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Michele Serra
In fila per la Storia, in fuga dalla tv
13 Novembre 2006
Scritti su cui riflettere
Una buona notizia. Ciò che rivela e denuncia l’altissima audience di una lezione, nella piazza reale, di un archeologo (Andrea Carandini) e di uno storico (Luciano Canfora). Da la Repubblica del 13 novembre 2006

Cinquemila romani, di tutte le età, i più anziani muniti di seggioline pieghevoli, si sono messi in coda domenica mattina davanti all’Auditorium (a partire dall’alba…) per ascoltare una prolusione del professor Luciano Canfora su Ottaviano. Identica sorte aveva avuto una precedente conferenza dell’archeologo Andrea Carandini. I cinquemila fanno parte di una setta numericamente non quantificabile, ma decisamente considerevole: quella degli italiani che chiedono cultura. Inutile snocciolare qui di seguito l’ormai nota trafila di eventi grandi e piccoli (festival, fiere culturali, conferenze, dibattiti) che possono vantare vere e proprie folle di spettatori.

Devo piuttosto spiegare perché ho usato il termine "setta" per definire, con un paradosso, un fenomeno di massa. La condizione di chi domanda cultura è infatti, se misurata con il principale metro di rappresentazione (e rappresentanza) del nostro come di altri paesi, cioè la televisione, semiclandestina. A pieno titolo, ed è un secondo paradosso, di questa nuova clandestinità fa parte, come membro onorario, perfino un transfuga della televisione sedicente "popolare", come lo show-man Claudio Lippi, il cui autoesilio dai palinsesti, motivato da disgusto per la bassezza dei contenuti, andava forse trattato con minore supponenza.

Lippi, ovviamente, non ha alcuna parentela con Canfora e Carandini. È un intrattenitore di lungo corso, e si rivolge a ben altre fasce di pubblico. Eppure il suo rabbioso abbandono, proprio perché del tutto interno al mondo e alla logica del "popolare", è legato a un pauroso deficit di qualità: perché la qualità, sia chiaro, non significa trasmettere più kultura con la kappa e meno intrattenimento. Ci possono essere mediocri e corrive trasmissioni di libri, e strip-tease di totale raffinatezza: la cultura è un modo, uno sguardo, un approccio. Una qualità, appunto, non una quantità. Difatti a denunciare la catastrofe qualitativa della televisione non è un intellettuale sprezzante o uno scrittore ombroso, ma un protagonista trentennale della televisione facile, quella allegrotta e senza pretese destinata all’indeterminato (e fantasmatico) pubblico "delle famiglie".

Se parliamo proprio di lui, è perché la scomparsa del parametro della qualità dall’orizzonte televisivo è esattamente ciò che spiega l’apparente "stranezza" di una folla in coda per sentire la conferenza di un antichista. Viene da definirla "sorprendente", ma sorprendente non è. Banalmente, non è rappresentata. Quella folla, che è uno dei tanti segni di una solida e crescente domanda di qualità, che è quella che va a teatro, quella che entra in libreria, in buona misura anche quella che legge i quotidiani, abita in questo paese ma rarissimamente può riconoscersi in televisione. È come se la televisione l’avesse espulsa, nel nome di un ostracismo del "difficile" che viene poi smentito, in giro per l’Italia reale, dal facile e familiare approccio agli oggetti culturali da parte di moltissime persone.

Poiché non è immaginabile (e nemmeno desiderabile, per giunta) che la televisione, almeno quella pubblica, torni a comportarsi e a progettare secondo i vecchi ideali pedagogici e formativi della Rai delle origini, resta da chiedersi come mai un pubblico così ingente, e spesso così solvente, sia considerato superfluo o marginale dal management televisivo. Gli investitori pubblicitari, già da tempo, si preoccupano per il livellamento verso il basso di un audience dal portafogli piuttosto esiguo, e dai consumi limitati. Procedendo secondo cinismo – visto che di responsabilità politica e civile non sembra più il caso di parlare - , è possibile che la televisione, principale veicolo pubblicitario del paese, rinunci a rivolgersi alle fasce colte, o curiose di cultura? Quante delle moltissime persone che frequentano teatri, librerie e festival culturali dedicherebbero qualcosa di più di uno sguardo disgustato alla tivù (non solo al satellite: è la tivù generalista, checché se ne dica, che forma identità e descrive una società), se l’offerta fosse meno mediocre? Se, cioè, potessero nuovamente riconoscersi nella televisione come avvenne per l’Italia dei padri, che si formò anche davanti al video e nel video? E ammesso che la "setta" di cui sopra si sia formata, invece, contro la televisione, o senza la televisione, e tutto sommato possa continuare a farne volentieri a meno: che genere di delitto è escludere a priori che i meno acculturati possano, nella televisione, trovare stimoli, scoprire cose che non sanno, uscire dal ghetto?

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