«La stampa è, come si usa dire, il quarto potere. La separazione dei poteri porta con sé, come ha scritto Repubblica, la separazione dei doveri. E quindi il magistrato cerca le prove, il giornalista pubblica le notizie». Dice così Vladimiro Zagrebelsky, ex giudice della Corte europea dei diritti umani di Strasburgo.
La telefonata tra i Renzi padre e figlio ha riaperto lo scontro sulle intercettazioni. Ritiene che andasse pubblicata?
«Credo che si debba fare un discorso sui principi. Il magistrato accerta reati, segue le regole del processo, e non si occupa d’altro. Il giornalista fa un mestiere completamente diverso, deve informare l’opinione pubblica su tutto ciò che è importante per la vita democratica. E per questo la Corte di Strasburgo definisce i giornalisti “cani da guardia della democrazia”. E i cani da guardia sono lì per mordere, qualche volta».
Arriviamo alla “separazione dei doveri”, il dovere del magistrato di indagare, quello del giornalista d’informare. Pensa che uno di noi debba cercare e pubblicare tutte le notizie che trova, no?
«Il giornalista deve pubblicare le notizie che sono di interesse pubblico, non quelle che soddisfano solo la curiosità del pubblico. La distinzione tra penalmente rilevante e penalmente irrilevante per il giornalista, mi si passi il gioco di parole, non ha nessuna rilevanza. La pretesa per cui sarebbero pubblicabili solo le notizie penalmente rilevanti è priva di senso. E non acquista senso ripetendola all’infinito».
Forse, anche in stagioni politiche diverse, è utile alla politica tentare di imporla.
«Il “potere”, qualunque ne sia il colore, cerca di difendersi dai morsi che vengono da un’informazione non condizionata. Si tratta del pendant, sul piano dell’informazione, dell’altra regola che si è affermata in Italia: non solo le notizie, ma anche i fatti che non sono penalmente rilevanti, è come se non esistessero. Fino al punto di pretendere una sentenza penale definitiva per prenderli in considerazione. E tanto meglio se la sentenza non arriva mai».
Ammetterà che, in questi giorni, c’è stata una ricerca ossessiva delle fonti. Non si rischia andando avanti così una sorta di attentato alla stampa?
«La protezione delle fonti del giornalista è affermata sia dalla giurisprudenza nazionale sia da quella europea, ed è un principio sacrosanto che dimostra come vi sia tensione, e qualche volta contraddizione, tra le esigenze del segreto, e quella di informare l’opinione pubblica. Conflitti simili sono ben noti nei regimi liberali. La libertà di stampa è fondamentale, ma può incontrare limiti, non solo quelli che riguardano la vita privata dei singoli. Anche altri interessi pubblici possono richiedere tutela».
L’annunciata legge sulle in- tercettazioni ha innescato l’autocensura dei procuratori che con le circolari l’hanno anticipata, mettendo paletti stretti alle telefonate. Già ora decidono cosa può uscire e cosa no.
«Secondo me non è così, nel senso che quelle circolari specificano le regole che sono già nel codice di procedura penale e che riguardano l’uso o l’eliminazione di intercettazioni ai fini del processo penale. E la selezione vien fatta da un giudice, nel contraddittorio del pubblico ministero e dei difensori. Ma adesso parlavamo del lavoro del giornalista».
Eh sì, ma una volta che la toga ha etichettato come irrilevante una conversazione, che magari, come per i Renzi, è giornalisticamente interessante, va a finire che se la si pubblica si scatena il putiferio.
«È la prova che tra i doveri interni al processo e i doveri fuori dal processo, che riguardano i giornalisti, vi è una competizione che va composta tenendo conto degli interessi legittimi che sono in ballo e del valore fondamentale della libertà del giornalista, in primo luogo di cercare le notizie significative e poi di pubblicarle ».
Ma la legge che si vuole fare non comporta il bavaglio e il rischio di incriminazioni?
«Intanto si tratta di una legge delega e molto dipenderà da come il governo la eserciterà, e poi i divieti di pubblicazione esistono già...».