La Repubblica, 12 marzo 2016
Il Cairo. «Posso dirvi quello che so. Per il bene della verità e di Giulio, che considero un figlio». Hoda Kamel, dell’Egyptian Center for Economic and social rights, è la donna che stava aiutando Giulio Regeni nelle sue ricerche sui sindacati. È stata tra le ultime a vederlo. Soprattutto, è testimone di alcune circostanze chiave che aiutano a comprendere perché, da un certo momento in poi, Giulio diventò oggetto delle attenzioni della Polizia e dell’Agenzia Nazionale per la Sicurezza, il Servizio segreto civile alle dipendenze del Ministero dell’Interno.
Quando ha incontrato Giulio per l’ultima volta?
«Il 19 gennaio, per parlare dell’ipotesi di un salario minimo in Egitto. Ci vedemmo qui all’Egyptian Center for Economic and social rights, dove sono responsabile dei dossier in materia di lavoro».
Lei è stata interrogata dalle autorità egiziane?
«Il 16 febbraio scorso. Sono stata sentita prima dall’Agenzia per la Sicurezza Nazionale e, successivamente, ma sempre nella stessa giornata dal pubblico ministero di Giza».
Cosa le hanno chiesto?
«Volevano sapere quando e come avessi conosciuto Giulio, che tipo di contributo avessi dato alle sue ricerche e, approssimativamente, quante volte lo avessi incontrato tra la fine di agosto del 2015 e il gennaio scorso. Anche se non so cosa stessero davvero cercando con le loro domande ».
Cosa?
«Furono stranamente cortesi e gentili. A cominciare dal modo con cui mi convocarono per testimoniare. Mi telefonarono senza ricorrere alla notifica ufficiale».
La stampa egiziana ha ripetutamente ipotizzato che il movente dell’omicidio potrebbe essere rintracciato nelle incomprensioni sorte tra Giulio e il sindacato degli ambulanti su un progetto di ricerca di 10 mila sterline inglesi che alla fine Giulio decise di accantonare. In particolare, si è fatto riferimento a un conflitto tra Giulio e Mohamed Abdallah, capo di quel sindacato. Un uomo dal curioso passato di giornalista per tabloid scandalistici. Lei che informazioni ha?
«Penso che quella vicenda possa in qualche modo aver giocato nel definire i presupposti di quello che è accaduto. Mi spiego meglio. Quelle incomprensioni potrebbero essere state alla base sia di una vendetta di Abdallah nei confronti di Giulio, ovvero l’occasione che le autorità hanno avuto per arrestarlo. Ma in un gioco ben più grande che ha a che vedere con lo scontro di potere in Egitto».
A quanto pare, Abdallah riteneva di dover ricevere parte delle 10 mila sterline con cui veniva finanziata la ricerca che Giulio aveva proposto e quando Giulio comunicò la sua intenzione di abbandonare il progetto Abdallah si risentì. È così?
«In realtà le cose stanno in modo diverso. Abdallah pensava che Giulio avesse deciso di rinunciare alla ricerca e quindi al finanziamento perché Giulio aveva a un certo punto smesso di parlarne con lui. In realtà, Giulio non aveva alcuna intenzione di lasciar cadere il progetto e rinunciare al suo finanziamento. Semplicemente, sapeva che la legge egiziana vieta donazioni dirette ai sindacati e dunque stava pensando a un modo alternativo per fare andare in porto il progetto. Aiutare gli ambulanti era un obiettivo di Giulio. Sfortunatamente, non abbiamo avuto abbastanza tempo per parlarne quando tornò in Egitto dalle vacanze di Natale».
Torniamo ad Abdallah e al suo sindacato. È vero che gli ambulanti sono normalmente utilizzati da Polizia e Servizi come informatori?
«È vero. Perché per stare in strada devono sottostare al controllo della Polizia. Per altro gli ambulanti furono utilizzati dal Regime durante la rivoluzione di piazza Tahrir per attaccare i manifestanti».
Proviamo a dirla così: è possibile ipotizzare che Abdallah, capo di un sindacato infiltrato da informatori, possa aver “venduto” Giulio agli apparati?
«Diciamo che io posso rispondere così. Sicuramente il capo del sindacato degli ambulanti potrebbe essere un “agente” della Polizia».
Nei giorni precedenti la sua scomparsa, Giulio le ha mai manifestato paura per qualcuno o qualcosa?
«Mai. Mi disse che Abdallah sosteneva di avere problemi finanziari ma non al punto da averne paura».
Quanti testimoni in questa storia tacciono per paura?
«Penso che i responsabili di questa vicenda siano negli apparati di sicurezza dello Stato e che se anche questo venisse alla fine ammesso, in ogni caso non si riuscirà a dargli un nome. Primo perché potrebbe trattarsi di qualche grosso papavero. Secondo, perché questo equivarrebbe ad ammettere che l’Egitto ha un governo criminale e questo non sarebbe tollerabile da Al Sisi, che vuole dare l’impressione di essere nel pieno controllo del sistema ».