinesi decisero di non optare per la cittadinanza israeliana, puntando ancora sull’eventuale costituzione di uno stato palestinese. Uno Stato che oggi -Israeliani e Palestinesi ne sono sempre più convinti, sebbene da prospettive diverse- non vedrà mai la luce.
Il motivo, secondo il Preside della Facoltà di lettere della Ben Gurion University, David Newman, è molto semplice: non può essere istituito uno Stato sovrano in presenza di 125 colonie e circa 100 avamposti illegali israeliani che spezzettano la porzione di territorio assegnata all’autonomia palestinese. Ancora, i coloni sono decisamente troppi per essere evacuati e qualunque linea di confine si intendesse tracciare, tra gli 80.000 e i 100.000 di loro si troverebbero dalla parte sbagliata del confine, e si tratterebbe dei coloni più ideologici, quelli che non accetterebbero alcuna compensazione economica in cambio di un loro eventuale trasferimento (David Newman, Bicom, 17 febbraio 2016). In più, anche qualora fosse territorialmente possibile, Israele non garantirebbe la piena sovranità ad un futuro Stato palestinese in materie sensibili come sicurezza, politica estera e difesa.
Dominique Vidal, celebre firma di Le Monde Diplomatique ed esperto del conflitto israelo-palestinese, riassume così il paradosso a cui sono giunti i Palestinesi, forse loro malgrado: nel momento in cui la Palestina sembra affermarsi senza ostacoli sul piano diplomatico e ottenere il riconoscimento di 138 Paesi e l’endorsement dell’ONU e la membership nella Corte Penale Internazionale, si rivela tanto vulnerabile da rischiare di sparire dalle carte geografiche (Radio France International, débat, 11 febbraio 2017). La sorte dei Palestinesi, più che mai, appare demandata all’arbitrio israeliano, contro il quale la comunità internazionale può poco, sul quale non esercita alcuna pressione e al quale si limita a reagire in ordine sparso e con poca convinzione.
La mobilizzazione internazionale non è mai stata così debole come in questo momento e il governo israeliano ne approfitta per rimodellare fino in fondo l’ampio territorio -ormai sempre più corrispondente al Grande Israele auspicato dai sionisti-revisionisti di Jabotinsky, seppure con qualche Palestinese di troppo- del quale ormai dispone impunemente: ventilando l’indizione di un referendum esclusivamente ebraico circa la possibilità di annessione di una buona porzione di Cisgiordania (l’area C), affermando che l’istituzione di ulteriori colonie non arreca alcun pregiudizio ai diritti dei residenti palestinesi e negando il visto a rappresentanti di ONG come Human Rights Watch per il loro ruolo nella denuncia di quel complesso rapporto che lega imprese private israeliane, americane ed europee al grande business delle colonie (HRW report, “Separate and Unequal”, 2010), che costa annualmente 3.4 miliardi di dollari alla già schiacciata economia palestinese. Il tutto in attesa che la nuova amministrazione Trump sciolga ogni riservatezza e si dichiari ufficialmente a favore dell’accantonamento della soluzione dei due Stati, alla quale solo una parte minoritaria -ideologica o conservatrice, ottusa o ostinata, del tutto indifferente o cieca di fronte alle reali condizioni prevalenti sul terreno, dell’opinione pubblica occidentale e della sua stolta diplomazia-, crede ancora come possibile esito del conflitto.