Introduzione
ad Antonio Iannello
Conobbi Antonio Iannello una notte di novembre del 1980. Ero molto giovane e il settimanale al quale collaboravo mi spedì a Napoli per cercare risposte a un quesito: cosa sarebbe successo nel capoluogo campano se il terremoto che aveva qualche giorno prima flagellato l'intera regione avesse avuto come epicentro non l'Irpinia bensì la stessa Napoli? Quesito singolare, appartenente ad un genere di fanta-catastrofismo di cui i giornali spesso si nutrono. Napoli era ancora preda del panico, stretta in un groviglio di traffico che affaticava il suo respiro e ne immobilizzava le funzioni vitali. Avevo poche nozioni sulla storia urbanistica della città, ma intuivo che da lì dovessi prendere le mosse. Più che conoscenze, nel corso degli anni avevo raccolto immagini - le immagini di un accatastamento edilizio che aveva smarrito ogni logica sia estetica che costruttiva. Era necessario che qualcuno, senza troppo sottilizzare sulla plausibilità del quesito e sui rumori sinistri che emetteva, mi aiutasse per davvero a capire quali danni avrebbe avuto Napoli con il suo sovrabbondante carico edilizio se il suo sottosuolo avesse tremato molto più di quanto effettivamente tremò ;. Chiesi ad un paio di persone e la risposta fu univoca: Antonio Iannello.
Il suo nome non mi era nuovo. Lo associavo ad una persona ma soprattutto ad una sagoma che mi era rimasta scolpita nella memoria e che ancora produceva un qualche stridore quando tornava alla mente. Quella sagoma balzava all'attenzione per via del contesto del tutto improprio nel quale la collocavo. Non saprei dire l'anno preciso, ma il luogo sì: la casa napoletana di Gerardo Marotta, in Viale Calascione, interamente ornata di librerie neoclassiche che incorniciavano una serie di balconate a picco sul golfo. Si celebrava l'inaugurazione dell'anno accademico dell'Istituto italiano per gli studi filosofici, una creatura da poco partorita per iniziativa di Marotta, un avvocato napoletano che in gioventù aveva frequentato, contemporaneamente, casa Croce e alcuni circoli culturali dove si faceva, da sinistra, la fronda al Pci. Marotta aveva allestito un istituto di alta cultura, invitando personalità della filosofia internazionale, storici e giuristi. Era una specie di Arcadia nel disordine civile e politico napoletano, che però coniugava storia delle idee e impegno. Molta parte delle spese Marotta le aveva sostenute attingendo ai fondi di famiglia e al suo lavoro di avvocato, essendo grande esperto di diritto amministrativo. Durante il cocktail che seguì le relazioni accademiche, era difficile sfuggire, fra tanti professori compiti, all'impressione suscitata da un signore distinto, sorridente, lo sguardo arguto, spettinato e infagottato in un vestito grigio scuro, vagamente gessato e di almeno tre taglie superiore al dovuto. Alla camicia bianca, con il colletto appuntito, era annodata malamente una cravatta di austera fattura, ma sfarzosamente antiquata. Dalla spalla pendeva una borsa nera, di finta pelle, sdrucita in più punti e talmente ricolma di carte da apparire completamente deforme. Quel signore aveva familiarità con molti dei presenti. In bocca stringeva un sigaro che toglieva solo quando si inchinava, cerimonioso, a salutare qualcuno, allargando il quadrante del volto e illuminandolo con un sorriso squillante. Seppi solo che si chiamava Iannello, che era fra gli animatori dell'istituto e che faceva l'architetto.
Di lui non avevo più sentito parlare e quella figura, con il suo carico di irregolare decoro, di sorridente stramberia, l'avevo sistemata nel vasto repertorio degli stravaganti napoletani, una categoria antropologica che ha una specifica dignità, e non può essere assimilata ad un qualunque rango folklorico.
Era trascorso qualche anno da quella sera, ma la sagoma di Iannello si materilizzò in un istante quando mi fu pronunciato il suo nome consigliandomi di rivolgermi a lui. Lo cercai e a fatica riuscii a parlargli al telefono. Mi fissò un appuntamento nella sua casa in via Manzoni, un promontorio tufaceo che conduce all'estremità di Posillipo. Aggiunse che lo avrei trovato non prima delle dieci di sera. A quell'ora ero da lui. Ma Iannello non era ancora tornato. Mi aprì sua moglie, che mi fece accomodare in salotto. Lei, con i due figli, era a tavola e stava terminando la cena, alla quale con molta cortesia chiese se volessi unirmi. Declinai l'invito e mi sedetti su un divano, di fronte a loro. Il tempo, trascorrendo, accresceva l'imbarazzo di tutti.
Iannello arrivò qualche minuto dopo le due. Sua moglie e i ragazzi erano andati a letto e io lo avevo atteso sonnecchiando. La notte avanzava e il cielo nuvoloso, che a tratti mandava spruzzi di pioggia, si copriva di un innaturale velo giallognolo. Non erano immagini trasfigurate dal sonno. Anche il soffitto della stanza si tingeva di un colore che ricordava la senape. Ogni tanto dal terrazzo splendeva un bagliore intenso, che poi si smorzava come se fosse inghiottito dal buio. Impiegai qualche minuto a capire da dove avessero origine quei lampi sinistri. Il balcone di casa Iannello affacciava sul lato a nord della collina di Posillipo, verso il catino fumoso dei Campi Flegrei, gli speroni di Monte di Procida e capo Miseno. E la luce che si proiettava verso l'alto, mischiandosi a una polvere fuliginosa, saliva dai fari che illuminavano lo stabilimento dell'Italsider e gli altri capannoni industriali che si stendevano lungo l'arenile di Coroglio. Non so se a quell'ora si lavorasse, anche se ricordavo che in un impianto siderurgico gli altoforni non venivano mai spenti, liberando, anche di notte, quel miscuglio di luci e di polveri. Alle spalle delle industrie era cresciuto dai primi decenni del secolo un quartiere operaio, le cui facciate ingentilite dalla cura architettonica che spesso veniva riservata all'edilizia popolare, erano ricoperte da uno strato di grasso nero che le faceva sembrare una quinta oscura in tanto riverbero lunare. Non avevo mai visto l'Italsider da quel punto, con le sue lamiere ansimanti. Luogo denso di memorie arcaiche, di cui quelle luci erano casualmente le eredi, la piana di B agnoli si era arricchita nei decenni di un'altra mitologia, quella dei caschi gialli, gli operai siderurgici che rappresentavano il nerbo della sinistra napoletana. Quando sfilavano nei cortei quegli operai sfoggiavano la sicurezza aristocratica che derivava dalla loro forza. Parevano i guerrieri di un'antica falange.
Mi avevano detto che Iannello avrebbe voluto smantellare l'Italsider. Insieme ad altri protagonisti della vita pubblica napoletana sosteneva che quell'azienda costasse troppo in termini di resa economica e che gravasse insopportabilmente sulla salute dei napoletani, ai quali regalava un condensato di fumi. Non potevo immaginare, però, che quel gigante fosse sdraiato sotto i suoi occhi e che la mattina appena alzato Iannello ascoltasse il ronzìo e le colate dei forni, mentre osservava i bagliori affumicati che il vento faceva filtrare nelle fessure delle sue persiane. Avevo partecipato a tante manifestazioni con i caschi gialli e sapevo che chi voleva smontare l'Italsider era affetto da uno snobismo ecologista che gli faceva prediligere la qualità dell'aria, bene sovranamente immateriale e contemplativo, rispetto al riscatto materiale, un valore che agitava milioni di persone rotolate nella polvere del mondo e che a Napoli veniva issato rumorosamente da una massa di disoccupati che si sarebbe ingrossata ancora se l'Italsider avesse chiuso.
L'Italsider era dunque parte della vita di Iannello. L'origine dell'opposizione che nutriva verso quel colosso industriale si trovava nelle sue cellule olfattive, nelle fibre dei polmoni, prima che in un'aspirazione bucolica. Inoltre Iannello non viveva in una casa arredata a misura di una crociata elitaria che enumerava molti bei cognomi della genealogia nobiliare e borghese napoletana. Né quell'ambiente risentiva dei gusti, della cura funzionale che chiunque si sarebbe aspettato di trovare in un luogo abitato da un architetto. Una libreria con i montanti di metallo nero e gli scaffali di tek era appoggiata al muro, rigonfia di volumi e di fascicoli. Il divano era scomodo, consunto dall'uso. Un tavolo con il piano rotondo dello stesso stile, quello stile scandinavo razionale che andava di moda negli anni Sessanta, era sistemato al centro della stanza. Sulle altre pareti, invece, troneggiavano due mobili d'altra fattura, lascito spurio di diversi arredi, con una specchiera e qualche fregio. Niente di più impersonale.
Altri pensieri misero a subbuglio le mie idee durante quell'attesa. Da che parte stava quello strano architetto che, sapevo, si era battuto come una tigre contro le devastazioni della città? Le denunce contro la genìa dei costruttori e contro gli abusivi lo collocavano fra coloro che sognavano un destino diverso per Napoli. Ma allora perché, come mi avevano raccontato, qualche anno prima, alla fine di una manifestazione sindacale, qualcuno l'aveva afferrato per il bavero della giacca e lo aveva spintonato, urlandogli di smetterla con quella assurda opposizione all'ampliamento dell'Italsider?
Iannello rientrò a casa poco dopo le due. Fu come se ad aspettarlo ci fosse una sua vecchia conoscenza, tanta la naturalezza con la quale l'architetto si sedette a tavola iniziando a sgranocchiare del pane. Era come lo ricordavo. Leggermente più arruffato. Accostò sotto la sedia la pesante borsa di finta pelle nera, con la tracolla sgranata eppure ancora capace di reggere un inverosimile fardello di carta, giornali, libri e fascicoli. Mangiare a quell'ora, disse, gli faceva molto male. Ma non mangiare sarebbe stato peggio. Fuori casa non poteva toccare cibo, troppe creme, troppi sapori in quei panini che vendono al bar per uno stomaco come il suo, che si allarmava per una minestrina un po' più condita. Non si tolse la giacca, una incerata grigio scuro che continuò a sgocciolare pioggia sul pavimento.
Non fece una piega quando sentì quale quesito avrebbe dovuto aiutarmi a risolvere. Aveva cinquant'anni, il volto allungato, solcato dalla fatica di quei giorni, e i capelli corti, ognuno dei quali prendeva una direzione per conto suo. Da qualche tempo era segretario regionale di Italia Nostra. Chi lo conosceva, e lo apprezzava, faceva una certa fatica a metter ordine fra gli aggettivi che potessero rendere l'idea di come fosse fatto, tutti declinati sulla corda dell'eccesso. Una forza della natura, lo definì un amico. (Nel corso degli anni, ma non quella sera, potetti immaginare quali fossero invece gli attributi che gli riservavano coloro che lo avversavano). In pochi minuti il tavolo fu riempito di planimetrie. Sotto i suoi occhi acquistavano rilievo e prendevano ad assomigliare a quelle piante che vendono nelle località di montagna. La collina del Vomero si ispessiva e così il promontorio di Posillipo, seguito dalla piana di Fuorigrotta e dal rialzo disordinato degli Astroni e dei Camaldoli. Iannello raccontava la storia geologica della città come se fosse animata da eserciti di cavalieri, con la fuga di gallerie che attraversavano il suo ventre di tufo e che mal tolleravano quell'imponente ammasso di cemento, squarciando il velo delle strade che si inerpicavano verso la collina e inghiottendo nelle paurose voragini tutto quello che camminava in superficie. Raccontava della scellerata sventura di uomini che si erano alternati alla guida della città offrendo i propri servigi pubblici a quanti consumavano quel poco di territorio disponibile per edificarvi palazzi di cartapesta, ammassati uno sull'altro e affacciati su strade strettissime, lasciate senza aria e senza luce. E quando scarseggiava la risorsa del suolo, si inventavano moderne palafitte piantate sul costone di un pendìo.
Iannello maneggiava con impressionante dimestichezza la storia politica, sociale e amministrativa della città. Padroneggiava norme e regolamenti. Intrecciava vicende personali e pubbliche. Aveva un terribile difetto, che con gli anni sarebbe diventato parossistico: divagava. Da un filone centrale del discorso partivano decine di diramazioni, che lui riportava all'origine dopo che altri percorsi secondari si erano spalancati. Tentavo di mettere ordine con qualche domanda ogni volta che si int errompeva per riaccendere il sigaro. O quando scoppiava in una fragorosa risata. Ma gli sforzi erano vani. Il mio quaderno si imbrattava di frecce e cancellature. Smisi di prendere appunti.
Iannello raccontava del piano regolatore del 1939 e di come fosse stato manipolato da ignoti che di notte colorarono le mappe a vantaggio dei proprietari e dei costruttori. Una vicenda che banalmente definii "molto napoletana". Lui non colse. Quel piano nato in epoca fascista, diceva, era un buon piano - l'aveva redatto Lugi Piccinato - tant'è vero che gli amministratori laurini e democristiani fecero salti mortali per occultarlo e violarlo e quando vennero esaurite le risorse lecite qualcuno pensò che fosse opportuno prendere spatola e pastello e colorare.
Cominciava ad albeggiare quando arrivò a parlare del successivo piano regolatore, quello del 1972. E' una storia bellissima, aggiunse. Gliela racconto se lei mi giura di non scrivere nulla. Svagato e caotico, per un attimo il suo sguardo divenne intenso e indagatore. Voleva capire se poteva fidarsi. Gli diedi la mia parola e lui prese a narrare una vicenda ambientata fra il Comune di Napoli e il Ministero dei Lavori pubblici, la storia di una grande beffa consumata nel cuore della burocrazia con animo picaresco a vantaggio degli interessi pubblici contro la rapacità di chi voleva che a Napoli non sopravvivesse nulla di inedificato.
Ci salutammo poco dopo le sette del mattino, quando dalla cucina arrivarono i rumori delle tazze per la colazione. Sulla porta mi diede un fascicolo della rivista Urbanistica nella quale aveva pubblicato un saggio insieme a Vezio De Lucia che conteneva molte informazioni utili. "L'ho dato a tanti giornalisti, mai uno me l'ha restituito. E' l'ultima copia. Mi raccomando non faccia come i suoi colleghi".
Da quelle cinque ore di conversazione ricavai un articolo di trentacinque righe, un piccolo box in un servizio su altre vicende legate al terremoto. Qualche settimana dopo chiamai Iannello per rendergli Urbanistica . Gliel'avrei lasciato in portineria, non avendo il coraggio di leggergli in volto la delusione per le dimensioni in cui avevo strizzato le storie di quella notte. Per tutta la telefonata non parlò di quel pezzetto. Mi salutò. Stava già riagganciando, quando sollevò di nuovo la cornetta e disse: "Mi sembrava ci fosse tutto, no?".
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