Il capitalismo è una particolare organizzazione della società; questa (società) evolve e cambia nel tempo perché con il passare “del tempo” muta la domanda, il salario di sussistenza, la tecnica e, infine, il contenuto del capitale e del lavoro. Sebbene Industria 4.0 possa sembrare qualcosa di inedito e paradigmatico, la storia del capitale e dello sviluppo ci ricordano che “Non è quello che viene fatto, ma come viene fatto, con quali mezzi di lavoro, ciò che distingue le epoche economiche. I mezzi di lavoro non servono soltanto a misurare i gradi dello sviluppo della forza lavoro umana, ma sono anche indici dei rapporti sociali nel cui quadro vien compiuto il lavoro”(Marx
[1]). Più in particolare, “La borghesia non potrebbe sopravvivere senza rivoluzionare continuamente gli strumenti di produzione, i rapporti di produzione, dunque i rapporti sociali”.
Sebbene l’elenco delle potenziali innovazioni afferenti a Industria 4.0 sembrino rivoluzionarie, queste lo sono nella misura in cui adottano tecniche che nella classificazione (aggiornata
[3]) di Freeman e Soete (1997) precedono il paradigma della Green Economy che, nel silenzio più assordante, sembra scomparsa dal dibattito economico e politico. Quindi, non proprio tecniche che modificano il paradigma tecno-economico nel senso stretto del termine. Semmai, sorprende l’enfasi posta da alcuni commentatori che assegnano a Industria 4.0 questa categorizzazione. Infatti, le tecniche legate a Industria 4.0 non delineano un mutamento sostanziale della domanda e dell’offerta come e quanto potrebbe la Green Economy, ovvero non consentono di sviluppare quelle che Leon P. (1965) chiamava tecniche superiori di produzione. In altri termini, la crescita del reddito che da un lato comprime taluni tipi di consumo primario, dall’altro ne espande altri tipi, così che in definitiva l’effetto di composizione dinamica delle due forze risulta in realtà positivo. In ultima analisi, il mutamento qualitativo che attraversa la domanda nella componente di consumo si estende alla componente di investimento, influenzando il processo di cambiamento della struttura produttiva (e dunque dell’offerta e della domanda di lavoro). Industria 4.0, al massimo, permetterà di integrare informatica, servizi e manifattura, ma siamo pur sempre all’interno di un paradigma che non consente di accrescere il valore e il lavoro come e quanto altri paradigmi sono riusciti a realizzare nella storia. È cambiata la geografia del lavoro, ma il numero di occupati è costantemente aumentato, nonostante tra il 1980-2015 si sia dispiegata la più importante rivoluzione tecnologica che il capitalismo abbia mai sperimentato.
La tecnica è un prodotto sociale
Innanzitutto è necessario ricordare che il progresso tecnico si diffonde in modo disomogeneo nei diversi settori produttivi, mentre gli effetti sulla produttività non sempre si manifestano là dove esso si genera. E’ quello che in molti non hanno esitato a definire con grande enfasi il “paradosso della produttività”, proprio quando negli anni ’90 la precedente rivoluzione delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione (Ict) andava alimentando straordinarie aspettative. Al netto della teoria della compensazione (D. Ricardo), il tema dell’innovazione è soggetto a gravi errori di valutazione: in troppi indagano la tecnica come se fosse un fenomeno di pura conoscenza, dimenticando che la società cambia assieme alla tecnica, modificando il paradigma di accumulazione; quando si passa da un paradigma a un altro, non sappiamo come i settori produttivi coinvolti reagiranno. Cosa accadrà nei settori maturi e/o emergenti? Sebbene i settori maturi saranno investiti da un cambio di paradigma senza precedenti storici, la dimensione e la grandezza degli oligopoli suggerisce prudenza nella valutazione dell’impatto delle macchine sul lavoro. Più che un effetto sostituzione di lavoro per mezzo di macchine, probabilmente ci sarà un effetto sostituzione di lavoro a basso contenuto conoscitivo con un lavoro a maggiore conoscenza.
La combinazione tra ridisegno dei vecchi settori e la nascita di nuovi settori produttivi delinea un nuovo modello di produzione e/o sviluppo. Evidentemente non discutiamo di trasferimento tecnologico e/o innovazione. C’è differenza tra innovazione tecnologica, con il tempo sempre più programmabile (Ferrari, 2014), e paradigma produttivo. Il limite della discussione relativa a Industria 4.0 è nella sottovalutazione del paradigma, che non può essere ridotto all’integrazione tra industria e servizi, con l’effetto di alimentare e probabilmente sostenere una discussione bipolare tra chi sostiene che Industria 4.0 è una grande occasione per rilanciare il sistema economico, e chi intravvede nel progetto il rischio di una sostituzione di lavoro umano con le macchine.
Industria 4.0 e la fuga dalla ragione
World Economic Forum (WEF) e Mckinsey (Mc) informano che Industria 4.0 e le macchine coinvolgeranno alcune tipologie di lavoro; senza usare i toni di WEF e Mc, oppure l’indagine conoscitiva della Commissione Industria della Camera del 2016 (G. Epifani), è il caso di ricordare che questa è storia e non solo fattibilità tecnica. L’implementazione di queste tecniche è 1) soggetta a molte e spesso incalcolabili variabili; 2) hanno diversi gradi e livelli di realizzazione. In particolare, il documento della Commissione Industria analizza solo le tecnologie della comunicazione ovunque queste abbiano un ruolo, dalle comunicazioni interne alle stesse macchine meccaniche o elettroniche, tra operatori, all’interno dell’impresa, tra imprese ecc. In definitiva, il progetto Industria 4.0 identifica come “quarta rivoluzione industriale” l’utilizzo di macchine intelligenti, interconnesse e collegate a internet. Non sono necessarie competenze specialistiche per sapere che lo sviluppo delle conoscenze scientifiche costituisce un bagaglio accumulato, con un potenziale ancora tutto da scoprire anche dal punto di vista di una prospettiva applicativa. Sebbene industria 4.0 del Governo, alla fine, prenda atto dei limiti della propria analisi quando individua come “tecnologie abilitanti” solo quelle che hanno una caratteristica informatica, l’aspetto più preoccupante è legato alla accettazione da parte di tutti i commentatori della narrazione veicolata dalla pubblicistica.
Se consideriamo l’attuale (vecchio) paradigma, il saldo tra nuovo lavoro e vecchio lavoro è certamente negativo, ma il capitale evolve e cambia assieme alla società; il sistema economico non rimane mai uguale a stesso; cambiano le consuetudini e le abitudini. L’emergere di una nuova classe media modifica i consumi (legge di Engel). WEF, Mc, Commissione Industria della Camera non conoscono gli effetti sui consumi legati alla crescita del reddito. Il processo è, quindi, bidirezionale e non unidirezionale. In altri termini, la politica economica e industriale hanno un ruolo fondamentale. La robotica è solo un pezzo del paradigma. L’innovazione cambia la struttura e non è riconducibile a una sola impresa, sebbene tenda a concentrarsi in alcuni settori. Per queste ragioni il modello neoclassico di produzione equi-proporzionale non rappresenta la realtà, e nemmeno vi si avvicina. Viviamo una grande transizione dall’esito incerto.
Capire in quale direzione andrà l’occupazione rispetto allo sviluppo delle nuove tecniche-tecnologie, richiede, piuttosto, una più attenta valutazione di come evolveranno le nuove “catene di creazione del valore”, sia all’interno delle singole economie, sia a livello mondiale, data l’importanza che hanno assunto i processi di delocalizzazione produttiva. Ciò, significherà considerare in che misura, ad esempio, lo sviluppo interno all’industria si rifletterà su un aumento dei servizi ad alta qualificazione – fenomeno già ampiamente riscontrato nelle economie in cui la presenza di un manifatturiero ad “alta intensità tecnologica” è relativamente più elevata – dando luogo ad un aumento complessivo dell’occupazione e del reddito e, in ultimo, della domanda di nuovi beni e servizi. Questo processo potrebbe investire anche i paesi di più recente industrializzazione, verso i quali nel ventennio passato si sono diretti ingenti flussi di investimenti delle economie occidentali per sfruttare – là dove possibile – il minore costo del lavoro. La spinta propulsiva registrata dal reddito di tali paesi si è tradotta, infatti, negli ultimi anni in autonoma capacità di investimento che, guidata per lo più dall’intervento pubblico, ha favorito l’aumento della spesa in ricerca e promosso lo sviluppo di produzioni ad alta intensità tecnologica, dando vita a ulteriori incrementi di reddito e a nuovi flussi di investimento verso il “Nord” del mondo.
L’accelerata diffusione dei robot nei paesi emergenti sembra dunque concludere una fase importante di un processo di industrializzazione concentratosi finora su attività ad alta intensità di manodopera, che hanno assorbito la delocalizzazione produttiva attuata dalle economie avanzate. La vera sfida che ci troveremo di fronte nei prossimi anni riguarderà sempre di più il confronto tra aree del mondo che si sono avvicinate – come puntualmente confermano i dati sulla distribuzione del reddito –, portando le prospettive dello sviluppo globale sul terreno della produzione di nuove conoscenze e di nuovi beni e servizi.
Se consideriamo l’aumento delle vendite di robot e come questo si è distribuito nell’economia mondiale, e quali sono ad oggi gli effetti più macroscopici rilevati sull’occupazione, risultano evidenti almeno due fatti. Il primo riguarda il forte contributo che all’aumento di tali vendite hanno fornito i maggiori paesi di più recente industrializzazione (soprattutto in Asia, con in testa la Cina), caratterizzati da una minore densità di robot (ossia da un minore rapporto tra numero di robot e addetti nell’industria); il secondo investe il rapporto tra livello di qualificazione dell’offerta di lavoro e dinamica del processo di robotizzazione. Si vede così che la maggiore spinta verso la robotizzazione registrata nelle economie di nuova industrializzazione ha dato luogo a una progressiva sostituzione di forza lavoro relativamente meno qualificata, presente ancora in misura assai consistente nel tessuto produttivo.
Indiscutibilmente per l’Italia sarebbe comunque una rivoluzione, ritardata comunque di almeno 15 anni. Sostenere che un sistema è integrato vuol dire che ogni fase è governata, ma non è il caso di andare oltre al governo del processo produttivo. Le innovazioni legate alla biotecnologia, alla farmaceutica, nuovi materiali, ecc. hanno un peso e un ruolo che travalicano il peso e il ruolo delle così dette innovazioni legate a Industria 4.0.
L’Italia non trova politiche diverse
L’effetto principale della diffusione delle tecniche interessate da Industria 4.0 sarà, per l’Italia, una crescita delle importazioni delle stesse. Infatti, questi beni saranno prodotti da chi possiede un vero sistema di innovazione tecnologica. L’esigenza di una politica industriale che sappia correggere il nostro declino non è nemmeno stata abbozzata. Inoltre, Industria 4.0 non è il programma di un paese che deve cambiare la propria struttura produttiva, piuttosto la “trovata” pubblicistica di una parte della classe dirigente per evitare di realizzare investimenti pubblici necessari per piegare la produzione italiana verso beni e servizi a maggiore contenuto tecnologico che sono, per lo più, legate alla Green Economy. I tagli alla ricerca e sviluppo, alla scuola, all’università, purtroppo, condurranno il paese a subire il paradigma della Green Economy che gli altri Paesi cominciano a delineare.
Inizierei a discutere di politica industriale e su come possiamo essere protagonisti della necessaria trasformazione industriale, invece che ragionare sugli effetti “potenziali” di Industria 4.0 sul vecchio modello di produzione. Dobbiamo ragionare in termini di nuova domanda e quindi di nuova offerta. Diversamente l’Italia può solo perdere posti di lavoro.
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Note
[1] La citazione di Marx è tratta da Rosenberg (2001), p. 64.
[2] La citazione di W. E. G. Salter è tratta da Rosenberg (2001), p. 34.
[3] Romano R. e Lucarelli S., 2018, Squilibrio, ed. Ediesse, Roma. Libro di prossima pubblicazione.
[4] Il valore aggiunto derivante dai prodotti ad altro contenuto tecnologico è cresciuto esponenzialmente, collocandosi tra il 40 e il 50% di quello aggregato. Se guardiamo all’Italia comprendo il disagio, ma l’Italia non è un buon indicatore per valutare il progresso tecnico.