Il manifesto, 6 marzo 2016
Ě difficile credere che l’ambasciatore Usa Philips abbia parlato a vanvera, quando ha detto di aspettarsi 5000 uomini dall’Italia per l’intervento in Libia. Non sorprende perciò che Matteo Renzi, di solito oratore inarrestabile e sfiancante, taccia da giorni sulla questione, preferendo occuparsi dei sindacati della reggia di Caserta. Ma allora, che vuol fare Palazzo Chigi? Andare in Libia o no?
Tutto dipende, naturalmente, dal significato di “andare in Libia”. Per chiarire la questione dobbiamo tornare al decreto del 15 novembre 2015, con cui si ponevano i corpi speciali delle forze armate sotto il comando dell’Aise (servizi di sicurezza esterna), cioè di Renzi. Un decreto passato incredibilmente con 395 voti a favore, 5 contrari e 26 astenuti (tra cui Sel e M5S, che sarebbero gli “oppositori” di Renzi). Un decreto formalmente legale, come vuole il Quirinale, ma che sottrae al parlamento, con il suo consenso supino e preventivo, il controllo delle operazioni militari. Una carta in bianco al governo, insomma, per qualsiasi guerra presente o futura.
Successivamente, la parte attuativa del decreto è stata secretata in modo così maldestro, che tutti ne sono venuti a conoscenza. Di fatto, il solo D’Alema (che di guerra s’intende, avendone fatta una extraparlamentare nel 1999) ha parlato a suo tempo contro il decreto, sapendo come agiscono i nostri servizi, tra intrighi e inefficienza. La nebbia che circonda la morte dei due ostaggi di Sabrata e il ritorno degli altri due sembra proprio dargli ragione.
Ě chiaro ormai che Renzi vuole intervenire in Libia, ma senza che si sappia in giro. D’altronde, non è lo stesso “pacifista” che fa rifinanziare le missioni italiane all’estero e manda 500 uomini in Iraq a proteggere un’azienda italiana? Si direbbe però che questa volta si sia infilato in un gioco ben più complesso e pericoloso di quelli che ama giocare a colpi di alleanze variabili e discorsi fiume. Un conto è promettere ossessivamente un destino roseo a un paese prostrato dalla povertà e giocare sui decimali del Pil. Altra questione, ben più seria, è promettere agli Usa di intervenire e poi non mantenere le promesse, perché i sondaggi gli dicono che la stragrande maggioranza del paese non vuole nessuna guerra, e chiunque, da Berlusconi a Prodi, gli intima di non pensarci nemmeno. Gli americani, si sa, non si accontentano delle chiacchiere quando c’è da andare al sodo.
La verità è che la guerra in Libia c’è già e che americani, inglesi e francesi, senza avvertire nessuno, si stanno dando da fare da mesi tra il confine tunisino e quello egiziano. Appoggiando in sostanza il generale Haftar, sostenuto dall’Egitto ma odiato dal governo di Tripoli, che in sostanza è dei Fratelli musulmani. In queste condizioni, pensare che in Libia possa nascere un governo di unità nazionale, come vorrebbero le anime belle dell’Onu, e che l’Italia possa guidare la coalizione anti-Isis è una pia illusione, anzi fa francamente ridere.
L’Italia non guiderà nessuna coalizione diplomatico-militare, perché Usa, Francia e Inghilterra si fanno i fatti propri, oggi come nel 2011, e l’Italia ha ben poco peso nella faccenda, a onta degli squilli di tromba degli editorialisti con l’elmetto. D’altra parte, Renzi ha ben pochi alleati in Europa, non si può mettere contro Hollande e quindi dovrà ingoiare il rospo e accettare, al di là delle sparate propagandistiche, un ruolo subordinato, esattamente come Berlusconi nel 2011. Così, quello che farà l’Italia sarà mandare qualche decina di uomini a difendere i suoi interessi energetici, incrociando le dita e sperando che nessuno si faccia ammazzare. D’altronde il famoso decreto garantisce la necessaria riservatezza sulla faccenda.
Ma la guerra c’è, in un contesto in cui centinaia di bande e milizie, che fanno capo oggi a Tripoli e domani all’Isis, o viceversa, si sparano addosso senza tregua. E quindi le conseguenze si faranno sentire eccome, anche se l’Italia si nasconderà dietro il paravento della legalità internazionale o invierà un po’ di soldati alla volta. Sperando che l’Isis non se ne accorga. E sperando anche che con il tempo nessuno si ricordi più di Giulio Regeni, visto che l’Egitto è un nostro caro alleato.
Ormai, non è retorica dire che tutto il Sahara è in fiamme, dall’Algeria all’Egitto, grazie al genio politico di Sarkozy e Cameron, di Bush e di Blair (i comandanti dell’Isis in Libia vengono dall’Iraq). In questa situazione, l’abilità politica che funziona con Verdini e Alfano, o per tenere a bada la sinistra Pd, serve a ben poco. Giorno dopo giorno, scivoliamo in una guerra senza strategia e che gli altri hanno deciso per noi.
L’unica consolazione, ma è ben poca cosa, è che questa volta, diversamente dal 2011, nessun sessantottino pentito vuole la guerra in nome dei diritti umani.