L'adunata di coloro che pensano che la loro verità, essendo l'unica legittima, debba conformare la vita di tutti gli altri. Chiamalo, se vuoi, fanatismo. Articoli di N. Rangeri, Kocci e A Santagata.
Il manifesto, 31 gennaio 2031
di Norma Rangeri
L’altra faccia delle cento piazze arcobaleno di una settimana fa, piene di «si» e di speranza per i diritti delle nuove famiglie. Perché i nuovi/vecchi crociati che hanno riempito il Circo Massimo di Roma rappresentano il «no» alla libertà degli altri. E in nome di una — presunta — «verità che non ci lascia mai!» come ha gridato dal palco uno degli organizzatori del raduno. Del resto le bandiere dell’Aquila nera con un cuore rosso crociato di «Alleanza cattolica», o il grande striscione «Padre, madre, figlio, popolo, nazione» sono il simbolo di un’area culturale integralista, dei «principi non negoziabili», pronta allo scontro frontale contro le legge sulle unioni civili. E contro i diritti altrui.
Nel family day organizzato dalle associazioni più conservatrici si è ritrovata l’Italia che appartiene al passato, mobilitata dalle diocesi, dai vescovi, dal centrodestra di Giovanardi e di Alfano, venuta nella Capitale per ascoltare la nutrita carrellata di oratori prodighi di parole funeree («i figli della provetta non sapranno su quale tomba piangere i loro genitori»), di scenari apocalittici («non vogliamo la strage degli innocenti»), vestiti da scudieri in difesa della famiglia «naturale», come se fossero gli unici guardiani del bene dei bambini. Perché, come scrive anche Stefano Rodotà nel suo ultimo libro, questa piazza negava a tante donne e uomini il diritto di amare liberamente.
Nonostante i colori, i palloncini, le canzoncine, il Circo Massimo ha trasmesso al Paese un messaggio cupo, perché con lo sguardo rivolto al mondo di ieri, chiuso e timoroso del confronto, come dettava il vademecum distribuito ai presenti che consigliava di non parlare con i giornalisti (succedeva così anche nei movimenti di sinistra, ma non a caso oltre quaranta anni fa).
Perché a parlare doveva essere solo il palco di Massimo Gandolfini, il medico bresciano, presidente del Comitato organizzatore «Difendiamo i nostri figli».
Abbiamo sentito più volte ripetere «questa piazza non è contro nessuno». Ma era pura retorica. Perché erano più significativi il video con i neonati strappati alle madri e le frasi come «le femministe dovrebbero vomitare per l’utero in affitto». E poi bastava ascoltare il tenore che apriva il comizio con «Mamma» di Beniamino Gigli, per fare quel salto agli anni Cinquanta del secolo scorso, un tempo lontano nel quale i cattolici del «no» vorrebbero riportare l’Italia, bloccando la legge — la moderata legge — sulle unioni civili.
Perché lo scontro che, purtroppo, ancora distingue il nostro dagli altri più avanzati paesi europei è sempre lo stesso: tra chi pensa che un credo religioso obblighi tutti a sottomettersi ai suoi precetti, e chi invece vuole un laica difesa dei diritti di tutti, senza discriminare le minoranze, per una libertà che conosce un solo confine: la libertà dell’altro. Perché chi divorzia non obbliga nessuno a divorziare, chi sceglie l’aborto non tocca la scelta di maternità, chi ricorre alla fecondazione assistita non ostacola la coppia fertile, chi vuole creare una famiglia gay non si impone né, soprattutto, vuole distruggere la famiglia eterosessuale.
La bandiera dei diritti civili non è mai stata innalzata dalla destra e non a caso i sondaggi, per quello che valgono, dicono che l’adesione al Family day è crescente mano mano che ci si sposta a destra nello schieramento politico. E alle forze conservatrici e reazionarie apparteneva la maggioranza dei politici presenti al Circo Massimo, nutrita pattuglia che domani rientrerà in Parlamento per tentare di affossare la legge, avendo già ottenuto di rinviare il voto a martedì prossimo, proprio con l’obiettivo di far pesare la piazza e di dare un avvertimento al presidente del consiglio («Renzi ci ricorderemo»).
Ma se il Family day del 2007 (quello con Renzi) giubilò i Dico, oggi i nuovi/vecchi crociati hanno uno schieramento parlamentare più difficile da condizionare ed egemonizzare. Anche perché in piazza c’era un grande assente: papa Francesco. L’unico papa nominato, Giovanni Paolo II, potrà aiutarli solo dall’aldilà.
LA CHIESA DEI SENZA BERGOGLIO
Gli osservatori attenti alle trasformazioni delle società occidentali hanno individuato due tendenze fondamentali che possono aiutarci a comprendere la giornata del Family Day. Da una parte, il ritorno delle religioni nella sfera pubblica come sfida alla globalizzazione spersonalizzante (nella versione avanzata da Habermas, come interrogativo posto dal multiculturalismo alla laicità effettiva delle nostre democrazie), dall’altra parte, il riemergere della religione come fattore di chiusura identitaria, uno strumento forte di una lunga tradizione di politicizzazione della fede.
Si tratta di due tendenze carsiche, talvolta convergenti nel discorso dei politici e degli attori religiosi, ma che si scontrano oggi con la realtà di società che vivono un processo di secolarizzazione crescente.
L’ultimo rapporto di Eurispes fotografa un Paese in cui la pratica religiosa è attestata al 25%, la tutela giuridica delle coppie di fatto è auspicata dal 67,6% della popolazione e il matrimonio tra omosessuali è accettato dal 47,8%. Questi dati non erano poi molto diversi dieci anni fa, al tempo del primo Family Day del 2007, lo erano invece il contesto politico (l’Italia nelle mani di Silvio Berlusconi) e quello ecclesiale, caratterizzato dalla linea politica «presenzialista» del card. Ruini, a sua volta forte del sostegno del «papa polacco» e poi del suo successore tedesco.
Si spiega quindi alla luce di questi cambiamenti la decisione dei vescovi di fornire un chiaro appoggio alla manifestazione del Circo Massimo senza però impegnare direttamente la Chiesa, come nei desideri di papa Francesco e di una parte dello stesso episcopato.
Per quanto riguarda i movimenti in difesa della «famiglia tradizionale», le parole d’ordine del Family Day non sono state meno intransigenti di quelle del passato, ma è nitida la percezione di essere di fronte a una galassia che si sente sempre più minoranza, un segmento della società che ha perso la sponda del governo e perfino la sintonia con il pontefice romano.
Ne è venuta fuori una manifestazione tanto pacifica e festosa nelle forme, quanto dura nei contenuti di fondo in un mélange di integrismo vecchia maniera (contro l’edonismo) e di psichiatrizzazione della società, accusata di aver perduto il senso del limite. Medicina e religione, del resto, sono andate a lungo a braccetto nella storia delle retoriche contro le «devianze» sociali e sessuali.
Senza entrare nel merito delle contraddizioni, è interessante osservare anche la permanenza dello schema della catena dei mali, secondo il quale l’introduzione dei nuovi diritti, come la stepchild adoption, porterà inevitabilmente alla pratica dell’utero in affitto e quindi allo sfruttamento delle donne più povere da parte di una presunta élite omosessuale. Dal Family Day arriva dunque un segnale forte e preoccupante che deve essere letto nel contesto del nostro tempo e non solo di quello italiano: nell’orizzonte del mondo cattolico in trasformazione, ma più in generale nella sfera delle forme assunte dal ritorno del religioso nella sfera pubblica.
Come avviene da tempo negli Stati Uniti e come è accaduto di recente in Francia in occasione dell’approvazione del mariage pour tous, le società occidentali sono attraversate oggi da movimenti, spesso “dal basso”, che si radicalizzano nella presa di consapevolezza di un cambiamento che non possono impedire e che sono espressione di un’istanza che trova consensi in maniera interclassista e di cui beneficiano quelle forze politiche, come la Lega Nord e Fratelli d’Italia, che si fanno promotrici di un certo linguaggio antimoderno, identitario e intransigente.
Si tratta di tendenze profonde, alle quali occorre rispondere sul piano discorsivo senza sottovalutare i rischi di questa politica della paura, tendenze che ci devono portare a interrogarci sul modo in cui adeguare la laicità alle nuove frontiere del diritto senza perdere la sfida culturale che deve accompagnare il cambiamento.