Titolo originale: Developmentalism in the Big Apple – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini
Trent’anni fa, si poteva trovare facilmente un monolocale in un quartiere di ceto medio di New York City a 150 dollari al mese. Oggi, ne costa oltre 1.500: più di quanto il giocatore degli Yankees Reggie Jackson, all’epoca il più pagato nel baseball, guadagnasse nel 1977. Il suo appartamento sulla Fifth Avenue con terrazza affacciata su Central Park costa 1.466 dollari al mese. Mentre la paga minima non è certo salita a 27,82 dollari l’ora.
Come siamo arrivati a questo punto, è l’argomento del libro di Kim Moody, From Welfare State to Real Estate: Regime Change in New York City, 1974 to the Present (The New Press). Moody analizza il modo in cui il ceto affaristico di New York ha sfruttato la crisi fiscale degli anni ’70 per distruggere la “politica socialdemocratica” della città e imporre il programma neoliberale che detta “tagli alla spesa sociale, privatizzazioni, deregulation, e cosa più importante il riaffermarsi di un potere di classe da parte dei capitalisti”.
Ne risulta una città dove la disuguaglianza è cresciuta sino a livelli estremi, ben oltre quelli di altre zone del paese, in cui un piccolo ma in crescita gruppi di cospiratori, costituito dagli incredibilmente ricchi, usa l’amministrazione come macchina per far soldi, esercitando un potere assoluto su uno svuotato ceto medio e su milioni di lavoratori dei servizi, spesso immigrati, e con paghe minime. Moody, che è co-fondatore di Labor Notes, espone tutto questo con lucidità e chiarezza. Per chi ama New York, la lettura di questo libro è un momento di comprensione e rabbia, come davanti alla storia di un delitto di cui si conosceva personalmente la vittima.
É convinzione diffusa, che la crisi fiscale del 1975 sia stata causata da politiche riformiste fuori controllo: l’estensione dei servizi sociali negli anni ’60, o i costi di gestione della più ampia rete di servizi di qualunque città americana, con 22 ospedali pubblici, un sistema universitario gratuito e la più capillare metropolitana del mondo. Moody indica come le spese in quella direzione avessero fortemente rallentato già dagli anni ‘60, mentre lievitavano per la città i costi degli interessi sul debito. Postula che l’eliminazione delle forti riduzioni fiscali per le imprese costruttrici avrebbe potuto far molto per evitare la crisi. Una spiegazione che appare un po’ fragile: la causa strutturale profonda era la massiccia deindustrializzazione della città. Moody nota come New York abbia perduto la sconvolgente quantità di 600.000 posti di lavoro industriali, fra il 1968 e il 1977. Fu eliminata così la ricchezza dei ceti lavoratori che era la base politica ed economica a sostegno del sistema di infrastrutture pubbliche. Sparì anche la fonte tradizionale di reddito legale dei quartieri più poveri della città.
Spaventati da quanto avrebbe potuto succedere in caso di bancarotta del sistema, i sindacati locali collaborarono al programma delle élite, di tagli dei posti di lavoro e dei servizi. La trasformazione verso un’economia dominata dalla finanza ripristinò in assoluto la ricchezza della città, ma la sua distribuzione ne risultò fortemente diseguale. E visto che il mondo del lavoro aveva tacitamente acconsentito a questa evoluzione delle cose, la politica della città nei 25 anni successivi sarebbe stata dominata da orientamenti razziali. Gli elettori bianchi votarono Ed Koch o Rudy Giuliani, con la sua campagna e le politiche orientate da slogan di basso profilo per legge-e-ordine. David Dinkins, unico sindaco nero (1990-93), evoca più una diversità simbolica che non una vera messa in discussione del programma delle élite. Moody nota come il sindacato insegnanti rifiutò di sostenerne la rielezione: il motivo, perché Dinkins aveva promesso loro un aumento di stipendio, promessa poi non mantenuta dopo l’opposizione dell’ establishment.
L’attuale sindaco Michael Bloomberg è spesso definito un liberal – un’epoca senza valori, questa, quando il solo fatto di non essere fanatico rispetto alla vita sessuale altrui basta a qualificare in qualche modo come progressista — ma è in realtà un devoto plutocrate. Non aggressivo come Giuliani (anche se simile a lui nel disprezzo per le libertà civili), ma il suo ruolo richiede tratti caratteriali diversi. Obiettivo di Giuliani era di mettere ordine nelle questioni razziali “ingovernabili”; quello di Bloomberg di consentire ai ricchi di accumulare altri mucchi di soldi. Moody definisce la filosofia del sindaco “immobiliarismo”: affollare lo skyline di torri ad appartamenti di lusso, regalando più di 3 miliardi di dollari l’anno di tagli fiscali a imprese e abitazioni per ricchi, mentre una quantità crescente di lavoratori residenti a New York spende oltre la metà di quanto guadagna per l’affitto. Nel corso di questo boom immobiliare, nota Moody, non solo il prelievo dai ceti operai — redditi e tasse commerciali — ha sorpassato le imposte sugli immobili come base di introiti per la città, ma lo stesso sistema delle tasse sugli immobili è così distorto che il proprietario di una casa bifamiliare di un quartiere nero a redditi medio-bassi vicino all’aeroporto Kennedy Airport paga quasi tre volte la percentuale sul valore di mercato di dodici stanze affacciate sulla Park Avenue.
Bloomberg ha fatto alcune promesse altisonanti, sulla costruzione di case economiche, ma Moody analizza le formule utilizzate per definire cosa venga considerato “economico”. Sulla base del reddito medio nell’area metropolitana, gli appartamenti che si affittano fino a 1.800 dollari al mese vengono classificati “medi”, come quelli nel progetto sportivo/residenziale per le Atlantic Yards a Brooklyn. E sia il sindaco che il Governatore Eliot Spitzer, un Democratico, si oppongono al ripristino del potere della città di controllare gli affitti. Moody non approfondisce molto la questione, ma la legge statale del 1971 che proibì alla città di contenere gli affitti in misura superiore a quanto accadeva nel resto dello stato, fu un annuncio dell’epoca neoliberale. Metteva di fatto il potere nelle mani dei Repubblicani delle zone suburbane ed esterne, i cui legami principali con la città sono i soldi che ricevono dai proprietari. Quando eliminarono tutte le norme di controllo degli affitti nel 1997, e poi quando l’ex Governatore George Pataki in pratica eliminò qualunque forma di repressione riguardo a canoni illegalmente elevati, l’amministrazione cittadina non fu in grado di far nulla per fermarli.
Contro tutto questo, Moody auspica la possibilità che emerga qualche nuova spinta sociale, dal milione di iscritti cittadini ai sindacati, o da organizzazioni di base come la Make the Road By Walking di Brooklyn, o da gruppi di quartiere e per la casa o anti- gentrification, per lottare contro il neoliberalismo. É una speranza debole per ora, ma essenziale.
Una recente, promettente tendenza, è la crescita delle organizzazioni contro il “razzismo ambientale”, ovvero la pratica di collocare inceneritori nei quartieri operai poveri latini e neri, già inquinati. Come mi ha detto un amministratore nei primi anni ’90 quando seguivo la campagna contro un impianto da 55 strati nella zona dei cantieri navali di Brooklyn: “Dove altro dovremmo metterlo? Sulla Quinta Strada?”
Un libro di Julie Sze, Noxious New York: The Racial Politics of Urban Health and Environmental Justice (MIT Press) analizza il modo in cui gli attivisti in questi quartieri presi di mira uniscono le questioni ambientali a quelle di classe e razza. Si sviluppano anche nuove tattiche com ele cosiddette “Squadre Terra”, adolescenti che collaborano con la Columbia School of Public Health per rilevare fuliggine e inquinamento da particolato in quattro incroci nella zona del deposito autobus di West Harlem; i militanti hanno usato i dati raccolti per convincere l’amministrazione a cambiare gli autobus, a veicoli ibridi.
Dal movimento emergono due principi. Uno è il focalizzarsi sugli effetti cumulativi dell’inquinamento nel quartiere. Nel South Bronx, dove in alcune scuole aveva l’asma il 40% degli alunni, gli attivisti hanno osservato che un proposto inceneritore di rifiuti sanitari avrebbe solo peggiorato le cose. Quando Giuliani ha chiuso la leggendaria puzzolente discarica di Fresh Kills a Staten Island nel 1996, e progettava di privatizzare lo smaltimento dei rifiuti e trasportarli via camion verso altri stati, una delle critiche principali al piano è stata che si sarebbero rovesciati gli scarichi dei motori diesel nell’aria di Williamsburg e del South Bronx, che ospitano gran parte dei punti di smistamento dei rifiuti della città. L’altro principio emerso è quello di “precauzione”, ovvero che sono i potenziali inquinatori a dover dimostrare che le loro operazioni si svolgeranno in modo non dannoso, e non le comunità a dover provare danni diretti.
La Sze intreccia in modo affascinante alcune storie nel suo libro, come quando sottolinea che all’inizio del XX secolo, l’80% delle città degli USA prescrivevano di riciclare i rifiuti organici e le ceneri di carbone. Ma si tratta di una scrittura che spesso cade nell’ovvio. Quando descrive il volantino delle organizzazioni ambientaliste che propone il Governatore Pataki insieme a un ragazzino nero con inalatore per l’asma, la Sze scrive, “ Un contrasto visivo, quello fra il politico più potente dello stato e il bambino di colore con l’asma, che rappresenta in modo letterale le politiche di base [dei gruppi] e il sistema delle convinzioni”. Visto che sono stati incrociati i documenti delle varie campagne per la giustizia ambientale, il libro avrebbe potuto anche avvantaggiarsi di diverse testimonianze dei protagonisti e delle comunità, valutando quali strategie paghino, e quali no: cosa che non è stata fatta e di cui c’è gran bisogno.
Abbiamo disperatamente bisogno di saggezza organizzativa, in particolare di fronte a quello che dimostrano chiaramente questi due libri, ovvero che il neoliberalismo è una miscela velenosa di oppressione economica e devastazione ambientale.