Titolo originale: Lost in space in the suburbs – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini
Provate a indovinare dove sono atterrato questa settimana. Qualche indizio. La città è sede di uno dei principali fornitori americani di telefonia fissa e mobile. È piatta, enorme, e ha prodotto un proprio spettacolo TV. Anzi, quello spettacolo ha avuto tanto successo che adesso ricomincia. Non avete ancora indovinato?
OK, qualche indizio in più. Uomini massicci, grosse fibbie lavorate a tener su i pantaloni, e spesso stivaletti dai tacchi alti indossati insieme all’abito da ufficio. Le donne fumano grossi sigari. Ci ha sede la catena di grandi magazzini Neiman Marcus, ma non si capisce.
Possibile che non ci siate ancora arrivati?
Ci sono i cowboys, c’è JR e tutto il resto. Dai, lettori, siamo a Dallas.
Dopo essere stato a Monaco, a fare un giro per Hong Kong e poi una settimana a Chicago, con Dallas è un’altra cosa. Atterro martedì pomeriggio su uno di quei nuovi – e non certo migliori – 737 della American Airlines. Certo c’era il servizio WiFi e i sedili non traballavano, ma volare è un’esperienza priva di qualunque fascino in una business class senza schienali reclinabili obbligati a strisciare il fondoschiena sul cuscino, a pranzo gamberi e un po’ di formaggio grigliato, orrende coperte e imbottite.
Giù dall’aereo e in aeroporto mi incontro con un amico in attesa con l’auto, e dopo qualche minuto siamo sulla superstrada diretti verso l’albergo. Si avvicina l’ora di chiusura degli uffici, e chiedo se ce la faremo a evitare il traffico di punta. L’amico mi rassicura: non è mai peggio di quanto non sia adesso, e ci stiamo muovendo senza alcun impaccio. Fuori dalla superstrada arriviamo in un complesso alberghi con campi da golf case uffici, inizio a notare parecchi cartelli vendesi affittasi, saracinesche abbassate: una stazione di servizio, un intero palazzo. Fasce commerciali, depositi, pare esserci gran disponibilità di spazi in offerta, se qualcuno volesse mai trasferirsi qui nel sud-ovest.
Provo a immaginarmi come dev’essere la vita in questa particolare zona, mentre ci fermiamo davanti all’albergo dove ci saluta un piccolo esercito di addetti in abiti di foggia coloniale. Prendono i miei bagagli e scompaiono dentro prima che faccia in tempo a tirar fuori il portafoglio e il passaporto.
Al bancone, mi fanno il solito discorsetto sui servizi aggiuntivi e a possibilità di scegliere un’altra camera con tutte le comodità. Chiave elettronica in mano, mi dirigo verso la camera, e mentre attraverso l’atrio sono colpito dallo strano odore caratteristico del settore accoglienza Usa. Spero si tratti di un odore che aleggia solo nei corridoi, ma entrato in camera quella puzza quasi mi stende.
Forse che gli alberghi vintage americani (anni ’70 e ‘80) hanno tutti i medesimi impianti di aria condizionata, e sono costruiti coi medesimi materiali? O magari è quell’arredamento da quattro soldi a emettere gas velenosi? O i materassi? Questo posto vanta di essere uno dei migliori della città, fa parte di una delle migliori catene mondiali, e la cosa mi lascia perplesso. Apro la porta verso il terrazzino nella speranza che quella concentrazione di aria stantia fatta di residui dei filtri, tabacco, deodoranti vari, lenzuola sporche, sudori notturni, se ne vada. Ma dopo dieci minuti, sono di nuovo in corridoio con le mie borse, e torno sui miei passi fino all’auto. Il personale al banco è allibito quando restituisco la chiave e ritiro qualche busta.
“Oh mamma mia. C’è qualcosa che non va?” chiede una giovane addetta. Per un attimo vorrei dirle di quello strano odore, tipico di tanti alberghi americani, ma so che non potrebbe farci nulla, e so anche che il messaggio si perderebbe per strada prima di arrivare alla direzione generale della catena. “Va tutto benissimo, solo un piccolo cambio di programma”.
Di nuovo in auto, anche l’amico è un po’ perplesso di rivedermi col bagaglio. Gli spiego che c’è stato qualche pasticcio con la logistica, non voglio dirgli della mia convinzione secondo cui l’economia dei servizi americana ha preso qualche brutta piega.
Mentre ci dirigiamo verso il centro città, superando altre strisce commerciali abbandonate e palazzi per uffici sprangati, provo a ragionare su come un urbanista potrebbe provare a ricomporre tutti questi frammenti sparsi. Si può solo demolire e ripartire daccapo? O magari lanciare qualche grande piano di riqualificazione sostenendo quartieri urbani anziché zone ad una sola funzione? Ma si riuscirebbe a convincere gli americani, e figuriamoci i texani, a un po’ più di densità? Dopo un quarto d’ora arriviamo all’Highland Park Village, probabilmente una delle pochissime zone commerciali d’America classificate di interesse storico. Pullula di vita e attività. Perché? Perché è fatta di spazi raccolti, di verde, è densa e dotata di tutte le tentazioni della città comodamente vicine l’una all’altra.
Qualche ora più tardi, mentre guardo alla televisione il dibattito presidenziale, mi viene da pensare che sarebbe vincente, un candidato con un’idea per la rivitalizzazione delle città americane.
Postilla
L’interesse del giornalista, specializzato specificamente in turismo accoglienza e dintorni, si concentra sugli aspetti di abitabilità, o estetici, ma non sfugge certo al lettore come la brevissima conclusione rinvii al famigerato modello di sviluppo territoriale disperso. Ecco, saltando al contesto italiano pare impietoso notare sino a che punto il dibattito politico di questi giorni sembri ignorare il problema territorio ambiente sviluppo, con la lodevole eccezione del ddl consumo di suolo del ministro Catania. L’antipatico ma spesso puntuale Fabio Balocco sul Fatto quotidiano ha provato a passare in rassegna i vari programmi delle forze politiche, senza trovare tracce visibili a occhio nudo. Anche nella Lombardia piagata da lustri di formigoniana Città Infinita, dove ancora si spinge per il famoso emendamento che consentirebbe ai privati del project financing di costruire fuori da ogni regola future strip commerciali abbandonate come quelle di Dallas, di tutto si parla salvo che del modello territoriale e socioeconomico connesso. Colpa di chi ne capisce e dovrebbe spiegare meglio al pubblico le cose, invece di avvitarsi in linguaggi iniziatici? Io non lo so, e voi? (f.b.)