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Fabrizia Biagi
Infanzie metropolitane
25 Maggio 2008
Recensioni e segnalazioni
Una riflessione sulla Giornata Mondiale del Gioco, occasione per un panorama (anche) della letteratura urbanistica sui temi dell’uso concreto dello spazio urbano e territoriale. Da il manifesto, 24 maggio 2008 (f.b.)

I bambini, in quanto «non necessariamente legati alla quotidianità, intesa come l’unica realtà possibile» sono «soggetti agguerriti, dotati di speranza e di uno sguardo che può essere fertilmente utopico» scriveva ormai dieci anni fa l’urbanista Mauro Giusti, tra gli studiosi che maggiormente hanno creduto alla necessità di coinvolgere i più piccoli nelle attività di conoscenza e di progettazione dello spazio urbano. Giusti è purtroppo scomparso prima di vedere gli esiti del suo impegno, ma ha comunque tracciato le coordinate, le ragioni e gli ostacoli di un campo dove, più ancora che altrove, sarebbe necessario mettere in discussione ciò che appare naturale, neutrale, normale, assumendo invece uno sguardo legato alla specificità dei problemi.

Priorità ai pedoni

La celebrazione oggi della Giornata Mondiale del Gioco, promossa in Italia da GioNa (l’Associazione Nazionale delle Città in Gioco, cui fanno capo i comuni, la comunità montane e le province concretamente impegnati per rendere il gioco parte integrante della vita dei cittadini), rappresenta quindi un utile spunto per tirare un bilancio – proprio a partire dalla situazione dell’infanzia – sulla domanda di qualità ambientale nel nostro paese, in un momento in cui l’affermazione della destra neoliberista rende più evidente l’esigenza di una attrezzatura progettuale capace di coniugare le forti spinte individualiste con i limiti che impone il vivere comune. E certamente le politiche del territorio che si confrontano con i temi dei ritmi dell’esistenza non trovano risposte se ci si affida alla sola logica del mercato, e tanto meno a quella della rendita, della speculazione o addirittura del malaffare.

Negli ultimi tempi sono state sempre più numerose le amministrazioni locali che hanno promosso iniziative, coinvolgendo bambini e ragazzi soprattutto nella conoscenza dell’ambiente in cui vivono e nel miglioramento dello spazio pubblico. Lo conferma fra l’altro «Ecosistema Bambino», la ricerca annuale di Legambiente sulle politiche di partecipazione per l’infanzia degli enti locali che in questo 2008 ha compiuto dieci anni. Sebbene l’effettiva realizzazione di questi progetti sia ancora limitata, in alcuni contesti urbani sono stati creati o riqualificati spazi aperti d’uso pubblico e collettivo ospitali per l’infanzia: sistemi integrati di spazi verdi, cortili urbani e scolastici opportunamente trasformati, percorsi sicuri casa-scuola, che invertendo la consueta gerarchia, accordano priorità al pedone rispetto all’automobile.

Proprio in base ai dati dell’ultimo studio di «Ecosistema bambino » emerge ancora una volta come sia la città storica centro-settentrionale – soprattutto quella di media dimensione, in particolare in regioni come il Piemonte e l’Emilia, caratterizzate da una forte tradizione civica urbana – ad accogliere come nodali i temi della qualità dell’abitare .

Ben diversa purtroppo appare la situazione nei territori che avvolgono molte di queste città, e soprattutto le condizioni abitative delle regioni meridionali. Nel Sud le operazioni di recupero urbano non sono, fino ad oggi, riuscite a invertire il processo di degrado delle infrastrutture urbane e degli spazi aperti di uso collettivo; pur in presenza di qualche differenziazione regionale, il paesaggio riflette una situazione sociale che vede «una parte della popolazione le cui buone condizioni economiche sono legate a un rapace rapporto con il territorio… e un’altra consistente porzione in uno stato vicino alla soglia di povertà », come scriveva Arturo Lanzani nel suo I paesaggi italiani (Meltemi 2003) . La consapevolezza che solo un sentimento sedimentato riguardo all’idea di bene pubblico e collettivo possa dare nuovi orizzonti alla qualificazione dei territori meridionali sembra di recente aver ispirato il tentativo didascalico del libro a fumetti per ragazzi Viaggio nella storia della città, uscito per Iiriti, nel quale l’educatore calabrese Antonino Sergi ha illustrato la storia dell’urbanistica dalla preistoria ai nostri giorni.

Ma come documentava qualche anno fa la sociologa Luciana Bozzo nel saggio Pollicino e il grattacielo (Seam 1998), dedicato alla difficile impresa di crescere nella realtà urbana contemporanea, anche quando lo sguardo si fa più attento, la visione resta sfocata, e continua per lo più a mettere in primo piano la famiglia assimilando il bambino allo sfondo delle esigenze di quest’ultima: essenzialmente figlio e scolaro, sempre più bene privato di investimento affettivo e sociale, utente di servizi pubblici, laddove vengono istituiti, più spesso cliente di servizi privati che tendono nel tempo a coprire ogni momento della sua giornata. Bambino cliente, ma soprattutto consumatore, coccolato dal mercato che gli dedica un’attenzione specifica e gli si impone con la raffinata pubblicità televisiva.

Piccoli principi solitari

A questo proposito, in un volume, La città bambina. Esperienze di progettazione partecipata nelle scuole, uscito nel 2006 per le Edizioni Museo delle Fate, Giancarlo Paba e Anna Lisa Pecoriello individuavano nel venir meno dell’abitare comune, dell’ospitalità di strade e piazze, che da luoghi dell’interazione sociale sono divenuti esclusivi canali di transito, le ragioni della perdita per i più piccoli della libertà di movimento e di gioco in autonomia, di quel «tacito assenso da parte della comunità sul loro diritto ad usare estesamente l’intero quartiere (marciapiedi, strade, angoli, cortili…), compresi i giardini e gli spazi di transizione da una casa all’altra», come scriveva nel ’95 Franco La Cecla nella raccolta di saggi Bambini per strada.

In nome della sicurezza, della quale sono stati negati i presupposti, i bambini vengono (in)trattenuti, quando è possibile, in casa di fronte ai cartoni a mangiucchiare merende, lontani dall’ambiente esterno, considerato denso di pericoli eminacce, non solo per il traffico automobilistico, masoprattutto per quanto di sconosciuto e diverso può accogliere. Lo spazio virtuale (televisione, computer, playstation) pervade lo spazio casalingo, la «cameretta», di questi bambini solitari, perché sempre meno numerosi, spesso figli unici.

Questi piccoli principi di una famiglia sempre più magra e più lunga (così Chiara Saraceno in Mutamenti della famiglia e politiche sociali in Italia, 2003), fuori dalle mura domestiche sono incalzati dai tempi rigidamente scanditi dai molteplici impegni che occupano il loro tempo libero, le ormai indispensabili attività formative, dove essere accompagnati/trasportati: attività sportive, scuole di lingue, di arte, di danza. L’autonomia del bambino, l’opportunità, cioè, che egli eserciti libere scelte, è sempre più limitata in quanto le sue giornate sono sempre più programmate, controllate e gestite dagli adulti sulla base dei loro modelli, valori, necessità.

Nel momento in cui si radica l’equivoco che la sfera ludico-ricreativa sia priva di valore formativo, l’esigenza di protezione e quella di educazione si intrecciano al punto da fondersi, finendo entrambe per rafforzarsi nell’ostacolare la formazione equilibrata della personalità del bambino, in particolare mediante opportunità di gioco spontaneo.

Eppure, già una ventina di anni fa la Convenzione sui diritti dell’infanzia – approvata dall’Onu nel 1989 e ratificata dall’Italia nel ’91 – aveva sancito la fondamentale importanza che il gioco riveste nella formazione dell’individuo, ribadendo che una attività ludica spontanea aiuta il bambino a crescere non solo fisicamente, ma anche mentalmente, emotivamente e socialmente. Uno sviluppo ostacolato, se non addirittura impedito, dall’ambiente urbano così come si presenta ancora oggi, con tutte le sue forme di esclusione e segregazione.

Un legame corporeo È proprio la crescente emacroscopica, difficoltà della relazione tra il bambino e la città, a richiedere in modo eclatante che gli adulti mostrino una diversa sensibilità nei confronti della specificità infantile, affermando l’idea del bambino come persona, con i diritti che ne derivano. Dal punto di vista della qualità urbana, tale prospettiva porta, tra l’altro, a individuare nel bambino un fondamentale «parametro »: in altri termini, secondo quanto scriveva già una dozzina di anni fa Francesco Tonucci nel suo La città dei bambini (Laterza 1996), migliorare l’ambiente per il bambino – inteso come persona che ha particolarmente bisogno di essere tutelata – significa migliorare l’ambiente di tutti. Al tempo stesso, si comincia a riconoscere al bambino, almeno a livello culturale, lo statuto di attore sociale, con competenze proprie e punti di vista specifici, con un modo peculiare di concepire e utilizzare lo spazio fisico. Un legame, quello che si osserva e si ascolta tra i bambini e la città, di tipo corporeo, concreto, legato ai luoghi, al proprio vissuto. «Il bambino è agitato, direbbero le madri, ed è proprio così: il bambino agisce in uno spazio fisico più irregolare e tentativo, imprevedibile, angoloso, frattale, rispetto a quello dell’adulto... lo interpreta in modo multidimensionale, aperto, non direzionale, non economico, sovrabbondante»: così scrive Giancarlo Paba in un testo, «Fiducia, gioco, desiderio, nella progettazione partecipata», che fa parte di una raccolta di saggi curata da Daniela Poli, Il bambino educatore. Progettare con i bambini per migliorare la qualità urbana (Alinea, 2006).

Fra scivoli e altalene

Questo volume – come l’altro di Paba e Pecoriello La città bambina – è espressione di un preciso ambito culturale, la fucina generosa del Laboratorio di progettazione ecologica degli insediamenti, il Lapei dell’università di Firenze, che da più decenni ormai ricerca e sperimenta percorsi di pianificazione e progettazione territoriale tesi alla valorizzazione dei luoghi e all’inclusione sociale. Tema più che mai cruciale, quest’ultimo, dal momento che, come rilevava Egle Becchi nel suo studio I bambini nella storia (Laterza 1994), se l’esclusione si incontra «nei territori del femminile, dell’età avanzata, della povertà, della patologia e dell’anomia... per il bambino ha, se è possibile, una forza ancora maggiore, perché l’infanzia – lo esprime la parola stessa – è supposta non parlare, non comunicare, non dire di sé, non essere in grado di dare – tanto meno di scrivere – le informazioni essenziali per la sua identificazione». Anche se in realtà oggi, osserva Giancarlo Paba, più che di infanzia bisognerebbe parlare di infanzie, dato che «la condizione materiale e la considerazione sociale dei bambini sono cambiate nel corso della storia, e sono ancora oggi profondamente differenziate nelle diverse culture, città e società».

Sta di fatto comunque che, al posto dei soliti spazi livellati, spesso recintati e immancabilmente dotati di scivoli, altalene e giostrine (che fra l’altro sono pericolosi perché si rompono o sono usati in modo improprio), i bambini richiederebbero ambienti di gioco e luoghi di incontro frequenti, vicini, aperti a tutti e «ricchi», intendendo per «ricchi» – nota Francesco Tonucci – «articolati, mossi, con ostacoli, cespugli, muretti, alberi, materiali diversi». Non a caso i criteri sociourbanistici di accessibilità, articolazione e flessibilità sono stati individuati tra i più importanti per definire luoghi collettivi e pubblici che siano significativi per la comunità di tutti gli abitanti, bambini e adulti.

Rompere le scatole

Del resto, nel loro Manifesto per una città bambina, Giancarlo Paba e Anna Lisa Pecoriello ne hanno individuato i caratteri ideal-tipici: una città sensibile ai mille corpi differenti degli abitanti; una città da assaggiare e toccare; una città con strade amiche e democratiche e uno spazio molto pubblico; una città-macchina per giocare; una città che recupera, ricicla e costruisce in armonia con la natura.

Maforse, come suggerisce ancora Paba, dai bambini bisogna imparare soprattutto «a rompere le scatole», in tutti i significati dell’espressione: «aprire i giochi, smontare i congegni, rompere le “scatole nere” per vedere quello che c’è dentro e se quello che c’è dentro funziona ancora... decostruire i protocolli, le routine sociali, e inventare continuamente gli strumenti, i modelli, gli attrezzi, i giochi (materiali e sociali) attraverso i quali gli abitanti trasformano se stessi, e la loro città».

Iniziative

Una settimana ludica, e non solo

Si chiama “Giornata mondiale del gioco», ma si svolge in realtà nell’arco di una settimana, da oggi fino al 30 maggio, l’iniziativa lanciata nel 2003 dall’Associazione Internazionale delle Ludoteche (Itla, www.itla-toylibraries.org).

Nell’arco di pochi anni la proposta ha raccolto l’adesione di molte altre associazioni che, promuovendo incontri e manifestazioni di diverso tipo, cercano di riaffermare il diritto al gioco sancito dalla Convenzione Internazionale sui diritti dell’Infanzia e dell’Adolescenza.

Numerose naturalmente le iniziative previste oggi e nei prossimi giorni. A Firenze, per esempio, oltre a diverse attività ludiche in giro per la città, il LudoCemea - Gruppo di ricerca dei Centri di esercitazione ai metodi dell’educazione attiva (www.cemea.it) organizza presso la Bottega dei ragazzi dell’Istituto degli Innocenti un dibattito sul tema «Il gioco in occidente». A Torino invece la comunità di GiocaTorino sarà tutta la giornata in piazza San Carlo a promuovere giochi di società per adulti e ragazzi con dimostrazioni e partite introduttive a più di cento giochi diversi. Allestimento di una ludoteca con giochi da tavolo, animazione con il ludobus e dimostrazioni di kubb sono in programma a Udine sabato prossimo. Un calendario completo degli appuntamenti si può trovare nel sito dell’Associazione Città in Gioco. www.ludens.it

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