Il manifesto, 8 marzo 2015
Settimana lavorativa di 35 ore, permesso di paternità equiparato a quello di maternità, scuole infantili e ospizi gratuiti. Sono solo alcune delle proposte contenute in un documento che potrebbe gettare le basi per una rivoluzione culturale nella gestione delle politiche assistenziali. A firmarlo l’esperta fiscale Maria Pazos e l’economista Bibiana Madialdea, che su incarico di Podemos, hanno elaborato una proposta di taglio femminista per riformare un settore dello stato sociale congenitamente «obsoleto, ingiusto, insufficiente e insostenibile», come spiega María Pazos Morán, 61 anni, attivista della piattaforma internazionale per la parità di genere Plent e ricercatrice dell’Istituto nazionale di studi fiscali, dove dirige il programma di politiche pubbliche e uguaglianza di genere.
La proposta si basa su principi di solidarietà, proporzionalità, cittadinanza universale e individualizzazione dei diritti. Quasi un’utopia nel clima neoliberista spagnolo…
«In realtà si tratta di proposte concrete e attuabili, che sul medio termine porterebbero notevoli benefici economici e potrebbero contribuire al superamento della crisi. Riorganizzare le politiche assistenziali vuol dire anche razionalizzare la spesa e ridurre il rischio di esclusione sociale e povertà, attualmente i principali ostacoli al consumo. In questi anni si è agito in senso contrario e i tagli e l’individualismo neoliberista hanno contribuito al deterioramento dello stato sociale, anche se il problema va oltre l’insufficienza di risorse: non c’è dubbio che siano necessari più investimenti, ma altrettanto necessario è riorganizzare strutturalmente e ideologicamente il sistema».
Da dove bisogna cominciare?
«Il cuore del problema sono le politiche di conciliazione della vita familiare e lavorativa. Attualmente si incentiva l’abbandono totale o parziale del lavoro per chi si fa carico di mansioni si assistenza: così si dispensa lo stato dall’assistenza dei più bisognosi per relegarla all’ambito familiare, ovvero, per ragioni culturali e sociali, a quello femminile. Questa impostazione perpetua una concezione dicotomica dei ruoli di genere, e crea ingiustizie che hanno un alto costo sociale. In primo luogo per le donne stesse, che sono ostacolate nella loro realizzazione lavorativa, discriminate nella ricerca d’impiego e pertanto più soggette alla dipendenza economica e all’esclusione sociale.
«Ma anche per gli uomini, che vengono costretti al margine dell’ambito familiare e delle cure. Inoltre la rinuncia al lavoro non è compensata: l’assistenza non è considerata come un lavoro, non gode degli stessi diritti e protezioni, e dà luogo a fenomeni di segregazione e di economia sommersa».
La vostra è una proposta femminista contro un welfare maschilista?
«Più che maschilista direi patriarcale, basato su un modello disequilibrato uomo-capofamiglia/sposa dipendente. Il nostro modello vorrebbe ristabilire un’uguaglianza di diritti e doveri che è vantaggiosa per tutta la società: basti pensare al capitale umano che questa discriminazione disperde. Pertanto la nostra è una proposta femminista nel senso che punta a correggere un ordine che allo stato attuale pregiudica soprattutto le donne».
Su quali basi dovrebbe fondarsi un sistema assistenziale egualitario?
È imprescindibile che l’assistenza esca dall’alveo della famiglia, dove sarà sempre la donna a farsene carico: perciò abbiamo insistito sull’individualizzazione e l’intrasferibilità dei diritti. Ma non è solo una questione di uguaglianza e di emancipazione femminile.
«I dati demografici lo dimostrano: la popolazione invecchia e nel 2040 il numero delle persone bisognose d’assistenza saranno il doppio che nel 2008. E se si aggiunge che meno del 20% dei bambini sotto i 3 anni va all’asilo per più di 30 ore alla settimana, risulta chiaro che il cambio di paradigma è urgente. D’altra parte non si tratta di affidare tutto allo stato, ma di creare corresponsabilità e garantire diritti affinché uomini e donne possano dedicare indistintamente tempo all’assistenza familiare senza dover trascurare altri ambiti. In Svezia queste riforme sono state fatte verso la fine degli anni 60, in una società meno avanzata di quanto non lo sia quella spagnola di oggi».
E perché, invece, in Spagna, come in molti altri paesi mediterranei, si è fatto poco o nulla?
«Perché è necessaria un precisa volontà politica e un colpo di timone ideologico, come quello che diede Zapatero con la riforma sul matrimonio omosessuale. Non si sta parlando solo di un cambio di norme, ma anche di mentalità e di valori.
«Una riforma come questa è possibile solo all’interno di una catarsi sociale che sostituisca individualismo e consumismo con solidarietà, educazione, cultura, apertura all’altro. D’altra parte il fermento politico e le istanze di cambiamento che vengono dalla cittadinanza fanno pensare che i tempi siano maturi».
Quali sono le misure chiave del vostro programma?
Nell’ambito della cura degli anziani, garantire a ogni persona il diritto all’indipendenza e a essere assistita in strutture statali. Per quanto riguarda la maternità/paternità, la progressiva introduzione del permesso retribuito al 100% e di uguale durata per entrambi i genitori indipendentemente dal sesso e dall’orientamento sessuale. Le sole due settimane di permesso per i papà (a fronte delle 16 materne, ndr) sono costate solo 200 milioni di euro nel 2014.
Estenderle avrebbe un costo relativamente basso, ma inestimabili vantaggi: metterebbe fine, in primo luogo, alla discriminazione delle donne nella ricerca d’impiego e apporterebbe evidenti benefici nella cura del neonato. Per quanto riguarda l’educazione infantile, proponiamo asili gratis fino a 3 anni, e settimana lavorativa di 35 ore».
La misura più urgente?
«Direi l’equiparazione dei congedi parentali. È la più emblematica».