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Invertire la rotta. Per un governo pubblico dell’acqua
12 Febbraio 2010
Clima e risorse
Relazione introduttiva ai quesiti referendari di Gaetano Azzariti, Gianni Ferrara, Alberto Lucarelli, Ugo Mattei, Stefano Rodotà, febbraio 2010

1. Motivi di carattere generale

alla base della scelta del ricorso all’istituto referendario

ex art. 75 Cost.

Il 18 novembre, alla camera dei deputati si approvava, con ricorso alla fiducia, il decreto Ronchi, che all’art. 15 avviava un processo di dismissione della proprietà pubblica e delle relative infrastrutture, ovvero un percorso di smantellamento del ruolo del soggetto pubblico che non sembra avere eguali in Europa[1]. Contemporaneamente nella sala Nassirya di Palazzo Madama, Stefano Rodotà, presidente della commissione per la riforma dei beni pubblici, insieme a Giovanni Conso, presidente onoraro dell’ accademia dei lincei, e a una nutrita delegazione di consiglieri regionali piemontesi, presentava alla stampa il disegno di legge delega di riforma della disciplina codicistica dei beni comuni depositato in Senato per iniziativa unanime del consiglio regionale piemontese.

A render ancor piu’ grave nel merito e nel metodo l’approvazione del decreto Ronchi vi e’ il fatto che esso e’ stato approvato ignorando il consenso popolare che soltanto due anni fa si era raccolto intorno alla legge d’iniziativa popolare per l’acqua pubblica (raccolte oltre 400.000 firme), oggi in discussione in parlamento. Nel frattempo cinque regioni hanno impugnato il decreto Ronchi di fronte alla corte costituzionale lamentando la violazione di proprie prerogative costituzionali esclusive.

Ad un indirizzo politico chiaro si contrappongono dunque segnali di resistenza verso un governo che ha in mente un progetto rozzo, ma chiaro: la svendita del patrimonio pubblico, la volontà di fare affari attraverso lo sfruttamento dei beni comuni, ovvero quei beni di appartenenza collettiva, tra i quali ovviamente spicca l’acqua. L’ultimo grande bottino, l’ultimo grande saccheggio.

Mentre il testo della commissione Rodotà finalmente inizia il suo percorso legislativo, pur fra mille ostacoli e trabocchetti, con il chiaro e trasparente obiettivo di valorizzare le ricchezze pubbliche essenziali quali le risorse naturali, l’acqua, le grandi infrastrutture, i beni funzionali all’erogazione del welfare e la proprietà pubblica immateriale, il decreto Ronchi diventa legge (l. n. 166 del 2009), collocando tutti i servizi pubblici essenziali locali sul mercato, sottoponendoli alle regole della concorrenza e del profitto, espropriando il soggetto pubblico e quindi i cittadini dei propri beni faticosamente realizzati negli anni sulla base della fiscalità generale.

Mentre in maniera più o meno diffusa ci si sta rendendo conto come negli ultimi anni la gestione privata dell’acqua abbia determinato un aumento delle bollette del 61% ed una riduzione drastica degli investimenti per la modernizzazione degli acquedotti, della rete fognaria, degli impianti di depurazione, il governo e la sua maggioranza approva una legge che, imponendo la svendita forzata del patrimonio pubblico e l’ingresso dei privati, alimenterà anche sacche di malaffare e fenomeni malavitosi facilmente riconducibili alla camorra, alla ndrangheta, alla mafia.

La malavita già da tempo ha compreso il grande business dei sevizi pubblici locali, si pensi alla gestione dei rifiuti, e la grande possibilità di gestirli in regime di monopolio. La criminalità organizzata dispone di liquidità che come è noto ambiscono ad essere “ripulite” attraverso attività d’impresa.

Per chi conquisterà fette di mercato, l’affare è garantito. Infatti, trattandosi di monopoli naturali, l’esito della legge sarà quello di passare da monopoli-oligopoli pubblici a monopoli-oligopoli privati, assoggettando il servizio non più alle clausole di certezza dei servizi delineati dall’Unione Europea, ma alla copertura dei costi ed al raggiungimento del massimo dei profitti nel minor tempo possibile.

Le due grandi multinazionali Suez e Veolia, anche attraverso il supporto logistico di compiacenti imprese locali, sono pronte al grande ultimo assalto, ma anche per le utility di derivazione comunale oggi quotate a piazza affari, il decreto Ronchi potrà rappresentare a danno dei cittadini, dell’ambiente, della salute e non da ultimo dell’occupazione, una grande occasione da non perdere.

Come giuristi viene da sorridere quando si leggono alcune affermazioni quali quelle espresse da Roberto Passino, attuale presidente del Co.N.Vi.R.I. (Commissione Nazionale di Vigilanza sulle Risorse Idriche) il quale, in merito all’acqua, al Sole 24 ore di giovedì 19 novembre, ha dichiarato che poca conta se il gestore sia una S.p.A. controllata dal pubblico o dal privato, conta che tutte le leggi confermino da anni l’acqua come bene pubblico, che gli impianti idrici sono tutti di proprietà pubblica, che l’organismo di controllo è pubblico e che la formazione delle tariffe è in mano pubbliche.

Purtroppo le cose non stanno cosi’. Anche studenti del primo anno di economia o di diritto sanno bene che tra proprietà formale del bene e delle infrastrutture e gestione effettiva del servizio vi è una tale asimmetria d’informazioni, al punto da far parlare di proprietà formale e proprietà sostanziale, ovvero il proprietario reale è colui che gestisce il bene ed eroga il servizio.

Sappiamo bene quale é la debolezza dei controlli e la loro pressoché totale incapacita’ di incidere sulla governance della società, sappiamo bene quanto è debole e ricattabile politicamente, e non solo, tutta la dimensione tecnocratica delle autorità di regolazione. Ma soprattutto sappiamo bene che il governo e il controllo pubblico diventano pressoché nulli nel momento in cui ci si trova dinanzi a forme giuridiche di diritto privato, regolate dal diritto societario.

Si abbandonino dunque una volta per tutte queste ipocrisie che ruotano intorno alle false dicotomie pubblico-privato, proprietà-gestione e si affermi finalmente che un bene è pubblico se è gestito da un soggetto formalmente e sostanzialmente pubblico, nell’interesse esclusivo della collettività, e che gli eventuali utili devono essere rinvestiti nel servizio pubblico o eventualmente in altre attività dal forte impatto sociale, ricadenti nel territorio. Altrimenti diverra’ difficile far comprendere ai cittadini che le false liberalizzazioni non sono che nuovi trasferimenti di risorse comuni dal pubblico al privato, che determinano una crescita dei prezzi delle commodities e dei beni e servizi annessi, così come un aumento dei prezzi finali dei servizi di pubblica utilità. Si configurerà cosi’ un governo iniquo dei servizi pubblici essenziali, che inibirà la sua fruizione proprio a quella parte dei cittadini che ne avrebbe più bisogno. Una legislazione che colpisce al cuore dunque la nostra Costituzione ed in particolare i principi di eguaglianza, solidarietà e di coesione economico-sociale e territoriale.

Questa legge, attraverso la svendita di proprietà pubbliche, serve al governo “per far cassa”, o al piu’ per compensare i comuni dei tagli di risorse delineati in finanziaria.

È veramente triste pensare che i grandi principi ispiratori della nostra Carta costituzionale, che avevano negli anni posto le basi e legittimato il governo pubblico dell’economia, secondo una logica ed una prospettiva di tutela effettiva dei diritti fondamentali, finiscano mortificati al fine di favorire qualche gruppo industriale straniero ed italiano: una maggioranza trasversale proclama principi liberisti ma introduce al contrario posizioni di rendita privata che saranno poi impossibili da sradicare.

Si riparta dunque dalla legge di iniziativa popolare, dal testo della commissione Rodotà e dal suo preciso obiettivo di governare i beni pubblici e i beni comuni nell’interesse dei diritti fondamentali della persona e soprattutto nel rispetto dei principi costituzionali.

2. Oggetto dei quesiti referendari:

ripristinare la gestione pubblica di tutta l’ acqua

concepita come bene comune.

Al fine di recidere le basi culturali e tecnico-gestionali della privatizzazione dei servizi pubblici essenziali, attraverso il decreto Ronchi, si è pensato con la redazione dei seguenti tre quesiti di concentrarsi in questa fase referendaria sul bene comune pubblico per eccellenza: l’acqua.

Una battaglia di più ampie proporzioni che investe beni comuni, beni sociali e beni sovrani ad appartenenza pubblica necessaria va invece portata avanti in parlamento attraverso lo schema di disegno-legge delega per la riforma di quelle parti del codice civile (proprietà pubblica) “mercantili” e disarmoniche rispetto al quadro costituzionale (lavori commissione Rodotà).

Così come parallelamente continua a fare il suo corso il progetto di legge ad iniziativa popolare sulla ripubblicizzazione dell’acqua che, se approvato, introdurrebbe in Italia, una disciplina omogenea ed efficace su tutto il territorio nazionale e sistematica di settore, sia dal punto di vista dei principi, che delle regole e degli aspetti gestionali.

I quesiti referendari dunque che si vanno a presentare sono tre:

1. Abrogazione dell’art. 23 bis (12 commi) della l. n. 133 del 2008 relativo alla privatizzazione dei servizi pubblici di rilevanza economica;

2. abrogazione dell’art. 150 (quattro commi) del d. lgs. n. 152 del 2006 (c.d. codice dell’ambiente), relativo alla scelta della forma di gestione e procedure di affidamento, segnatamente al servizio idrico integrato;

3. abrogazione dell’art. 154 del d. lgs n. 152 del 2006 (c.d. codice dell’ambiente), limitatamente a quella parte del comma 1 che dispone che la tariffa costituisce il corrispettivo del servizio idrico integrato ed è determinata tenendo conto della remunerazione del capitale investito.

3. Argomentazioni a supporto del quesito referendario n. 1.

In via preliminare, va osservato che la giurisprudenza della Corte costituzionale nei giudizi di ammissibilità è estremamente ondivaga e di difficile interpretazione, utilizzando la stessa parametri elastici e principi eterogenei per giudicare di volta in volta i quesiti referendari.

Detto ciò, in merito al quesito n. 1, va rilevato che trattasi di una norma collocata all’interno di un provvedimento relativo allo sviluppo economico, alla semplificazione, alla competitività, alla stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria. Dunque, si è in presenza di una norma che da un punto di vista formale non presenterebbe limiti espliciti ed impliciti di ammissibilità referendaria. Tuttavia, l’ambiguo, strumentale e pretestuoso incipit dell’art. 23 bis così recita: “..le disposizioni del presente articolo disciplinano l’affidamento e la gestione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica in applicazione della disciplina comunitaria”.

Pertanto, tale disposizione, pur nella sua genericità - non sono infatti esplicitate le fonti comunitarie di riferimento che dovrebbe “applicare” - si “auto-proclamerebbe” norme di attuazione di obblighi comunitari. Come è noto, vi è un orientamento della Corte che tende a ritenere inammissibili i quesiti se violativi di obblighi comunitari, se relativi alla controversa figura delle c.d. “leggi comunitariamente necessarie”. In sostanza la Corte costituzionale, partendo dal limite degli obblighi internazionali sancito dall’art. 75 Cost., ha elaborato una giurisprudenza che ad essa riconduce il limite delle “leggi comunitariamente necessarie”.

Con le sentenze nn. 31, 41 e 45 del 2000 la Consulta non ha ritenuto ammissibile il referendum su quelle leggi che sono indispensabili affinché lo Stato italiano non risulti inadempiente rispetto agli obblighi comunitari, dal momento che l’eliminazione di tali norme è possibile solo con la contemporanea introduzione di disposizioni conformi al diritto dell’Unione Europea.

Queste precisazioni inducono alla dovuta prudenza, anche se da un punto di vista formale potrebbero essere superate evidenziando la natura diversa, non comunitaria, del provvedimento nel quale è inserita la disposizione, e da un punto di vista sostanziale si potrebbe sostenere che la norma in oggetto, al di là del generico richiamo alla disciplina comunitaria, non è direttamente attuativa di obblighi comunitari, e dunque non dovrebbe essere interpretata dalla Corte come “norma comunitariamente necessaria”.

Il regime concorrenziale ed il ricorso alle regole competitive del mercato, volute dal diritto comunitario, infatti sono già presenti nei modelli espressi dalla normativa vigente, tanto è che, al di là delle alchimie dell’ in house e del relativo controllo analogo, non pongono lo Stato italiano in posizione inadempiente nei confronti del diritto comunitario.

Se è vera, come è vera, la pretestuosità del richiamo al diritto comunitario, il testo oggetto del quesito referendario, nell’ambito dell’attuale assetto normativo, esprime una scelta politica, rafforzando due dei tre vigenti modelli: il regime privatistico tout court ed il regime misto (pubblico-privato). Invece, il modello dell’affidamento diretto in house viene posto come deroga ed eccezione. Si tratta di una scelta politica che più che incidere sul regime della concorrenza incide sugli assetti proprietari (pacchetti azionari e infrastrutture), ponendosi in contrasto con il principio comunitario della neutralità rispetto agli assetti proprietari.

Pertanto, l’abrogazione di tale norma non dovrebbe porre lo Stato italiano in una posizione di inadempienza rispetto agli obblighi comunitari, la norma in oggetto non andrebbe intesa quale “legge comunitariamente necessaria” ed il quesito referendario dovrebbe essere tendenzialmente ritenuto ammissibile dalla Corte Costituzionale.

Oltre alla problematica legata alle c.d.” leggi comunitariamente necessarie” va evidenziato che il referendum sull’art. art. 23 bis “aggredisce” una norma che ha per oggetto tutti servizi pubblici locali di rilevanza economica, dunque oltre all’acqua molto altro. La Corte dunque in sede di ammissibilità potrebbe sollevare obiezioni circa la congruità del fine perseguito rispetto al quesito proposto che appunto inciderebbe su tutti i servizi pubblici locali a rilevanza economica. La Corte potrebbe dichiarare che la richiesta referendaria non sarebbe idonea a conseguire lo scopo dichiarato andando ultra petita.

Anche queste possibili osservazioni, che potrebbero provenire dalla Corte, se da una parte ci inducono a procedere con la giusta prudenza e consapevolezza di un percorso incerto, dall’altra potrebbero essere superate, laddove ben evidenziata la coerenza e l’omogeneità del quesito in sé, ancor più se letto in collegamento sistematico con gli altri due quesiti. Infatti, i quesiti contengono, come espressamente voluto dalla Corte, una matrice razionalmente unitaria, dal carattere dell’omogeneità, che permetterebbe all’elettore il voto consapevole su una domanda strutturata in maniera inequivocabile[2]. L’obiettivo, nella sua unitarietà ed omogeneità, si propone in maniera netta di ripubblicizzare il servizio idrico integrato, ponendolo al di fuori delle regole del mercato ed affidando ad un soggetto “realmente” pubblico la gestione. Il quesito, come vuole la Corte, incorpora “ l’evidenza del fine intrinseco all’atto abrogativo”, esprime una netta e chiara alternativa al modello di cui all’art. 23 bis, che dovrebbe contribuire al giudizio di ammissibilità[3]. Per completezza, va anche detto che la varietà di qualificazioni che la giurisprudenza della Corte tende a conferire al criterio dell’omogeneità del quesito ha spinto parte della dottrina (Cariola) ad intravedere in tale categoria diversi segni di affinità con il giudizio sulla ragionevolezza delle leggi.

Ma la preoccupazione dei giudici costituzionali risiede oltre che nella valutazione in sé della struttura formale del quesito, finalizzata a consentire la consapevole manifestazione del voto popolare, anche nel tipo di effetti che potrebbero scaturire sulla normativa risultante dall’abrogazione a mezzo di referendum (Pizzolato-Satta). La Corte s’impone di verificare che l’abrogazione popolare lasci indenne “una coerente normativa residua immediatamente applicabile”[4]. Tale impostazione non va erroneamente intesa come una forma per legittimare referendum propositivi, ottenute dalla manipolazione del testo legislativo. Sul punto, è la Corte stessa che rigetta la categoria dei referendum propositivi quale risultanza della manipolazione normativo-abrogativa, affermando che sarebbe la legge stessa o singole disposizioni di essa a contenere una capacità operativa[5]. In sostanza, da parte della Corte vi sarebbe una netta accettazione dei referendum manipolativi, non intendendoli quali referendum dal carattere propositivo.

Comunque, nel caso di specie, l’abrogazione totale dell’art. 23 bis, non soltanto è al di fuori dalle ipotesi del referendum manipolativo, ma altresì non genererebbe un vuoto normativo, infatti la gestione del servizio idrico potrebbe essere affidata, anche nel caso di abrogazione referendaria dell’art. 150 del d.lgs. n. 152 del 2006, in conformità a quanto previsto dal vigente ’art. 114 TUEL del 2000, ovvero in affidamento diretto all’azienda speciale, eventualmente anche organizzata in forma consortile.

Tali aziende, gestendo servizi privi di rilevanza economica, estranei alla logica tariffaria della prestazione e della controprestazione (principio del corrispettivo), quanto meno per quanto attiene all’erogazione del minimo vitale, così come determinato dall’Organizzazione mondiale della sanità, non sarebbero sottoposte all’obbligo di cui al comma 8 dell’art. 35 della legge finanziaria 448 del 2001, ovvero all’obbligo di trasformarsi in s.p.a. Si introdurrebbe, in attesa dell’approvazione della legge di iniziativa popolare, tale da sistematizzare gli aspetti organizzativi e funzionali, un modello di gestione “realmente” pubblico.

Detto questo, va evidenziato che la sola abrogazione dell’art. 23 bis determinerebbe di fatto la reviviscenza dei modelli di gestione di cui all’art. 113 del testo unico degli enti locali di cui al d.lgs. n. 267 del 2000. Quindi non si reintrodurrebbe una vera ripubblicizzazione del servizio idrico integrato e i soggetti aggiudicatari sarebbero ancora liberi di scegliere tra modello privato, modello misto (cfr. sentenze Corte di giustizia nelle cause C-29/04, C-410/04) e modello in house.

Ma, in particolare, ciò che svilirebbe l’esito referendario, laddove incentrato soltanto sull’art. 23 bis è che tale abrogazione lascerebbe del tutto inalterate le gestione miste, private e in house affidate e tuttora operanti, sulla base dell’art. 113 TUEL, sul territorio nazionale. Proprio quelle gestioni che hanno generato un peggioramento del servizio, un aumento delle tariffe ed una netta riduzione degli investimenti di natura infrastrutturale.

Si riproporrebbe la problematica inerente agli affidamenti in house, più volte evidenziata dalla Corte di Giustizia (sentenze della Corte di giustizia nelle cause C-26/03[6], C-84/03, C-29/04[7], C-231/03, C- 340/04[8], C-573/07[9]) e dal Consiglio di Stato (Cons. St., Ad. Pl. 3 marzo 2008 n. 1; parere Sez. II n. 456/2007; Cons. St., sezione V, decisione 9 marzo 2009, n. 1365[10]; Cons. St. Sez. Vdecisione 28 novembre 2007 – 23 gennaio 2008, n. 136[11]; Cons. St. Sez. V sentenza 23 ottobre 2007, n. 5587[12]; Cons. St.Sez. Vdecisione 18 settembre 2007, n. 4862[13]; Cons. St.Sez. VIsentenza 1 giugno 2007, n. 2932[14]; Cons. St. Sez. VI sentenza 3 aprile 2007, n. 1514[15]; Cons. St. Sez. VI, n. 1514 del 3 marzo 2007[16]) e l’obiettiva difficoltà da parte dell’ente locale ad esercitare sulla società pubblica quel controllo analogo, così come formulato e richiesto dalla giurisprudenza comunitaria (sentenze della Corte di giustizia nelle cause C-26/03, C-458/03[17]).

Rimarrebbe inalterato, in tutta la sua drammatica intensità, il problema della gestione diretta attraverso società pubbliche che fisiologicamente esprimono forme giuridiche inidonee, per la fonte normativa che le regolamenta (diritto societario), a svolgere realmente una funzione sociale e di preminente ed assoluto interesse generale. Infatti, alcuna norma, ancor meno di livello statutario, può garantire che una volta affidato il servizio, tali società non tendano anche attraverso gli artifizi delle scatole cinesi, alla diversificazione delle funzioni (fenomeno delle multiutilties) e alla delocalizzazione dell’attività con buona pace dei livelli occupazionali (sentenze della Corte di giustizia nelle cause C-26/03, C-458/03).

In estrema sintesi, presentarsi dinanzi al corpo elettorale, attraverso il referendum abrogativo, per chiedere la ripubblicizzazione dell’acqua, senza chiedere l’abrogazione dei modelli di gestione privatistica, sarebbe una truffa nei confronti dei cittadini. Quindi l’abrogazione dell’art. 23 bis, in merito alla gestione delle risorse idriche, avrebbe quale unico obiettivo di riequilibrare il rapporto tra i tre modelli di gestione, lasciando inalterato il processo di privatizzazione in corso. La presentazione del solo quesito referendario relativo all’art. 23 bis, risulterebbe dunque necessaria, ma non sufficiente a ripristinare in Italia il governo pubblico dell’acqua, non vi sarebbe un’assoluta congruità del mezzo al fine, tra l’intento chiaramente percepibile dalla formulazione del quesito e l’idoneità dell’abrogazione referendaria alla sua realizzazione[18].

4. Argomentazioni a supporto del

quesito referendario n. 2

Il ragionamento di cui al paragrafo 3, ci ha indotto a non fermarci appunto all’art. 23 bis ma a presentare altresì il quesito referendario per abrogare anche l’art. 150 del d.lgs. n. 152 del 2006. Articolo (seppur norma di carattere speciale) al momento abrogato implicitamente dall’art. 23 bis, ma che rivivrebbe dal momento della sola abrogazione dell’art. 23 bis.

Tale articolo, ai commi 1, 2 e 3 richiama espressamente l’art. 113 del d.lgs. n. 267 del 2000, rinviando a tale norma per i modelli di gestione. In sostanza, l’abrogazione di tale disposizione, limitatamente al servizio idrico integrato, non consentirebbe più il ricorso ai suddetti tre modelli di gestione. È evidente che per i servizi pubblici locali, diversi da quello idrico, tali modelli continuerebbero ad essere vigenti.

Come si è anticipato, in questo scenario abrogativo rimane ovviamente vigente l’art. 114 del d.lgs n. 267 del 2000 relativo all’azienda speciale. Ciò significa che, limitatamente al servizio idrico integrato, gli enti aggiudicatari potranno legittimamente affidare il servizio ad un’azienda speciale, estranea agli obblighi di cui all’art. 35 della l. n. 448 del 2001, ciò in assoluta coerenza con il vero spirito pubblicistico contenuto nel progetto di legge ad iniziativa popolare e in assoluta armonia con lo spirito di fondo del progetto formulato dalla Commissione Rodotà.

A seguito dell’abrogazione di tale disposizione, la gestione del servizio idrico, in attesa dell’approvazione della legge-quadro nazionale ad iniziativa popolare, potrebbe dunque essere affidata ad un ente sostanzialmente e formalmente pubblico, scongiurando ipotesi di vuoti normativi.

Il servizio diverra’ cosi’ strutturalmente e funzionalmente “privo di rilevanza economica” - la cui qualificazione, anche alla luce del protocollo n. 26 del Trattato di Lisbona può essere determinata dai livelli di governo più vicino ai cittadini - sarà nuovamente di interesse generale e il diritto all’acqua, quanto meno per i cinquanta litri giornalieri (igiene, salute, alimentazione), sarà assolutamente estraneo a logiche tariffarie, ponendo i relativi costi a carico della fiscalità generale.

In questo modo il diritto all’acqua riacquisterebbe a pieno titolo il suo status di diritto umano e diritto fondamentale dei cittadini, assolutamente, nella sua quantità vitale, non subordinabile a qualsiasi logica mercantile ed economica di profitto, da gestirsi anche “nell’ interesse delle generazioni future” secondo la definizione del progetto Rodota’.

5. Argomentazioni a supporto del

quesito referendario n. 3

Si ritiene poi che il terzo quesito sia necessario per incidere e quindi abrogare la logica del profitto contenuta in una parte del comma 1 dell’art. 154 del d.lgs. n. 152 del 2006. In particolare, s’intende abrogare quella parte che afferma che “la tariffa costituisce il corrispettivo del servizio idrico ed è determinata tenendo conto…..dell’adeguatezza della remunerazione del capitale investito”.

Si tratta di un’abrogazione parziale, ovvero soltanto di alcune parti del complesso normativo, ma il quesito possiede una sua integrità semantica che dovrebbe difenderlo dinanzi ad eventuali obiezioni della Corte che lo tendessero a qualificare come referendum manipolativo. Tra l’altro, come si è detto, la stessa Corte, rigettando la tesi del ritaglio e della manipolazione come strumenti di mistificazione tesi ad affermare forme di referendum propositivo, ha affermato che sarebbe la legge o singole disposizioni di essa a contenere intrinsecamente una propria capacità operativa, in grado di resistere ad eventuali ablazioni relative a formule grammaticali o linguistiche, dalle quali scaturirebbe una nuova disciplina già presente in potenza nell’originaria versione[19]. In linea dunque con la Corte scaturisce una nuova disciplina, che tende a rendere estraneo alle logiche del profitto il governo e la gestione dell’acqua, ancora una volta dunque un tassello che va inquadrato nel complesso sistematico dei quesiti referendari.

In sostanza per rafforzare il modello pubblicistico estraneo alle logiche mercantili occorre abrogare tale inciso in quanto allo stato consente al gestore di fare profitti sulla tariffa e quindi sulla bolletta. In particolare con tale norma il gestore, al fine di massimizzare i profitti (remunerazione del capitale) carica sulla bolletta dell’acqua un 7%. Tale percentuale costituisce un margine di profitto, assolutamente scollegato da qualsiasi logica di reinvestimento per il miglioramento qualitativo del servizio. La sola logica accettabile per l’ acqua come bene comune e’ viceversa quella del “no profit”.

I cittadini dunque con la vigenza di tale norme sono doppiamente vessati, in quanto da una parte il bene acqua è commercializzato e inteso alla stregua di qualsiasi altre bene economico e dall’altra sono obbligati, per consentire ulteriori proifitti al gestore, di pagare in bolletta un surplus del 7%.

Attraverso la presentazione di questi tre quesiti, letti ed interpretati secondo un collegamento sistematico, può effettivamente partire una grande battaglia di civiltà e di tutela per i diritti fondamentali, che potrebbe successivamente essere estesa a tutti i beni comuni. Si tratta di iniziare operativamente ad invertire la rotta per ripristinare il governo pubblico dell’acqua al di fuori e contro qualsiasi logica mercantile, di saccheggio e di profitto.

Roma, 5.2.2010Gaetano Azzariti, Gianni Ferrara, Alberto Lucarelli, Ugo Mattei, Stefano Rodotà

[1] A fine 2009 il processo affaristico di dismissione e svendita del patrimonio pubblico continuava, nascondendosi dietro il federalismo demaniale

[2] Corte costituzionale n. 16 del 1978.

[3] Corte costituzionale n. 29 del 1987.

[4] Corte costituzionale n. 32 del 1993, n. 47 del 1991, 13 del 1999.

[5] Corte costituzionale n. 33 del 2000.

[6] Un'autorità pubblica, che sia un'amministrazione aggiudicatrice, ha la possibilità di adempiere ai compiti di interesse pubblico ad essa incombenti mediante propri strumenti, amministrativi, tecnici e di altro tipo, senza essere obbligata a far ricorso ad entità esterne non appartenenti ai propri servizi. In tal caso, non si può parlare di contratto a titolo oneroso concluso con un entità giuridicamente distinta dall'amministrazione aggiudicatrice. Non sussistono dunque i presupposti per applicare le norme comunitarie in materia di appalti pubblici.

La partecipazione, anche minoritaria, di un'impresa privata al capitale di una società alla quale partecipi anche l'amministrazione aggiudicatrice, esclude in ogni caso che tale amministrazione possa esercitare sulla detta società un controllo analogo a quello che essa esercita sui propri servizi.

Pertanto, nell'ipotesi in cui un'amministrazione aggiudicatrice intenda concludere un contratto a titolo oneroso relativo a servizi rientranti nell'ambito di applicazione ratione materiae della direttiva 92/50, come modificata dalla direttiva 97/52, con una società da essa giuridicamente distinta, nella quale la detta amministrazione detiene una partecipazione insieme con una o più imprese private, le procedure di affidamento degli appalti pubblici previste dalla citata direttiva debbono sempre essere applicate.

[7] qualora un’autorità aggiudicatrice sia intenzionata a concludere un contratto a titolo oneroso, riguardante servizi che rientrano nell’ambito di applicazione materiale della suddetta direttiva, con una società giuridicamente distinta da essa, nel capitale della quale detiene una partecipazione con una o più imprese private, devono essere in ogni caso applicate le procedure di appalto pubblico previste da tale direttiva.

[8] Qualora l’eventuale influenza dell’amministrazione aggiudicatrice venga esercitata mediante una società holding, l’intervento di un siffatto tramite può indebolire il controllo eventualmente esercitato dall’amministrazione aggiudicatrice su una società per azioni in forza della mera partecipazione al suo capitale.

[9] Nel caso in cui il capitale della società aggiudicataria è interamente pubblico e in cui non vi è alcun indizio concreto di una futura apertura del capitale di tale società ad investitori privati, la mera possibilità per i privati di partecipare al capitale di detta società non è sufficiente per concludere che la condizione relativa al controllo dell'autorità pubblica non è soddisfatta. L'apertura del capitale rileva solo vi è un'effettiva prospettiva di ingresso di soggetti privati nella compagine sociale, altrimenti, il principio di certezza del diritto esige di valutare la legittimità dell'affidamento in house sulla base della situazione vigente al momento della deliberazione dell'Ente locale affidante.

L'attività della società in house deve essere limitata allo svolgimento dei servizi pubblici nel territorio degli enti soci, ed è esercitata fondamentalmente a beneficio di questi ultimi.

Nel caso di specie, anche se il potere riconosciuto alla società aggiudicataria, di fornire servizi ad operatori economici privati è meramente accessorio alla sua attività principale, l'esistenza di tale potere non impedisce che l'obiettivo principale di detta società rimanga la gestione di servizi pubblici. Pertanto, l'esistenza di un potere siffatto non è sufficiente per ritenere che detta società abbia una vocazione commerciale che rende precario il controllo di enti che la detengono.

[10] «Il requisito del controllo analogo non sottende una logica “dominicale”, rivelando piuttosto una dimensione “funzionale”: affinché il controllo sussista anche nel caso di una pluralità di soggetti pubblici partecipanti al capitale della società affidataria non è dunque indispensabile che ad esso corrisponda simmetricamente un “controllo” della governance societaria.»

[11] E’ illegittimo l’affidamento senza gara di un servizio pubblico, quando manca il requisito del controllo analogo: nel caso di specie, infatti, l’ente affidatario, presentava lo statuto di una normale società per azioni, senza alcun raccordo tra gli enti pubblici territoriali e la costituzione degli organi sociali.

[12] In tema di appalto, la possibilità di ingresso nella società di nuovi soggetti pubblici potrebbe essere ammessa, legittimamente, nel solo caso di in house providing (con partecipazione totalitaria pubblica).

[13] Nel caso di costituzione di società miste per l’affidamento diretto di servizi pubblici locali non occorre che la società sia costituita al solo scopo di gestire proprio quel determinato servizio pubblico oggetto dell’affidamento, ben potendo lo statuto della società comprendere finalità più ampie, ed ottenere per esse, l’affidamento diretto di servizi pubblici.

[14] Non è obbligatorio l’avvio del procedimento ad evidenza pubblica quando: - l’amministrazione esercita sul soggetto affidatario un "controllo analogo" a quello esercitato sui propri servizi; - il soggetto affidatario svolge la maggior parte della propria attività in favore dell’ente pubblico di appartenenza. La partecipazione pubblica totalitaria è elemento necessario, ma non sufficiente, per integrare il requisito del controllo analogo; sono necessari maggiori strumenti di controllo da parte dell’ente pubblico rispetto a quelli previsti dal diritto civile: - il consiglio di amministrazione della s.p.a. in house non deve avere rilevanti poteri gestionali e l’ente pubblico deve poter esercitare maggiori poteri rispetto a quelli che il diritto societario riconosce alla maggioranza sociale; - l’impresa non deve aver «acquisito una vocazione commerciale che rende precario il controllo» dell’ente pubblico e che può risultare, tra l’altro, dall’ampliamento dell’oggetto sociale; dall’apertura obbligatoria della società ad altri capitali; dall’espansione territoriale dell’attività della società a tutta il territorio nazionale e all’estero; - le decisioni più importanti devono essere sottoposte al vaglio preventivo dell’ente affidante.

[15] La delibera di affidamento in house di lavori di restauro di beni culturali è illegittima: tale procedimento di assegnazione deve essere espressamente ammesso dalla normativa di settore, trattandosi di eccezione al principio generale dell’evidenza pubblica; ne segue l’obbligo di risarcimento dei danni in favore dei lavoratori coinvolti, sub specie di perdita di chance subita da questi ultimi perchè sono stati ingiustamente privati della possibilità di partecipare alla gare pubbliche che il Comune avrebbe indetto se avesse operato correttamente.

[16] «in ragione del “controllo analogo” e della “destinazione prevalente dell’attività”, l’ente in house non può ritenersi terzo rispetto all’amministrazione controllante ma deve considerarsi come uno dei servizi propri dell’amministrazione stessa»

[17] Gli artt. 43 CE e 49 CE nonché i principi di parità di trattamento, di non discriminazione e di trasparenza devono essere interpretati nel senso che ostano a che un’autorità pubblica attribuisca, senza svolgimento di pubblica gara, una concessione di pubblici servizi a una società per azioni nata dalla trasformazione di un’azienda speciale della detta autorità pubblica, società il cui oggetto sociale è stato esteso a nuovi importanti settori, il cui capitale deve essere a breve termine obbligatoriamente aperto ad altri capitali, il cui ambito territoriale di attività è stato ampliato a tutto il paese e all’estero, e il cui Consiglio di amministrazione possiede amplissimi poteri di gestione che può esercitare autonomamente.

[18] Corte costituzionale n. 35 del 2000, n. 36 del 2000, n. 43 del 2000, n. 48 del 2000.

[19] Corte cost. n. 33 del 2000.

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