ilmanifesto, 11 dicembre 2016 (c.m.c.)
Abbiamo evitato il peggio. E ora? Nessuno si illuda, la strada è ancora in salita. Se non vogliamo cadere non possiamo star fermi, dobbiamo continuare ad arrampicarci. Soprattutto evitiamo d’inciampare. Non lasciamo che una nobile e non scontata vittoria della democrazia costituzionale, da noi così faticosamente costruita, sia ricondotta alle miserie della cronaca, per poi svanire nel nulla. Il rischio è di ritrovarci, tra qualche anno, ancora sotto assedio, di nuovo a difendere i principi costituzionali da un sistema politico che da tempo si mostra insofferente ai limiti che le leggi supreme pongono ai sovrani di turno.
I primi commenti, dopo il referendum, sono tutti orientati a valutare le ripercussioni politiche immediate; concentrati sulla crisi di governo, sui nuovi equilibri all’interno delle diverse forze politiche, sul futuro personale di Renzi. Molti partiti cercano di cavalcare la vittoria, per ottenere un successo fulmineo, andando alle elezioni. Persino il partito responsabile della débâcle referendaria tenta di risorgere dalle ceneri, mettendosi il più rapidamente possibile alle spalle la questione della costituzione e della sua riforma, per ripresentarsi agli elettori come se nulla fosse accaduto.
C’è un gran bisogno di qualcuno che guardi più in là se si vuol far sì che il referendum abbia un seguito non effimero. Una decisione popolare sulla costituzione deve intervenire sul corso della storia politica e sociale di questo paese che da oltre vent’anni arretra: può legittimare un cambiamento radicale. Arrestare il lungo regresso, è questo il compito ampio, ambizioso, ma ineludibile, che la cesura espressa dal voto popolare ci affida. Un’impresa che non può essere semplicemente delegata ai partiti, perlopiù screditati e compromessi; un obiettivo che non può essere barattato neppure con la vittoria alle prossime elezioni.
Sarebbe probabilmente una vittoria di Pirro, che condannerebbe comunque i vincitori ad operare entro un sistema istituzionale e culturale compromesso a tal punto da rendere assai probabile il fallimento. Inutile nasconderlo: dobbiamo attrezzarci ad una lunga marcia.
Per cambiare finalmente strada, muovendosi nella giusta direzione, bisogna anzitutto comprendere il senso profondo del voto che si è espresso contro la riforma Renzi-Boschi. Esso deve essere interpretato come la volontà di riaffermare i principi della costituzione, determinazione espressa con uno spirito tutt’altro che conservatore. Solo la retorica del potere poteva far credere che si era contro questa riforma perché soddisfatti dello stato di cose presenti.
Nessuno ha difeso l’odierno bicameralismo agonico, né l’attuale regionalismo caotico, in caso s’è compreso che la riforma avrebbe peggiorato la crisi. Il rifiuto ha riguardato la pretesa di accentrare il potere, contrapponendo un’altra idea di costituzione. Un voto arrabbiato, in caso, ma non certo arreso. Tant’è che contro la riforma si sono espressi soprattutto i più giovani e i meno abbienti, da sempre il motore del cambiamento. Ma – si potrebbe replicare – anche i fautori della riforma intendevano «cambiare».
È vero: la riforma avrebbe indubbiamente prodotto una profonda trasformazione dell’assetto istituzionale definito in costituzione. Dunque, a ben vedere, si sono scontrati due diversi modi di intendere il rapporto tra governanti e governati, diverse visioni di democrazia costituzionale. Da un lato, coloro che ritengono essenziale semplificare la complessità sociale e rendere autoreferenziale il sistema politico e le istituzioni rappresentative (seguendo il modello classico della democrazia d’investitura), dall’altro chi crede si debba estendere la partecipazione e legittimare i conflitti sociali, rendendo le istituzioni rappresentative il luogo della composizione e del compromesso politico (secondo un diverso e altrettanto tipico modello di democrazia pluralista e conflittuale). La prima prospettiva è quella perseguita negli ultimi vent’anni non solo in Italia. La seconda ha vinto il referendum.
Entro questo secondo schema dovremmo dunque lavorare, non sarà facile dare forma e sostanza al modello indicato. D’altronde, non può pretendersi che il rifiuto del 4 dicembre si trasformi come d’incanto in un progetto costituzionale inverato. Sta a noi costruirlo. Un viatico però c’è, ed è la costituzione, che non a caso esprime proprio quel certo modello di democrazia pluralista e conflittuale che da tempo si vuole sterilizzare. Sono dunque i suoi principi che ci indicano la rotta. Tutti coloro che in questi anni si sono adoperati per favorire un cambiamento contro la costituzione avranno difficoltà a comprendere che essa possa oggi rappresentare la leva della trasformazione radicale della realtà. Ma non può invece stupire chi conosce la forza prescrittiva (“rivoluzionaria”) che i testi costituzionali hanno espresso nella storia. E che ancora possono dispiegare.
Certo per impegnarsi in questa direzione diventa necessario recuperare una solida cultura costituzionale. Essa sembrava essere scomparsa, affogata nella retorica del revisionismo costituzionale dominante. E invece l’abbiamo ritrovata – anche con qualche meraviglia – nei tanti incontri che hanno caratterizzato questa lunga, interminabile campagna referendaria. In fondo un merito grande dobbiamo riconoscerlo ai nostri improvvidi revisionisti. Grazie a loro di costituzione abbiamo discusso per mesi e il popolo ha risposto non solo nelle urne, ma anche nelle piazze. In giro per l’Italia sono sorti comitati, si sono impegnati in riflessioni, né facili né consuete, gruppi sociali, associazioni, singoli individui. Una riscoperta del valore della costituzione c’è stata.
Se questo è il quadro, qual è l’agenda? Quali, in concreto, le rivendicazioni possibili? Quali i cambiamenti pretesi? Non è difficile indicarli, anzi lo abbiamo già fatto in tutti i nostri incontri prima del referendum.
La riforma sepolta voleva ridurre ulteriormente l’autonomia e il ruolo costituzionale del parlamento a favore di una idea distorta e impropria di stabilità dei governi. Noi abbiamo rilevato la necessità di recuperare la centralità dell’organo della rappresentanza politica e quella delle persone concrete. Se veramente vogliamo invertire la rotta non rimane che mettere in pratica le misure necessarie:
una legge elettorale che permetta ai diversi soggetti sociali di trovare una rappresentanza istituzionale e che ricolleghi l’elettore all’eletto, senza cedere all’eccesso di frammentazione (ovverosia un sistema proporzionale uninominale con sbarramento);
il rafforzamento degli istituti di partecipazione diretta che si affianchino alle istituzioni di democrazia rappresentativa (non si tratta solo di ripensare i referendum, ma anche dare contenuto agli strumenti d’iniziativa popolare che devono essere discussi dagli organi della rappresentanza, come una semplice modifica dei regolamenti parlamentari potrebbe garantire);
nuove regole di discussione parlamentare (il che vuol dire riscrivere i regolamenti parlamentari, abbandonando le attuali logiche “decidenti”, per adottare nuovi principi che assicurino, da un lato, alcune prerogative della maggioranza, dall’altro, la possibilità delle opposizioni di partecipare a pieno titolo alla decisione garantendo l’esame approfondito delle proposte di tutti);
la limitazione dell’invasività del governo in parlamento (basterebbe impedire – sempre per via regolamentare – la possibilità di proporre maxiemendamenti e limitare l’abuso delle richieste di fiducia sui disegni di legge, si dovrebbe inoltre dare applicazione alla normativa e alla giurisprudenza costituzionale esistente per limitare la decretazione d’urgenza);
la ridefinizione dei ruoli costituzionali del legislativo e dell’esecutivo (con una riduzione del numero delle leggi grazie ad una legislazione solo di principio e una semplificazione della fase di attuazione della normativa da affidare ai governi);
la razionalizzazione dei rapporti tra Stato centrale e enti territoriali, in base ad una coerente scelta di sistema (che può portare alla abolizione del Senato e alla riorganizzazione della Conferenza Stato-autonomie, ovvero alla definizione di un equilibrato regionalismo solidale).
Questo è un primo incompleto elenco delle possibili innovazioni con riferimento all’organizzazione dello stato, quella su cui si voleva intervenire con la riforma sconfitta. Possibili cambiamenti in nome della costituzione, opposti a quelli che si volevano imporre contro di essa. Ma, il nostro riformismo radicale non può certo accontentarsi di riorganizzare lo Stato-apparato: non abbiamo mai creduto alla favola della costituzione fatta a fette. La prima parte sui diritti intangibile e buona di per sé, la seconda sui poteri liberamente modificabile e nella totale disponibilità del revisore. Un modo per sterilizzare la costituzione nel suo complesso.
Il rilancio della cultura costituzionale deve voler dire anche abbandonare queste mistificazioni. Una migliore organizzazione dei poteri serve in primo luogo per dare effettiva attuazione ai diritti costituzionali. È da qui che possiamo partire. Non sarà facile vista la drammatica assenza di una rappresentanza politica a sinistra. Ciò non toglie che ciascuno dovrà fare la sua parte ed assumersi le proprie responsabilità. Soprattutto a sinistra.