Fra le varie attività di complemento alla esposizione vera e propria, la Biennale di Architettura di Venezia organizza sei incontri, a cadenza mensile, rispettivamente dedicati ai seguenti temi: infrastrutture; periferie; strutture e materiali; scarsità; ambiente; conflitti.
Il primo “sabato dell’architettura” si è svolto il 28 maggio, lo stesso giorno dell’apertura della Biennale al pubblico, e vi hanno partecipato il direttore Alejandro Aravena e il presidente Paolo Baratta.
Un’occasione importante, quindi, e dalla quale era lecito aspettarsi l’avvio di un dibattito su una serie di questioni cruciali che il tema infrastrutture inevitabilmente solleva. Ad esempio, sarebbe stato interessante conoscere cosa gli inviati della Biennale dislocati sul fronte infrastrutture ci dicono a proposito della differenza tra infrastrutture e “grandi opere” o della differenza fra concepire (pensare e realizzare) le infrastrutture come strumento per migliorare le condizioni di vita della gente oppure considerarle come una delle tante occasioni di investimento finanziario.
La presenza degli autori di due progetti molto interessanti lasciava ben sperare. Ed in effetti entrambi hanno esposto il loro lavoro con chiarezza, senza falsa modestia e senza enfasi auto celebrativa. C’era un problema sul terreno che influiva in modo negativo sull’esistenza quotidiana di migliaia di persone, hanno detto, e l’abbiamo affrontato con le armi a disposizione della nostra professione, cioè immaginando una nuova modalità di organizzazione dello spazio fisico e dandole forma concreta. In altre parole, avrebbero potuto dire, abbiamo fatto gli architetti.
Andrew Makin ha raccontato la trasformazione di Warwick Triangle, un nodo di interscambio di mezzi di trasporto a Durban, che da luogo emblematico di insicurezza e violenza, dove le autorità avrebbero voluto collocare un grande e “moderno” mall commerciale, è diventato il supporto di una miriade di attività economiche, dai venditori di cibo a quelli di tessuti, dai banchetti dove profughi da ogni parte dell’Africa lavorano come barbiere a quelli dove si pratica la medicina tradizionale.
Lavorando assieme a una NGO fondata da un ex poliziotto, che si era “stancato di arrestare la gente e aveva deciso di affrontare il problema della sicurezza da un altro punto di vista”, Makin ha progettato una serie di interventi, scale e passerelle soprattutto, per mettere in connessione i vari punti di un luogo che è attraversato ogni giorno da 460.000 pendolari e dove operano oltre 5000 venditori di strada. Grazie a questi collegamenti, da mera infrastruttura per il traffico , Warwick Triangle è diventato una infrastruttura attrezzata, una piattaforma produttiva che genera opportunità di lavoro e reddito, e quindi sicurezza, e che fa “girare” l’economia.
Anche a Medellin, l’intervento infrastrutturale pensato dagli architetti del gruppo EPM, la compagnia responsabile del servizio di rifornimento idrico, in accordo con l’amministrazione comunale, non ha comportato la costruzione di una nuova grande opera, ma una serie di interventi che hanno riconfigurato l’assetto esistente. E anche in questo caso, all’origine del progetto c’è la preoccupazione per le condizioni di vita degli abitanti e il tentativo di migliorarle fornendo una minima dotazione di spazio pubblico. La constatazione che gli unici spazi vuoti erano quelli a ridosso dei serbatoi d’acqua, recintati e per questo rimasti inedificati, ha dato origine ad un gesto progettuale di sottrazione, l’abbattimento della recinzione. Quindi il disegno paziente e intelligente degli spazi residuali ha dato avvio alla creazione di una serie di spazi pubblici attorno ai serbatoi, che sono, così, diventati il fulcro di vere e proprie oasi urbane.
Una discussione con il pubblico su questi due progetti, “piccoli” dal punto di vista delle grandi società di engineering , ma grandi in termini di capacità dei progettisti di prefigurarne l’impatto sulla vita della popolazione, impatto che oggi è evidente e documentato, avrebbe potuto essere interessante. Ma non c’è stata nessuna discussione. Dei due progetti praticamente nessuno ha parlato, né avrebbe avuto il modo di farlo dal momento che gli interventi dei progettisti di Durban e di Medellin sono stati preceduti e seguiti, per meglio dire imprigionati e soffocati , da quelli di sir Norman Foster e di Rem Koolhas.
Sir Norman Foster, algido come uno dei personaggi “cattivi” degli ultimi libri di Le Carré, ha parlato del suo progetto di aeroporto per droni in Rwanda . Senza nemmeno citare Peter Rich, alle cui costruzioni a volta in mattoni di terra si è palesemente ed ampiamente “ispirato”, si è vantato delle novità della tecnica costruttiva e del carattere umanitario di un progetto che “la comunità sente come suo”. Sir Norman, che è stato un pilota della RAF, ama molto gli aeroporti e ne ha disegnati in ogni parte del mondo, ma non disdegna neppure i progetti per valorizzare i terreni di aeroporti esistenti trasformandoli in ghetti di lusso. Suo, ad esempio, è il progetto per costruire una serie di alberghi e residenze di prestigio, una marina, un aquarium e tutto quello che prescrivono i manuali alla voce “waterfront per ricchi”, nel compendio dell’ex aeroporto Hellenikon ad Atene, che proprio in questi giorni il governo greco è stato costretto a privatizzare cedendolo, a una cordata di investitori cinesi e di Abu Dhabi. E’ un progetto che bene avrebbe figurato tra quelli selezionati di Aravena- l’area è parte del bottino della guerra che abbiamo condotto contro la Grecia ed al momento offre rifugio ad alcune migliaia di senza tetto vittime della stessa guerra- ma purtroppo gli inviati speciali della Biennalenon l’hanno avvistato.
Invece di avviare la discussione partendo dai tre casi illustrati dai progettisti, Koolhas li ha rapidamente liquidati includendoli tutti e tre nella categoria di progetti che “guardano al locale” e ci ha quindi annunciato che la “globalizzazione è finita”. Ma più che in queste dichiarazioni apodittiche, la parte interessante del suo discorso è quella dedicata alle infrastrutture come supporto all’urbanizzazione e al relativo ruolo della Biennale, che a suo giudizio lavora per l’urbanizzazione fin dal 2000. In questa parte, il suo intervento si combina perfettamente con quello successivo di Joan Clos, direttore di UN Habitat, al quale la Biennale ha affidato il compito di concludere l’incontro ma che, in realtà, ha tenuto una sorta di comizio sull’urbanizzazione sostenibile.
Che diffondere il pensiero unico sull’urbanizzazione, propugnato e propagandato dalla Banca Mondiale e dai suoi mercenari, sia una delle mission della Biennale di quest’anno è evidente dalla quantità di eventi che ruotano attorno al tema; dal progetto speciale Conflicts of an Urban Age, messo a punto da Ricky Burdett (direttore della Biennale Architettura nel 2006) e il cui padiglione è stato finanziato dalla Deutsche Bank, alla presentazione a Cà Foscari dei Laboratori di UN Habitat per diffondere i principi e le tecniche dell’urbanizzazione sostenibile.
Tutti gli eventi partono dall’assunto che non solo l’urbanizzazione è inarrestabile ma, se ben pianificata, cioè disegnata dai nostri architetti, costruita dalle nostre ditte e finanziata a tassi di usura dalle nostre banche, è positiva. Né UN Habitat né le varie agenzie che diffondono tali previsioni dicono, però, che l’urbanizzazione non è un fenomeno naturale, perché lo spostamento di grandi masse di popolazione all’interno di un paese, e da un paese all’altro, può essere contrastato, assecondato o imposto, o comunque fortemente influenzato dai governi e dai decisori economici. Non a caso “l’urbanizzazione forzata” è stata teorizzata dagli strateghi militari come arma nei confronti di popolazioni nemiche e, nel 1968, Samuel Huntington l’ha esplicitamente indicata come decisiva per debellare la resistenza dei vietnamiti. A suo parere, messo poi in pratica dai generali americani, bisognava porre i contadini di fonte a tre alternative: restare sulla propria terra (e farsi bombardare), unirsi ai ribelli ( e farsi bombardare), diventare rifugiati urbani. Oggi i governi non espongono ai loro cittadini la questione in questi termini, ma in molti casi la migrazione verso le agglomerazioni urbane è il risultato di pressioni altrettanto potenti perché enormi sono gli interessi in gioco. Anche le opzioni per i contadini sono sostanzialmente le stesse, e della loro “scelta” di diventare “rifugiati urbani” tutto si può dire tranne che sia presa senza coercizione.
Come scrivono i commentatori economici, che non dovendo esporre alla Biennale non hanno bisogno di esibire buoni sentimenti, soprattutto in Africa l’urbanizzazione è una sfida tremenda per le autorità locali, ma è un’opportunità enorme per gli affari. La rapida crescita delle città, infatti crea occasioni straordinarie. Le sfide/opportunità vanno dalla carenza di infrastrutture e di energia alla mancanza di acqua e cibo, dalla perdita di terra coltivabile ai problemi sanitari causati dall’inquinamento, dallo smaltimento di rifiuti al traffico caotico.
Tutte queste sfide/opportunità compaiono nella lista di quelle che Aravena individua come le battaglie da vincere al fronte. Si tratta di capire se le stiamo combattendo a fianco di quelli che sono bombardati o di quelli per cui l’urbanizzazione è un’ opportunità.
Detto questo, tranquillo Alejandro, venceremos!
Riferimenti
Qui il primo report di eddyburg dalla Biennale Architettura: La cattiva coscienza della Biennale targata Rolex